Questo saggio fu scritto e pubblicato nel 1864, cioè solo quattro anni dopo la creazione del Regno d’Italia e l’annessione delle Provincie meridionali, già Regno borbonico, da parte dei Savoia. All’epoca lo Stato Pontificio continuava ad esistere, al centro dell’Italia, e in particolare la sua frontiera meridionale confinava con le nuove provincie meridionali.

In queste Provincie, non vi fu una pacifica accettazione del nuovo Stato nazionale, tutt’altro. L’orrore era diventato ordinaria amministrazione, come le teste decapitate e i villaggi bruciati, la fame e la sete, il puzzo di polvere da sparo, le lacrime delle donne e dei bambini prima di essere ammazzati. Sui giornali si esercitava una contabilità macabra. Uno di quelli, “Il Pungolo”, poteva scrivere a metà marzo che «Un’altra notizia venne ad aumentare l’allegrezza»: gli usseri di Piacenza e i bersaglieri stanziati in Ripacandida «reduci da una perlustrazione, avevano portato in paese le teste di tre briganti uccisi nel bosco di Lagopesole».

Nel frattempo nel Parlamento di Torino si levarono alte e vibranti le voci di Nino Bixio e di Giuseppe Ferrari. Il generale garibaldino ricordò invano nell’aula di palazzo Carignano che «se vorrete un’Italia si compia, bisogna farla con giustizia, e non con l’effusione di sangue». E il milanese Ferrari, socialista e federalista, gli fece eco, egualmente inascoltato: «Se la vostra coscienza non vi dice che state sguazzando nel sangue, non so più come esprimermi». Dal 1863, con la Legge Pica, era stato istituito nel Sud lo stato d’assedio, con la sospensione di gran parte delle garanzie costituzionali; la denunzia di illegalità e arbitri commessi in Sicilia provocò un aspro dibattito alla Camera, e il deputato Garibaldi si dimise, spiegandone le ragioni anche con il «vituperio della Sicilia, che io sarei orgoglioso di chiamare la mia seconda terra d’adozione».

In questo clima, fu pubblicato il libro di Bianco, un lungo resoconto delle vicende che l’autore, ufficiale dell’Esercito Italiano, visse durante gli anni 1860-1863, prestando servizio nelle zone che fino a pochi mesi prima facevano parte del regno dei Borboni, al confine con lo Stato Pontificio. Dedicato al Generale Govone, suo comandante in capo, Bianco riferisce con abbondanza di particolari come si svolgesse la vita nei numerosi paesi in cui l’Esercito cercava di stabilire l’ordine pubblico, combattendo non solo contro i banditi, ma anche contro le potenti influenze che controllavano il territorio più e meglio del nuovo Stato Italiano.

Per ognuno dei Comuni di quella vasta zona appenninica, si ripetevano più o meno le stesse vicende: i gentiluomini del paese, sovente divisi fra due opposte famiglie in lotta fra loro, si impadronivano di ogni istituzione politica e civile, facendone uso per i propri interessi e fomentando il rimpianto per il passato Governo; i caffoni, abituati a subire ed a vedersi taglieggiati, non comprendevano che potrebbero denunciarne i soprusi ed i ricatti al nuovo governo, ed invece lo ritennero responsabile di tutto ciò che non va. Gli uni e gli altri preferivano aiutare i briganti, per timore di vendette o per espliciti accordi di convenienza, e ne denunciavano le azioni con ritardo, in modo che l’Esercito non potesse intervenire tempestivamente e arrestarli.

Bianco è durissimo nelle sue accuse, ci presenta quindi fin dalle prime pagine «un popolo guasto e tarlato da ogni vizio e sucidume» (pag 21). E e più avanti spiega anche come questo sia possibile:

«La plebe è per natura docile e pieghevole, ma resa infinta, ipocrita e malvagia dalla educazione pretina e dall’arte di governo della casa di Borbone. La miseria estrema a cui è ridotta e i patimenti a cui va soggetta la rendono abbrutita e feroce.» (pag 99)

Potremo sorprenderci quindi che sia nato e prosperi il brigantaggio in queste contrade?

L’autore distingue però diversi tipi di brigantaggio, quello comune, che ha solo scopo l’arricchirsi, e quello politico, che appoggia un cambio di governo ed accetta l’aiuto dello Stato Pontificio, che dista pochi chilometri di marcia e che volentieri accoglie e protegge i briganti. E soprattutto il brigantaggio della città, ovvero la corruzione camorristica che si impadronisce di ogni risorsa che il Governo centrale invia alle nuove provincie del Sud, e fa in modo che non arrivi nessun beneficio alla popolazione. Di quest’ultimo fenomeno fanno parte non solo numerosi Sindaci, Segretari comunali e Ufficiali della Guardia Nazionale, ma anche Giudici, che impediscono che i loro misfatti, quando anche fossero stati scoperti e denunciati, si traducano in una condanna al carcere.

L’opera di Bianco, che si conclude con vari indici e dati statistici (riprodotti nell’edizione digitale per agevolare il lettore di oggi nella consultazione di questo poderoso saggio), era attesa dal Governo come una documentazione che esaltasse l’operato dell’Esercito e ne celebrasse i successi militari. Invece nei ministeri, negli alti comandi, a palazzo Reale, s’interpretò l’esatto contrario, nonostante l’autore mostrasse di condividere i motivi che avevano portato alla repressione, e i molti giudizi poco lusinghieri sulla storia, sui costumi e sulle abitudini dei meridionali. Tanto che, letta l’opera del conte Bianco, in quegli ambienti dall’entusiasmo per le esecuzioni dei briganti si passò all’ira. Fu a causa di questo libro e della requisitoria sul tradimento degli ideali risorgimentali, della conquista del sud e non della sua liberazione, che il conte Bianco perse il grado di capitano di Stato Maggiore.

Bianco infatti identifica nel «piemontesismo» la causa principale dello strazio del Mezzogiorno:

«…ecco un’altra parola gravissima, dolorosissima, che non dovrebbe esistere nel Dizionario italiano. Essa esprime un dualismo che si traduce per discorsi, e si sa che l’Italia della discordia fu sempre prostrata. Ma quando i fatti provano che le leggi che si mandano non sono buone per le Provincie Meridionali; che le condizioni economiche di queste sono toto caelo diverse da quelle, e così le spirituali, le cordiali, di abitudini, di costumanze, di tendenze, ecc., ecc., perché si danno e si fanno agire? Bisognava non toccare, non innovare, aspettare e lasciar correre tutto come esisteva, ed appena appena accomodare il tanto necessario ai principi costituzionali iniziati…» (pag 429)

Troviamo infatti nel libro l’affermazione che l’esercito giunse presso una popolazione che era,

«…nel 1859, vestito, calzato, industre, con riserve economiche. Il contadino possedeva una moneta. Egli comprava e vendeva animali; corrispondeva esattamente gli affitti; con poco alimentava la famiglia, tutti, in propria condizione, vivevano contenti del proprio stato materiale. Adesso è l’opposto.» (pag. 445)

Perché, con l’invasione piemontese, in pochi anni le proprietà si concentrarono a pieno nelle mani dei ricchi, degli speculatori, degli usurai e dei manipolatori. E i beni delle famiglie erano depredati con tasse di successione così abnormi

«…che con tre successioni nella famiglia stessa, che possono verificarsi anche in un anno, dalla agiatezza si balza nella mendicità qualunque famiglia.» (pag 441)

Sinossi a cura di Gabriella Dodero

Dall’incipit del Proemio del saggio:

Assai difficile sarebbe in questa breve scrittura voler pretendere di stabilire in modo preciso le origini del brigantaggio nelle provincie meridionali.
Esse sono tante e tali e così complesse, che uno studio siffatto riuscirà penoso e incompleto, se non impossibile, non solo per me, ma pei dotti eziandio che faranno in avvenire oggetto delle loro meditazioni questa eterna e vitale e gravissima questione sociale, economica, politica e morale del brigantaggio.
Il mio scopo nello stendere questa narrazione si riduce ai modesti limiti di dare un corpo ad un ammasso di note da me raccolte sui luoghi durante un lungo soggiorno alla frontiera, in posizione tale di vedere e sapere cose che non a tutti era dato penetrare e conoscere.
Io non ho la vana stoltezza di pretendere che questo mio studio abbia ad arrecar il benchè minimo cambiamento nelle cose di costaggiù, ma sarò lietissimo e bastantemente compensato delle mie fatiche, se avrò portato uno sprazzo di luce in quelle tenebre, o narrato un fatto nuovo che possa convincere gl’increduli, o fatto tale una pittura delle miserande condizioni di quel paese, da far mettere in pensiero chi è deputato a reggerlo ed amministrarlo.

Scarica gratis: Il brigantaggio alla frontiera pontificia dal 1860 al 1863 di Alessandro Bianco di Saint-Jorioz.