Il bambino smarrito
di
Grazia Deledda
tempo di lettura: 20 minuti
Un signore, Matteo Morys, aveva deciso suicidarsi in un boschetto vicino alla città.
Fatto testamento, nel quale instituiva erede di tutta la roba che trovavasi in casa la vecchia domestica, e del patrimonio un Ospedale, s’avviò una sera verso il luogo fatale ove doveva morire. Prese a camminare per le vie più solitarie, e ben presto fu fuori di città. Era una splendida sera d’autunno: la luna nel suo primo quarto brillava alta sul cielo purissimo, e davanti a Matteo, sopra la linea nera del boschetto che chiudeva l’orizzonte glauco luminoso, Venere brillantissima tramontava. L’aria era tiepida, e indistinti rumori lontani vibravano nel limpidissimo spazio: sembrava di primavera, e una letizia arcana, come nei bei crepuscoli dell’incipiente maggio, palpitava intorno.
Matteo sentiva quel soave senso di vita, e avendo piena coscienza di quanto andava a fare, provava l’immenso dolore di non poter più godere la vita. Si sentiva morire prima dell’ora. Per abbreviare questo estremo strazio, che pareva gli venisse mandato dal destino per colmare la misura dei grandi dolori già sofferti, affrettò il passo.
Egli solo camminava fuor di città in quella pura sera: la sua ombra lo precedeva, quasi mostrandogli la via fatale.
Quando egli giunse nel boschetto, Venere spariva come una perla dietro un piccolo ramo le cui foglie eleganti si distinguevano perfettamente disegnate nell’aria. Matteo vide, e non poté rattenere un moto d’angoscia: fin dalla sua prima giovinezza, lieta di sogni, egli, più che il tramonto del sole e della luna, aveva amato e contemplato sempre il tramonto di Venere.
E quest’ultimo tramonto, più che ogni altra cosa in quella sera fatale gli rievocava in un attimo tutti i più cari ricordi della sua vita. Entrò nel boschetto, in un viale diritto e stretto che la luna illuminava dall’alto. Non una foglia si muoveva: i rami s’ergevano e si stendevano rigidi, immobili nella purissima trasparenza dell’aria, e sembravano addormentati in un sogno d’indicibile dolcezza. I raggi della luna li attraversavano, quieti, andando a porre larghe macchie argentee sull’erba finissima che rinasceva sotto le piante. Una fredda fragranza di erba, di funghi, di foglie cadute, esalava, dando la distinta sensazione dei luoghi solitari e ombrosi. Ma anche là, sotto il cielo sempre più puro, sotto le stelle limpidissime, sembrava d’essere in primavera. Matteo attraversò il viale, andando dritto verso una panchetta di pietra, seduto sulla quale aveva già trascorso tante ore serene: laggiù precisamente egli voleva morire. Ma arrivato in fondo al viale vide sulla panchetta un bimbo addormentato.
— A quest’ora? Come va? — pensò alquanto meravigliato.
S’accostò, piano piano, e si curvò per veder meglio. Il bimbo, di forse quattro anni, stava seduto in dolce abbandono, con le gambette penzoloni, le manine abbandonate sulla panchetta e il capo reclinato sul petto. Era un bellissimo bambino bruno, vestito signorilmente. Aveva scarpette bianche, corte calzette nere, mutandine ricamate e un grembialone turchino. La luna lo illuminava tutto, dando un vago riflesso ai lucidi capelli neri e un candore marmoreo alle piccole mani grassoccie e affusolate. Matteo lo esaminò lungamente, rattenendo il respiro per non svegliarlo; e mentre si sentiva contrariato per il grazioso ostacolo che improvvisamente sorgeva fra lui e la morte, provava una vera tenerezza estetica nel contemplarlo.
Chi era quel bimbo? Perché dormiva lì, a quell’ora? Era un bimbo smarrito, o dimenticato, o abbandonato? Era solo? Chi altri c’era nel boschetto, a quell’ora?
Matteo tese l’orecchio, ascoltò, fissò lo sguardo intorno, per la profondità silenziosa dei piccoli viali e delle piccole radure illuminate dalla luna. Silenzio perfetto. Nulla. Nessuno. Che fare? Andare dall’altra parte del boschetto, e morire lo stesso, nonostante la presenza del bimbo? No, non era umanamente possibile. Lo sparo avrebbe svegliato e spaventato l’innocente creatura, e forse essa sarebbe la prima a scoprire il caldo cadavere del suicida. Era semplicemente crudele. Eppoi la curiosità di sapere perché il bimbo era là, e l’istinto di proteggere il sonno innocente, avevano preso tutta l’anima di Matteo. Ebbene, morire un’ora prima, o un’ora dopo, o magari all’indomani, che importava?
Valeva ben prolungar l’agonia per compiere un atto pietoso, vigilando sul piccolo dormiente. Si sedette lievemente sulla panchetta, sull’orlo ombreggiato da un ramo, e attese, tendendo sempre le orecchie ad ogni minimo rumore, e guardando il bimbo. Le manine specialmente attiravano il suo sguardo: dovevano esser fredde fredde, le piccole mani dalle corte dita affusolate. Il desiderio di toccarle, di stringerle entrambe entro la palma della sua mano destra, invadeva Matteo: ma lo ratteneva il timore di svegliare il piccino. Intanto l’ora passava, nessuno si lasciava vedere, e l’aria diventava fresca. Quell’attesa strana, l’inquietudine e la curiosità unite ai suoi tristi pensieri, stancarono ben presto Matteo. Egli decise di svegliare il bimbo, di interrogarlo, e possibilmente ricondurlo ai suoi. Stese la mano, la ritirò, pensò con amarezza:
— Dopo tutto cosa m’importa? Perché impicciarmi in un affare che può recarmi dei fastidi? Nulla più mi attacca alla vita ed ai viventi. Andiamo dall’altra parte del boschetto: anche se questo bimbo mi scopre, che importa? Forse che io m’accorgerò più di nulla?
Si passò una mano sul volto.
— Pietà? Dovere? — disse fra sé duramente. — Io non ho più che fare nella vita, e l’immischiarmi in quest’affare non può che prolungare il mio spasimo. Ora che, dopo tante lotte, ero deciso…
Ma esaminandosi meglio s’accorse che s’interessava al bimbo dormente, non per pietà o dovere, ma perché ciò gli causava piacere, un piacere triste e accorato, sì, ma esclusivamente egoista.
Il senso della vita parlava ancora in lui. Continuò a pensare:
— Ebbene, poiché è per mio piacere lasciamo correre. Andiamo. Né dovere né piacere: nulla più deve trattenermi nella vita.
E s’alzò bruscamente, pentendosi d’essersi lasciato vincere dall’idea romantica di venire a morire nel boschetto.
— In casa a quest’ora tutto sarebbe finito…
Rimase ancora un po’ ritto, sempre fissando il bimbo.
— Ebbene, sì, svegliamolo, accada quel che vuol accadere — pensò improvvisamente; e sedutosi di nuovo vicino al bimbo lo scosse dolcemente. Il piccino tremò tutto, sollevò il capo e spalancò due grandi occhi scuri spaventati, fissandoli tosto su Matteo. Non pianse né gridò.
Matteo provò uno strano imbarazzo, e non trovava parola per rassicurare il muto spavento del bimbo. Fu questo che parlò per il primo, balbettando, cercando di sciogliersi dal braccio col quale Matteo lo circondava, e tentando slanciarsi giù dalla panca e fuggire.
— Lasciami… lasciami andare…
— Non aver paura, carino — disse Matteo rattenendolo. — Io ti voglio bene. Senti. Non fuggire, carino. Ti ho visto dormire qui, solo solo, di notte, e siccome in questo bosco ci sono delle cattive bestie ho voluto svegliarti.
— Cattive bestie? Dove sono? — chiese il bambino, restringendosi in sé, e tremando un po’ anche per il freddo.
— Dove sono? Sono nascoste qua e là ed escono più tardi.
— E come sono?
— Sono… sono così, come lucertole, serpentelli…
— Serpentelli! — esclamò il bimbo, che, svegliato completamente, ricordava ogni cosa. — Ma noi ne abbiamo uno di serpentello. Verde, sai, così lungo, guarda —. Con le manine accennò una lunghezza di circa tre palmi. — E chiappa i sorci, sai, e se li mangia.
Matteo gli prese le manine, fredde e morbide, e gli chiese con voce insinuante:
— Ma… e tu perché dormirvi qui?
Il bimbo non rispose.
— Perché, dimmi, carino? Come ti chiami?
— Mi chiamo… no, non voglio dirtelo, no, no — disse il bambino, con diffidenza. E scuotendosi cercò ancora fuggire. — Lasciami, lasciami andare…
— Ma dove vuoi andare a quest’ora? Non vuoi ritornare a casa?
— Non voglio ritornare a casa.
— Ho capito — pensò Matteo. — Questo bambino è scappato da casa sua. Perché?
— Perché sei scappato da casa tua, bellino mio? Ebbene, dimmelo, non ti ricondurrò là, no, ti accompagnerò dove vuoi tu. Dove vuoi che ti accompagni?
— No, voglio andar solo.
— Ebbene, dimmi almeno dove vuoi andare, ti indicherò la strada.
— Non voglio dirtelo.
L’affare era serio. Ad ogni risposta il bimbo scuoteva la testa con diffidenza, e tentava sfuggire dalle braccia di Matteo.
— Ebbene, — disse questo levandosi in piedi, e sollevando sulla panchetta il piccolo sconosciuto, — se tu non vuoi dirmelo io non ti lascerò andare.
— Ed io ti mordo.
— Ah, piccolo brigante, devi aver commesso qualche delitto. Io ti farò mettere in prigione.
Il bambino tremò tutto, e si mise a piangere di terrore. Matteo ebbe rimorso, e sentì che la sua era una cattiva tattica; ma che volete, egli non ricordava d’aver mai accarezzato o avuto che fare con un bimbo, e non sapeva come rimediare al mal fatto. Anzi fece peggio.
— Senti la pattuglia! — disse a voce sommessa, per far tacere il bimbo. Questo aveva della pattuglia, già sentita nominare in casa sua, una terribile idea, e tacque spaventato, stringendosi tutto al petto di Matteo.
Egli allora se lo prese fra le braccia, e s’avviò nel piccolo viale illuminato dalla luna.
— Non aver paura, — disse con voce dolce, quasi commossa, — quando sei con me non aver paura. Ti porterò dove tu vuoi. Ma dimmi prima come ti chiami e perché sei scappato da casa tua.
Il piccino s’ostinava a tacere.
— Vedi, carino, ora è notte e di notte non si può viaggiare. Partiremo domani mattina. Prima ti conduco a casa mia, ti do tanti bei libri con le figure.
— Colorate?
— Sì, anche colorate, sai: come ti chiami, suvvia, dimmelo?
— Gino.
— Oh, bravo! Gino, dunque…
Ma il bambino parve pentirsi.
— No, non mi chiamo Gino, mi chiamo con un altro nome.
— Ebbene, sia pure un altro nome, io ti voglio chiamar Gino. Dunque dicevo, libri con belle figure colorate. Poi partiremo. Sei passato in questa strada per venire?
— Sì, qui. E nelle figure cosa c’è? C’è la pattuglia? — domandò abbassando paurosamente la voce.
Matteo non rispose. Improvvisamente, pensando che tornava alla casa ove aveva creduto di non rientrar mai più, lo coglieva un senso di gelo. Tutte le sue angosce, da qualche istante assopite, lo sopraffecero. Dimenticò il piccolo sconosciuto che teneva fra le braccia e pensò:
— Perché ho prolungato la mia agonia?
Il bimbo s’accorse vagamente che il suo amico s’era mutato, e lo guardò fisso, timido, tutto in preda anch’egli dei suoi piccoli pensieri. Che aveva quel signore che lo teneva fra le braccia? Lo ingannava? Se invece di condurlo a casa sua e dargli i libri con le figure colorate, lo consegnava alla pattuglia?
Nella piccola mente la pattuglia, quel gruppo invisibile di soldati camminanti nella notte a passo cadenzato, accompagnato da un misterioso tintinnìo di sciabole, aveva qualche cosa di mostruoso, più sottilmente spaventoso di tutti gli intangibili fantasmi infantili.
— Dov’è ora la pattuglia? — domandò con voce soffocata.
Matteo capì il lavorìo della piccola mente, e volle profittarne.
— Non so dov’è, ma possiamo incontrarla fra poco, e se tu non mi dici come ti chiami…
— Mi chiamo Gino Lauretti.
— Lauretti? Non conosco nessuno che si chiami così — pensò Matteo, rapidamente esaminandosi; e non volle indugiarsi per non perder il momento propizio.
Il bimbo fremeva leggermente. Matteo camminava lesto, sotto la luna, un po’ stanco per l’insolito peso, e nuovamente dimentico di sé.
— Dunque ti chiami Gino Lauretti. Bravo. E tuo papà si chiama Antonio?
— No, si chiama Andrea.
— Ah, Andrea? E mammà?
— Mammà è morta.
Matteo cominciò a capire, ma confusamente.
— E i fratellini e le sorelline?
— Non ne ho, non ne ho — disse il bimbo con forza, drizzandosi sulla schiena. I suoi grandi occhi brillarono. — Essa dice che Lauretta è mia sorella, ma non è vero, non è vero! È brutta Lauretta, e mi batte anch’essa. Io non la voglio.
Matteo ascoltava intensamente, sempre camminando lesto.
Nelle parole del bimbo c’era tutta una storia dolorosa. Chi era essa? La matrigna? Giudicò opportuno lasciar dire al piccino tutto ciò che voleva, senza interromperlo.
— Quando c’è papà essa sta zitta, o dice ridendo che io sono cattivo. E papà allora mi sgrida, ed io ho paura e non dico nulla. Quando poi papà è uscito essa si mette a gridare, e dice che è la padrona, e mi batte e mi rinchiude al buio. Io ho paura. Poi mi dice: “Gioca con Lauretta, con tua sorella”. Ma io non la voglio. Mi graffia, sai. E dice che il serpentello è suo. Io le dico: “Tu sei la figlia della cameriera, ed io sono figlio di papà. Io sono il padrone”. E essa dice: “E io sono la padrona, perché mia madre comanda qui”. “No, tu sei la figlia della cameriera, e il padrone sono io”. “Ma io sono tua sorella”. “Tu? Tu mi sei nulla. Vattene via, vattene via, io non ti posso vedere, io non ti voglio”. Allora essa mi graffia, e poi grida e dice che l’ho graffiata io. Allora viene essa, e mi batte, e mi chiude all’oscuro…
— Chi essa? Lauretta?
— No, essa, Luigina. La madre di Lauretta.
— Ha il grembiale bianco essa? — domandò Matteo, per assicurarsi se essa era ancora cameriera, o se il padre di Gino l’aveva sposata.
— Ce l’ha quando c’è gente.
— Benissimo. E poi?
— E papà l’altro giorno è partito, e ha detto che mancava qualche giorno. Allora Lauretta ha detto: “Ora sono io la padrona”; e s’è messa a correre sulle sedie, battendole con la frusta, e mi ha preso il cavallino mio e la pecorella. E io ho gridato: “Sono io il padrone, scendi giù, occhi cisposa”. Allora Luigina mi ha dato degli schiaffi e mi ha detto: “È essa la padrona, tuo padre lascerà tutto a lei, e a te nulla; e ora che non c’è esso ti chiudo al buio, a pane ed acqua, e i morti verranno a prenderti, brutto rospo”. Allora io ho pensato di fuggire, di andare da papà, di dirgli tutto, e sono fuggito. Poi ero stanco e mi son seduto e mi sono addormentato. E ora dov’è la pattuglia?
— Non aver paura; è lontana; eppoi ora che mi hai raccontato tutto non la chiamerò più.
Rientrando a casa sua Matteo provò nuovamente un senso di gelo raccapricciante: tutte le sue angosce lo riassalirono, dividendolo dal resto del mondo. Pensò: — Manderò l’avviso al giornale, lascerò il bambino in custodia a Maria, e… tutto sarà finito.
La domestica era già a letto: potevano esser le nove.
Matteo accese il lume del suo piccolo studio e aprì la finestra, dalla quale penetrò una chiara luce di luna.
Il bambino guardava intorno curioso; a un certo punto chiese:
— Ma tu non ne hai figli?
Oh, no, egli non ne aveva; e trasalendo Matteo pensò che se si fosse ammogliato a tempo e avesse avuto un bimbo come Gino, le sue cose sarebbero andate diversamente.
Lo assalì una improvvisa tenerezza.
— Devo vivere finché verranno a prenderlo, e bisogna che venga il padre, bisogna, altrimenti non lo consegno a nessuno.
— Dov’è andato tuo padre, lo sai tu, carino?
— A Roma.
Tutte le volte che il padre s’assentava, Gino credeva e diceva così. Matteo gli prestò ingenuamente fede.
— Forse tarderà a ritornare — pensò. — Ebbene, vuol dire che prolungherò la mia agonia: ma il bambino non lo consegno a nessuno. Bisogna che il padre sappia, che apra gli occhi e lo protegga.
Fece sedere il bimbo accanto al suo scrittoio e gli pose avanti un volume di Grimm, con illustrazioni colorate (glielo avevano mandato per farne la recensione).
Gino stette quieto, sfogliando lentamente il volume.
Matteo prese una cartella e scrisse qualche riga, che poi lesse attentamente, mentre si passava una mano sui capelli.
“S’è trovato un bimbo smarrito, che dichiara chiamarsi Gino Lauretti, di Andrea. I parenti possono presentarsi in via tale, numero tale, per riprenderlo”.
— Pare si tratti d’un oggetto — pensò Matteo sollevando il capo, e piegando la cartella. Anche Gino sollevò la testa.
— Perché ci hai gli occhiali? — domandò.
— Perché ci vedo poco — rispose Matteo ridendo.
— Si vede di più con gli occhiali? Dammeli che provo.
Matteo se li tolse e glieli mise.
— No, no, così, — disse il bimbo levandoseli e rimettendoseli, — aspetta, guarda, guarda. Oh, come è bello!
Matteo lo guardava con crescente tenerezza: antiche memorie, come punti brillanti in dimenticate lontananze, gli passarono nel pensiero.
Sugli occhioni ridenti del bimbo, che avevano un affascinante raggio d’innocente malizia, gli occhiali splendevano riflettendo la fiamma del lume.
— Ci vedi?
— Ci vedo — rispose il bimbo, che vedeva, sì, ma tutto velato. — Guarda, questa vecchietta è l’orca?
— È l’orca.
Breve silenzio. Gino si tolse gli occhiali e chiese con esitazione:
— Se ne trovano di orche?
Matteo prese gli occhiali, li alitò, li pulì accuratamente col fazzolettino: e capiva che facendo quella domanda il bimbo pensava a un’odiosa persona, e si sentì imbarazzato sulla risposta da dare.
— Aspetta un momento, — disse, — tornerò subito subito.
— Dove vai?
— Vado a chiamar la serva perché ti compri dei dolci.
Uscì con la cartella fra le mani; e varcando la soglia pensò: — Ebbene, che fretta c’è? Il padre tanto non c’è. Se lasciassi a domani? No, non è giusto.
Svegliò la domestica e la mandò dalla redazione del giornale ov’egli scriveva.
— Che l’inseriscano nell’edizione di stanotte; presto, Maria.
Rientrando nello studio sentì che Gino faceva un chiasso impertinente. Guardò: il piccino saltava e gesticolava davanti alla parete, ridendo pei salti e i gesti grotteschi che la sua ombra ripeteva.
Matteo entrò, si sedette sul piccolo divano, e preso il bimbo sulle sue ginocchia cominciò a conversare infantilmente con lui.
L’indomani una donna assai giovine e vestita con discreta eleganza venne a reclamare il bambino. Matteo l’aspettava, e vedendola l’esaminò attentamente, frenando una certa ira che dentro gli bolliva.
— Ella è la signora Luigina?
— Sissignore.
I suoi tratti, nonostante l’eleganza delle vesti e della pettinatura, tradirono la servilità.
— Mi dispiace, — disse Matteo, — ma a lei non posso consegnare il bimbo. Lo consegnerò solo a suo padre.
— Suo padre è assente.
— Aspetteremo che ritorni.
Ella arrossì di stizza.
— Mi scusi, bisogna che lo consegni a me, altrimenti ricorrerò a chi di dovere.
— Ella si guarderà bene di far ciò: potrebbe pentirsene.
— Lo vedremo.
— Lo vedremo.
Partì infuriata. Matteo rimase tutto il giorno a casa, conversando col piccino, che fece intima relazione anche con la domestica.
Gino non parlava di partire; anzi pareva avesse completamente dimenticato lo scopo della sua fuga. Davanti a Matteo restava quieto, quasi timido, guardando curiosamente ogni oggetto e domandandone spiegazione, ma senza nulla toccare.
Ogni tanto però trasaliva, ascoltando come lontani rumori; e studiandolo bene Matteo s’accorse che quei piccoli fremiti, e quella paurosa inquietudine, erano il ricordo di spaventi già subìti.
— Ah, quella donna non lo piglierà, no, non lo piglierà! — si diceva di tratto in tratto.
Per quel giorno ella non ritornò; venne l’indomani, sola.
— Come, sola? — le chiese Matteo con ironia.
Ella non si degnò rispondere, ma trasse fuori un telegramma del padrone, che pregava Matteo di consegnare il bimbo a lei.
Matteo guardò la provenienza del telegramma, e vide il nome d’una città vicina.
— Come, non è a Roma? Ebbene, tanto meglio — pensò.
— La signora mi scusi, — disse a Luigina, rendendole il telegramma, — ma io resto fermo nel mio proposito faccia lei quello che crede.
Allora ella si mise a strepitare, dicendo parole triviali; anche il suo viso, piuttosto bello, prese un’espressione volgare e quasi ripugnante. Matteo la lasciò dire, guardandola fisso profondamente disgustato. Sentiva tutti i tormenti che quella donnaccia doveva aver fatto subire al bambino, e si chiedeva che razza d’uomo era il Lauretti a lasciarsi dominare da un’amante così triviale.
— Parli piano, signora, — le disse con ironica cortesia, — badi che chi più grida ha torto. Le ripeto di fare tutto quello che le aggrada, ma io non consegnerò il bimbo che al padre in persona. Per affrettarne il ritorno gli scriverò oggi, subito, informandolo di tutto.
Ella tacque, evidentemente impaurita da queste ultime parole.
— Faccia quello che crede — disse sforzandosi a parer fredda, e se ne andò.
Matteo scrisse al Lauretti una lunga lettera abbastanza dura e severa, stigmatizzando apertamente la sua condotta, e dicendogli che, poiché non era buono lui, altri d’ora in avanti avrebbero vigilato sul piccino.
Queste parole però, scritte inconsciamente, gli diedero ancora quel senso di gelo, di vuoto, che lo assaliva al ricordo della sua prossima fine.
Ah, egli doveva morire: chi dunque poteva vegliare sul bimbo?
Anche quel giorno restò a casa, sempre in compagnia del grazioso Gino. Le ore gli scorrevano rapide, quasi serene, in un oblìo vago della sua sorte.
Verso sera gli fu recata una lettera di Luigina. La donna, paurosa di quanto poteva accadere se il padrone veniva a conoscer intera la verità, si faceva umile e supplichevole, pregando Matteo di non comprometterla, e promettendo di esser d’ora in avanti affettuosissima col piccolo fuggitivo.
Matteo diventò pensieroso:
— Se la credessi? Se me ne lavassi le mani? Che cosa devo aspettare? Che cosa devo fare?
— Che cosa devo fare? — ripeté tosto fra sé. Ricordò che doveva morire; e in quel momento provò una sensazione non ignota, ma provata soltanto nei primi giorni nei quali l’idea del suicidio gli era venuta in mente.
Sentì cioè un’arcana paura della morte; gli parve che il coraggio di morire gli venisse meno. S’accorse di questa paura, l’esaminò e provò un moto di collera.
— Ah, ho lasciato passare il tempo! — gridò fra sé. — Ancora un giorno e morrò vilmente.
E di nuovo pensò esaudire il desiderio della giovine donna, consegnandole il bimbo prima del ritorno del Lauretti.
Prese una carta da visita, vi scrisse due o tre righe, le rilesse attentamente, come era suo costume. Poi improvvisamente, balzò in piedi, stracciò la carta da visita, e andò in cerca del bimbo. Una strana idea gli era venuta:
— Questo bambino è al padre forse più d’impiccio che altro. Gli proporrò di lasciarmelo, lo adotterò, lo farò mio erede.
A quest’idea la visione della morte se ne andava lontana.
Nella notte seguente Matteo non poté dormire; il suo sogno gli pareva sempre più facile, e già vaghi progetti per l’avvenire gli passavano nella mente.
Il passato andava in seconda linea: i dolori profondi che avevano germinato l’idea della morte si facevano piccoli, velati; anzi, in certi momenti, Matteo provava una segreta meraviglia del come s’era deciso a morire.
Il tempo restava costantemente bello e primaverile, e ciò influiva assai nei nuovi sentimenti di Matteo. Di sera, quando s’affacciava al verone col piccolo Gino, il gran cielo diafano, il luminoso tramonto di Venere, il crepuscolo glauco nel quale la luna nuotava limpidissima, l’aria tiepida soffusa di voci arcane, di lontani suoni vibranti, l’umido profumo dei crisantemi bianchi del verone, che avevano come uno splendore lunare, gli davano una tenerezza dolorosa, quasi sentimentale, palpitante di vita.
Sentiva che la vita si era misteriosamente attaccata al filo di un sogno, e che questo sogno era assurdo: eppure si ostinava a sognarlo, e sognandolo si sentiva sospeso tra la vita e la morte.
Il bambino pareva felice. Aveva preso possesso di tutto l’appartamento; e sopra ogni oggetto aveva svolto le sue domande esaurienti, contentandosi delle spiegazioni, più o meno chiare, di Matteo e della fantesca.
Nei quattro giorni trascorsi non aveva pianto una sola volta, non chiesto di partire né di rimanere. Pareva possedere in sommo grado la virtù di adattamento, e godere spensieratamente l’ora presente. Sapeva che suo padre doveva giungere fra poco, ma non temeva il suo arrivo.
Matteo si convinceva sempre più che il piccino doveva aver subìto grandi maltrattamenti se, essendo così tranquillo, così paziente, così educato per istinto, era scappato di casa.
A che pensava intanto?
— Domani, forse oggi, arriva tuo padre, — gli disse Matteo, — arriva e ti prende con sé.
— E dove mi porta?
— Ma! A casa, da Lauretta.
— No, mi lascia qui — disse tranquillamente Gino.
Lo stesso sogno di Matteo aveva dunque conquistato e tranquillizzato la piccola anima.
Matteo ne provò una strana gioia, un lieto presentimento di bene. Non restava che attendere il Lauretti. Ogni volta che si picchiava alla porta, Matteo sentiva battere con violenza il cuore e cambiava colore.
Il Lauretti, però, non giunse che due giorni dopo. Era un uomo alto, magro, con occhi azzurri, infossati e fissi, e il volto terreo solcato da due grandi baffi biondi spioventi. Un tipo d’abbrutito, che disgustò immediatamente Matteo.
Questo aveva impallidito nel riceverlo. Il Lauretti si scusò tosto di non esser potuto venir prima. La sua voce era bassa, grossa: le parole stentate. Pareva un uomo senza volontà sensitive; e Matteo sperò più che mai di veder esaudito il suo desiderio.
Il Lauretti continuava a scusarsi. — Del resto, — disse, — poteva consegnare il bimbo alla cameriera. S’è voluto troppo disturbare.
— Come? — disse Matteo meravigliato e quasi offeso. — Non ha dunque ricevuto la mia lettera?
— Ma sicuro — rispose l’altro, mettendosi una mano sopra il taschino del soprabito, come per accennare che la lettera era lì.
— Ma allora, scusi, come può dire che potevo consegnare il bimbo alla cameriera?
— Ma per toglierle il disturbo.
— Scusi, — disse Matteo scattando, — o io m’inganno, o lei non ha capito la gravità del caso.
— L’ho capita benissimo, ma che vuole le dica? Forse il bimbo esagera… Del resto non accadrà più.
— Come? Come? Il bimbo esagera? Ma se non si presta fede ad una creatura innocente…
Mille parole roventi salirono sulle labbra di Matteo, ma egli le respinse per non offendere quell’uomo vile che gli stava davanti, e non compromettere la causa del suo sogno. Si sedette, con triste abbandono, e lasciò che il Lauretti parlasse, ma non prestò attenzione alle sue parole. Poi gli disse:
— Basta, lei è padre e vede meglio di me ciò che resta a fare. (Ho parlato male, pensò tosto, non dovevo dire così). Io, se è lecito, (no, ho fatto male a dir lecito: meglio che mi imponga, e dia valore alla mia proposta, aggiunse fra sé); se le fa piacere, vorrei farle una proposta.
— Dica pure.
— Veda, io sono solo, ho qualche cosa; in questi pochi giorni mi sono affezionato al bimbo. Se lei crede lo tengo con me, lo adotto, lo faccio mio erede.
Il Lauretti arrossì alquanto e stette un po’ in silenzio: in quel rossore cattivo, in quel silenzio un po’ cupo Matteo sentì la sua condanna.
— Io la ringrazio tanto, ma la cosa è impossibile. Ho quel solo bambino: che direbbe il mondo?
Matteo capì che il Lauretti parlava così pensando alla sua amante, la quale, certo, lo aveva convinto di attutire ad ogni modo lo scandalo; e il Lauretti comprese che Matteo leggeva nel suo pensiero. Si scambiarono un rapido sguardo d’odio.
— È inutile insistere, allora? — disse Matteo. — Ci pensi bene, signore: il bimbo vuol restare con me. Il mondo non dirà nulla, e del resto, per meno nobili cose noi lo lasciamo dire; (il Lauretti sentì la botta in pieno petto) perché non possiamo lasciarlo dire anche sopra questo?
— È inutile; non posso.
— In questo momento?
— In questo momento e sempre — rispose il Lauretti con fermezza che sembrava impossibile in lui.
Matteo si sentì morire; ma tutto ad un tratto qualche cosa risorse nel profondo dell’anima sua e gli rifulse negli occhi. La sua fisionomia si fece severa e minacciosa, la sua voce dura.
— Ebbene, — disse alzandosi, — prenda pure il bimbo, e lo riporti a casa sua, presso quella donna. Ma badi che se non saprà vigilar lei, vi sarà altri che vigilerà.
Il Lauretti s’alzò anch’esso, senza rispondere, senza offendersi. Per confonderlo e convincerlo, Matteo gli mostrò la lettera di Luigina. Egli la lesse con interesse, ma poi osservò:
— Vede bene che anch’essa promette di trattar bene il bimbo d’ora in avanti.
Matteo provò un disperato disgusto, ma tutto il suo sdegno e la sua collera caddero davanti a quell’uomo forse più disgraziato che ignobile.
— Mi lasci il bimbo a pranzo, oggi, — disse cortesemente, — glielo riporterò io.
— Sarà meglio così, sì grazie — rispose l’altro inchinandosi.
— Mi permetterà almeno di vederlo spesso?
— E di vigilarlo anche — disse il Lauretti ridendo, e avviandosi verso l’uscio.
Anche Matteo rise a fior di labbro e mormorò confuso:
— Anche… anche…
Sulla porta si toccarono freddamente la mano: il Lauretti s’inchinò di nuovo, ringraziò ancora e se ne andò tranquillamente.
Allora Matteo entrò dal bambino, lo prese sulle sue ginocchia e lo contemplò a lungo; e, ciò che non gli era più accaduto dopo la sua infanzia, due lagrime gli calarono sulle guancie.
Il bimbo lo guardava un po’ meravigliato, un po’ intimidito.
— Chi ti è morto? — domandò piano piano, timidamente.
No, non gli era morto nessuno; era anzi egli che risuscitava per esser da lontano al bimbo ciò che aveva sognato essergli da vicino.
Fine.
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Il bambino smarrito
AUTORE: Deledda, Grazia
NOTE: si ringrazia la Ilisso Edizioni / Via Guerrazzi / 08100 Nuoro - Italia / Tel. +39 (784) 33033 / Fax +39 (784) 3
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: La regina delle tenebre / Grazia Deledda ; Fa parte di: Novelle (2) / Grazia Deledda ; a cura di Giovanna Cerina . - Nuoro : Ilisso, \ 1996. - 421 p. ; 18 cm.
SOGGETTO: FIC027080 FICTION / Romantico / Brevi Racconti