Il bell’Antonio è probabilmente l’opera maggiormente significativa dei primi anni del dopoguerra. Dal 19 febbraio 1949 (quindi fin dal primo numero) al 29 maggio era comparso a puntate sulla rivista “Il Mondo” diretta da Pannunzio alla testa del gruppo dei fondatori – Flaiano, Alvaro, Gorresio, Corvisieri, Maccari e, appunto, Brancati – i quali si erano conosciuti attorno al settimanale “Omnibus”. Nello stesso anno comparve in volume in versione integrale e l’anno successivo il testo risultò vincitore del prestigioso premio Bagutta, superando La bella Estate di Cesare Pavese.

La fama del romanzo è stata negli anni mantenuta – anche se talvolta mi pare che il testo sia stato assai superficialmente recepito – anche grazie alla versione cinematografica del 1960 con regia di Mario Bolognini e nei panni dei protagonisti (Antonio Magnano e Barbara Puglisi), Marcello Mastroianni e Claudia Cardinale, che stravolge tuttavia il finale in maniera piuttosto discutibile.

L’opera ha evidenti connotati parabolico-simbolici e il suo aspetto politico antifascista va visto in una dimensione che supera la denuncia, ormai scontata nel 1949, del carattere rozzamente oppressivo del regime. L’azione è ambientata a Catania negli anni dal 1934 al 1943, quindi nel periodo del maggior consenso al fascismo fino al suo crollo e alla tragedia della guerra. L’ambiente è quello della borghesia catanese, conformista, compromessa con il regime e ossessionata dal «gallismo» cioè il mito del sesso come espressione di virilità. Come in altri romanzi e racconti precedenti dello stesso scrittore, l’ambientazione siciliana – e catanese in particolare – vale non tanto (o non solo) per una rappresentazione realistico storica, ma soprattutto per portare in primo piano i significati profondi che Brancati vuole esprimere quale rappresentazione simbolico-storica.

Antonio Magnano, il protagonista del romanzo, è un giovane bellissimo per il quale smaniano tutte le donne attratte irresistibilmente dalla sua “diabolica bellezza”. Antonio, dopo aver conseguito la laurea in legge, si reca a Roma sperando di entrare nella carriera diplomatica sfruttando l’amicizia di un alto dignitario del regime. Dopo cinque anni torna sconfitto, soprattutto dalla sua indole pigra e passiva, a Catania. Qui il padre Alfio, portabandiera del «gallismo» al quale ho accennato sopra, combina per lui il matrimonio con la bella Barbara Puglisi, figlia di un notaio. Antonio, dapprima recalcitrante, se ne innamora poi a fondo. Ma dopo cinque mesi di fidanzamento e giunto al matrimonio Antonio deve fare i conti con la propria impotenza, già constatata in altre occasioni (pur se con qualche eccezione) in precedenza a Roma. E proprio al tema dell’impotenza sono connessi tutti i temi di «secondo livello» del romanzo. L’impotenza assume connotati iperbolici e paradossali: si pone in contraddizione con la conclamata e indiscussa bellezza virile del protagonista e soprattutto con l’idea mitica della virilità della borghesia, e non solo, catanese che spesso diventa in Brancati concetto tipico e ricorrente. La condizione di impotenza assume quindi una congerie di significati. La mancata ascesa del piccolo borghese Antonio nell’ambito della classe dominante e della gerarchia fascista degli anni ’30 è infatti direttamente attribuibile alla sua condizione che gli preclude l’utilizzo delle amicizie femminili per spianargli la strada. La sua emarginazione rappresenta l’incompatibilità tra società malata e umanità innocente. Dice Sciascia nell’introduzione al romanzo:

«Con tanta fortuna […] un altro giovane che non avesse avuto la bontà e la semplicità di Antonio, sarebbe diventato sicuramente scettico, indifferente e persino cinico: Antonio invece conservò sempre l’amabilità del provinciale, anche quando […] cominciò a veder scolorire gli autunni […] nell’attesa di venire assunto […] al Ministero degli Esteri. Nel ’32 non era raro il caso di un giovane che diventasse console o ministro per una ragione tanto più accettata come buona, e perfino ammirata, quanto meno fosse chiara…»

L’impotenza di Antonio ricorda tanto l’inettitudine dei personaggi sveviani. Per questo diventa uno stato che impedisce l’appartenenza a quella società, oltre alla condizione di umiliazione e degrado che porta con sé. Ma proprio per questo la si può vedere come estrema risorsa verso riscatto e salvezza. E, in conformità a quelle che sono le idee di Brancati a proposito del rapporto tra politica e arte, idee che lo confinano all’interno della sua personale interpretazione del liberalismo idealistico crociano, questo stato finisce per condurre Antonio ad estraniarsi da qualunque tipo di società, e a segregarlo all’interno di una opposizione, ancora una volta impotente in quanto incapace di qualunque tipo di azione.

Quando il difetto di Antonio viene giudicato unanimemente una colpa vergognosissima, egli si trova isolatissimo e non può opporre all’annullamento del matrimonio con Barbara che una tristezza solipsistica della quale fa resistente guscio verso il mondo esterno. Il padre Alfio impreca contro quel figlio «ridotto peggio di uno straccio per i piedi, che almeno questo serve, ma un uomo in quello stato a che serve, che te ne fai, che campa a fare?» La virilità di Alfio, per dimostrare la quale a settant’anni si reca da una prostituta, viene sepolta dal crollo dovuto ad una bomba. Antonio aveva nel frattempo assistito al nuovo matrimonio di Barbara con il ricchissimo e bruttissimo duca di Bronte, secondogenito che non avrebbe dovuto sposarsi per mantenere indivisa proprietà e ricchezza della famiglia (anche dietro a questo matrimonio e a questa famiglia si cela una poco chiara storia di impotenza o sterilità…). L’unico a dimostrare affetto e solidarietà ad Antonio è lo zio Ermenegildo, figura di intellettuale che, avendo vissuto all’estero, ha capito la sostanza provinciale e arretrata della società italiana sotto il fascismo; neppure lui tuttavia può opporre altro che un atteggiamento di amaro scetticismo, anticamera del suicidio.

Possiamo dire che Brancati abbia voluto con questo romanzo allargare e approfondire i temi già affrontati in Don Giovanni in Sicilia inserendo la vicenda in una cornice storica più complessa. Dice Emilio Cecchi che in questa ampliata dimensione è stato possibile a Brancati «ritagliare i suoi intrecci nel tessuto di una emozione collettiva». [Il Novecento, volume IX, Milano 1969].

Sinossi a cura di Paolo Alberti

Dall’incipit del libro:

Dei siciliani scapoli che si stabilirono a Roma intorno al 1930, otto per lo meno, se la memoria non m’inganna, affittarono ciascuno una casa ammobiliata, in quartieri poco rumorosi e frequentati, e quasi tutti andarono a finire presso insigni monumenti, dei quali però non seppero mai la storia né osservarono la bellezza, e talvolta addirittura non li videro. Che cosa non saltò il loro occhio ansioso di scorgere la donna desiderata in mezzo alla folla che scendeva dal tram? Cupole, portali, fontane… opere che, prima di essere attuate e compiute, tennero aggrottate per anni la fronte di Michelangelo o del Borromini, non riuscirono a farsi minimamente notare dall’occhio mobile e nero dell’ospite meridionale! Antiche campane, dalla voce grave e delicata, che si erano meritate i versi di Shelley e di Goethe, si guadagnarono un «Chi camurria, ’sta campana! Che seccatura, questa campana!» per aver fatto tremare all’alba, coi loro rintocchi, la parete su cui il giovanotto poggiava la fronte da poco addormentata e ancora rosseggiante del disegno di una bocca.
Per il rispetto che il mio mestiere di cronista deve alla verità, dirò che questi scapoli siciliani erano piuttosto brutti, fuorché uno, Antonio Magnano, che era bellissimo. Con questo non voglio però affermare che i brutti riuscissero sgraditi alle donne: al contrario molti di essi, nonostante la bassa statura, e i nasi ebraici, e l’unghia del mignolo lasciata crescere per pulire l’interno dell’orecchio, parevano legati da una grave complicità a tutto il genere femminile; si sarebbe detto che fra loro e qualunque donna ci fosse una cattiva azione compiuta insieme chissà dove e quando: non v’era sconosciuta che, al primo vederli, non sembrasse riconoscerli impallidendo e rivelarsi subito legata a loro da vecchi e inconfessabili trascorsi.

Scarica gratis: Il bell’Antonio di Vitaliano Brancati.