Il basilisco
di
P. Da Pontelungo (Ferrari, Pietro)
tempo di lettura: 10 minuti
Don Matteo era un prete nato, per così dire, alla macchia, in un casolare di montagna, tra boschi di faggi e di cerri.
Era un tipo, davvero, bizzarro: diffidente e credulone a un tempo, e così superstizioso che, malgrado il suo latino (poca cosa per verità) credeva a tutte le più assurde fole di fantasmi, di streghe e di folletti, alle quali prestava fede, un tempo, la gente di montagna.
Per giunta, le donnette sussurravano che anche lui fosse una specie di mago o di stregone; e a dar credito a quella voce contribuiva, senza dubbio, quella sua figura scarna e spettrale, quel suo fare sospettoso e guardingo e, più, quel non so che di misterioso, che circondava la sua vita triste e solitaria di misantropo.
Era cappellano, da molti anni, alla Pie’: un paese, o meglio un gruppo di villaggi sparsi su un declivo di un monte, tra campi coltivati e selve di castagni, e con i casolari più lontani, sperduti negli anfratti boscosi. Ma, come diceva la gente, egli non si era ancora addomesticato e conservava le sue abitudini di vecchio gatto selvatico e spaurito.
Viveva in una casetta isolata, un po’ fuori dell’abitato e sbarcava il lunario con le magre rendite della sua cappellania, insieme con una vecchia serva bisbetica e, per di più, superstiziosa e scontrosa come lui. Ma non gli mancava qualche incerto; ed era quando gli portavano, per fargli benedire gli abiti di qualche stregato, oppure quando era chiamato a fare gli esorcismi in qualche stalla, dove c’era la moría del bestiame o in qualche campo di cavoli, divorati dai vermi.
Anche lassù, però, non mancava qualche capo ameno che si divertiva, qualche volta, a farsi beffa di lui. E tra questi ci fu, una volta, Serafin dai Porchi, un mercante di maiali, che era stato molti anni in America, che non credeva nè a streghe, nè a diavoli e che era piovuto lì da un paese al di là del monte, da dove, come dicevano alla Pie’, non veniva che tempo cattivo e gente da poco prezzo.
Una sera, adunque, costui si presentò in casa di Don Matteo, mentre il buon uomo stava per andarsene a letto. Quando furono soli nella misera stanza, Don Matteo lo scrutò con sospetto. Poi gli chiese, inquieto:
— Che cosa c’è?
— C’è – rispose Serafin dai Porci – che questa mattina è morta la mia mula…
— Ebbene? – interrogò Don Matteo.
— Ebbene: vorrei… fargh dir un po’ d’ben… Era una brava mula.
Don Matteo lo guardò e rimase perplesso: era un caso che gli capitava per la prima volta. Riflettè qualche momento ancora. Poi gli disse:
— Mi rincresce; ma non si può.
— Come non si può? – ribattè Serafin dai Porchi – Sono stato in America; e laggiù si usa. E, poi, creda a me, Don Matteo; era una bestia così brava ed esperta, che non le mancava che la parola… E chi le dice, Don Matteo, che non ci fosse stata in quella bestia un’anima del purgatorio, messa lì a scontare i suoi peccati? Ci sono delle cose che non possiamo sapere… Ed io, veda Don Matteo, ho il rimorso di averla trattata male e spesso bastonata… Ora ne ho scrupolo… Per questo sono venuto da lei!…
Don Matteo tornò ancora a pensare. Alla sua mente ingenua e superstiziosa, facile a credere a tutte le cose più assurde, quella faccenda dell’anima del purgatorio lo impressionò. E, poi, se anche in America si faceva così…
Don Matteo riflettè ancora a lungo. Finalmente si decise e disse:
— Ebbene, vi accontenterò. Ma non parlatene con nessuno.
Prese da un armadio un vecchio libro sdruscito dall’uso e cominciò a leggere, in latino, esorcismi, incomprensibili a Serafino, trinciando gesti nell’aria. Poi, finito che ebbe, assicurò Serafino che se si trattava, davvero, di un’anima purgante, lui poteva ormai starsene tranquillo.
Serafino ringraziò e, nell’andarsene, lasciò scivolare qualche moneta in mano a Don Matteo, dicendo:
— È per il suo disturbo.
Serafino uscì e andò a parlare della burla ai compari e a riderne con loro.
Ma chi più si divertiva a prendere in giro il povero Don Matteo era il signor arciprete: un uomo che a quanto si diceva era un pozzo di scienza, furbo come una volpe e, per di più, arguto e burlone. Certe sue burle, anzi, avevano fatto sbellicare dalle risa la gente della Pie’ e dei paesi vicini.
Eccone una. Una volta, un macellaio di Bagnoro, che si era arricchito vendendo ossa per carne, gli chiese un’iscrizione per una lapide da mettere sulla porta di una sua casa nuova. Il furbo arciprete lo accontentò su due piedi, combinandogli, col latino del salmo, questa eloquente epigrafe: Ossibus et nervis compegisti me. Il macellaio più che soddisfatto, si affrettò a collocare la lapide bene in vista: un po’ sorpreso che tanta gente venisse a leggere l’epigrafe e se ne andasse con aria canzonatoria. Ma, quando gli spiegarono quel latino birbone, il macellaio corbellato buttò giù la lapide e la mandò in pezzi, tra le matte risate di tutta la gente.
Inoltre, il signor arciprete era proprio l’opposto del suo cappellano, lui basso e tarchiato e di carattere allegro; questi lungo e stecchito e sempre d’umor nero. E tanto era parco Don Matteo, altrettanto il signor arciprete era goloso; e aveva un debole per le anguille. Anzi, a proposito di questo suo debole, una volta Giuspin dal Sogiar, un po’ per burlarsi di lui, un po’ per rubargli sul peso, gli vendette un bel cesto di anguille, dopo averle ben riempite di sassolini, insaccandole per la bocca fin quasi a farle scoppiare. Il signor arciprete fece il tónto; ma quando, pochi giorni dopo, s’imbattè in Giuspin, gli chiese come a caso:
— Dite un po’, Giuspin, che cosa mangiano le anguille?
— Un po’ di tutto, signor arciprete – rispose Giuspin.
— Anche i sassi, Giuspin? – continuò il signor arciprete.
— Specialmente quelli – confermò Giuspin – perchè …an t’al canal, an gh’é che di sassi…
Il signor arciprete non disse di più. Ma si vendicò di Giuspin, alla prima occasione, vendendogli del vino battezzato con l’acqua: vino cristiano dopo tutto.
Decisamente, al signor arciprete non era possibile farla!
Malgrado la loro diversità, anzi, forse per questa, il cappellano e il signor arciprete andavano perfettamente d’accordo. Si può anche dire che il signor arciprete era la sola persona della Pie’ che il cappellano non cercasse di evitare e con la quale si abbandonasse, talvolta, a qualche confidenza.
Così, una volta, incontrando il signor arciprete, che se ne tornava dalla sua quotidiana passeggiata alla Mistá della Foce, da dove si godeva una bellissima vista, Don Matteo, dopo i saluti, gli parlò di un suo progetto di metter su un pollaio, per aiutare un po’ la sua magra mensa, confidandogli anche che si era già provveduto di una gallina e di un gallo.
— Un gallo, avete detto, Don Matteo? – lo interruppe il signor arciprete – Guardatevene bene, Don Matteo.
E lo guardò con aria di sorpresa.
— E perchè? – azzardò a sua volta Don Matteo.
— Perchè – spiegò, serio, il signor arciprete, parlando a bassa voce e scandendo le parole – perchè in questo mese siamo sotto una cattiva costellazione, che appare solo una volta ogni cent’anni; e se, per caso, in questo mese, il gallo si mettesse a covare l’uovo della vostra gallina, potrebbe nascere… il basilisco!
— Il basilisco? – esclamò con un balzo Don Matteo.
— Sì, il basilisco – confermò gravemente il signor arciprete. E per poco non scoppiò in una sonora risata sulla faccia attonita di Don Matteo.
Don Matteo, preso da un terrore superstizioso e anche per non fare la figura dell’ignorante di fronte alla scienza del suo superiore, non osò domandare di più. Ma rimase taciturno e pensieroso; e, appena potè, sgattaiolò, a passi frettolosi, verso casa. Non fece parola di quel colloquio con la serva; e tenne per sè il pauroso segreto.
Il basilisco! In verità Don Matteo non sapeva bene che bestia fosse il basilisco; ma, senza dubbio, doveva essere qualche mostro spaventoso dell’inferno. Per un momento, pensò di sbarazzarsi del gallo del malaugurio; ma poi, un po’ per non rinunziare al progetto del pollaio, ora che già aveva fatto la spesa del gallo e della gallina, un po’ anche attratto, come succede a un uomo sospeso sopra l’abisso, dal fascino del suo stesso terrore superstizioso, si decise, sia pure con molta cautela, a tenere il pennuto, accadesse quel che poteva accadere.
Presa questa terribile decisione, il disgraziato Don Matteo, più volte nella giornata, scendeva nel pollaio per mettere al sicuro l’uovo pericoloso, appena deposto dalla gallina, e per tenere d’occhio il gallo malefico, di cui spiava, a lungo, inquieto, l’aspetto e le mosse.
Per molti giorni, Don Matteo nulla notò di anormale. Ma una mattina (era un tempo da tregenda, con lampi, tuoni, raffiche di pioggia e di vento da schiantare la casa), alzatosi sul fare dell’alba per dire la prima messa e sceso nel pollaio per la consueta ispezione mattutina, lo spettacolo inaudito e orrendo, temuto e atteso a un tempo, si presentò ai suoi occhi sbalorditi.
Il gallo diabolico era lì, nel covo dove la gallina ignara soleva deporre il suo uovo quotidiano, e guardava il prete con occhi, che, a Don Matteo, parvero di fiamma, gorgogliando sordamente nella strozza suoni inconsueti e minacciosi.
— Ci siamo! – pensò con terrore Don Matteo e un sudore freddo gli scese lungo il fil della schiena.
Guardò, ancora quasi non volendo credere ai suoi occhi. Restò lì, inchiodato dallo spavento; si fece il segno della croce e tentò, in fretta, qualche esorcismo per impedire il sacrilego evento. Ma il gallo infernale non si mosse dalla sua posizione e continuò a fissare il prete con aria di sfida, scuotendo, minacciosamente, la cresta sanguigna.
Allora, Don Matteo, reso folle dal terrore, afferrò una pertica che era lì, a portata di mano, e si avventò contro il gallo maledetto. Ma subito, spaventato dal suo stesso atto, uscì a precipizio dal pollaio e corse dal signor arciprete a raccontargli la spaventosa avventura…
Il signor arciprete, che era ancora a letto, ascoltò il racconto di Don Matteo senza batter ciglio; e quando questi arrivò al particolare della pertica, gli chiese, con simulato orrore:
— E allora che cosa è successo?
— Allora – balbettò Don Matteo, con voce ancor rotta dall’emozione – allora è successo che il gallo è balzato dal suo covo e mentre con un occhio guardava me, con l’altro – proprio così disse Don Matteo – continuava… a covare l’uovo!
Il signor arciprete ruppe in una risata così fragorosa che Don Matteo rimase senza parola.
— E adesso che cosa si deve fare? – chiese poi Don Matteo, con aria smarrita.
— Adesso – rispose l’arciprete, fattosi ancora serio e solenne – date retta a me, Don Matteo, andate in chiesa, dite per bene la vostra messa e, quando sarete tornato a casa, date ordine alla vostra serva di cuocervi quell’uovo; e beveteci su un buon bicchiere di vino. Quanto al gallo, fate così: dategli per compagne altre galline e allora, invece di un magro uovo al giorno, potrete averne qualcuno di più e farvi fare, ogni mattina, dopo la messa, una buona e sostanziosa frittata.
Don Matteo rimase a bocca aperta. Poi, ripreso fiato, scappò in fretta dalla stanza, convinto che quella diabolica faccenda del gallo avesse fatto dar di volta al cervello del signor arciprete.
Quando Don Matteo raggiunse la sua casa, un po’ fuori dall’abitato, il temporale era cessato.
Una gagliarda raffica di vento aveva spazzato via la nuvolaglia. E il sole, affacciato a un grande squarcio di azzurro, sfavillava gaiamente sul tetto d’ardesia della casa, ancora bagnato di pioggia.
Come se ridesse, anche lui, alle spalle di Don Matteo!
Fine.
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Il basilisco
AUTORE: P. Da Pontelungo (Ferrari, Pietro)
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Novelle di Valdimagra / P. da Pontelungo. - Pontremoli : Artigianelli, 1944. - 226 p. ; 23 cm.
SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)