Iphigenie auf Tauris è un dramma in cinque atti che venne composto da Goethe la prima volta in prosa ritmica nel 1779 su commissione della corte di Weimar, andando in scena lo stesso anno nel parco del castello di Ettersberg, recitata da una compagnia di dilettanti all’interno della quale lo stesso Goethe interpretò la parte di Oreste. L’autore rielaborò il testo in tre versioni successive: nel 1780 in versi, nel 1781 in prosa, e quella definitiva che fu terminata in Italia nel 1786 in endecasillabi sciolti, pubblicata a Lipsia l’anno successivo e rappresentata solo nel 1802 a Weimar in una rielaborazione di Schiller (che non è però stata conservata). La traduzione di Vincenzo Errante si basa sulla versione definitiva del 1786. Il traduttore correda l’opera con una interessante introduzione nella quale spiega l’importanza del viaggio in Italia di Goethe al fine di preparare la versione poetica definitiva dell’opera e, più in generale, nell’evoluzione letteraria dell’autore.
La vicenda è nota e già portata sulle scene da Euripide oltre 400 anni a.C.. Jean Racine scrisse la sua Ifigenia nel XVII secolo, ispirandosi però principalmente, come lui stesso affermò, all’Ifigenia in Aulide, dello stesso Euripide. Il finale di Goethe si differenzia da quello di Euripide, perché in quest’ultimo la salvezza di Ifigenia, Oreste e Pilade è affidata al “deus ex machina” (dea in questo caso poichè è Atena che interviene per salvare i tre risospinti a riva dopo la fuga). Goethe invece esalta la forza femminile di Ifigenia – Errante spiega benissimo questo aspetto nella sua introduzione per cui non mi dilungo – che senza alcun intervento divino induce Toante ad acconsentire alla partenza e non solo, ottiene dal re anche, unitamente al congedo, espressioni di amicizia e di perdono. «Non travisar la prepotenza, / che d’una donna alla fralezza irride! / Libera al par di un uomo, generata / fui dalla madre.»
Lo scontro tra Ifigenia e Toante si sviluppa fin dal primo atto, dopo che nel monologo iniziale Ifigenia esprime il proprio accorato rimpianto per la patria lontana; Toante la vorrebbe in sposa ma Ifigenia racconta, per dissuaderlo, le orrende colpe dei tantalidi dai quali ella discende e l’intervento della dea Diana che la sottrasse al sacrificio facendo di lei la propria sacerdotessa in Tauride. Toante è irritato da questa ostinazione e la avverte che intende ripristinare la feroce usanza del sacrificio degli stranieri che approdano alla terra di Tauride. Già qui vediamo le caratteristiche di umanità di Ifigenia opposte alla barbarie del re locale. Quando poi i due stranieri che vengono destinati al sacrificio sono Oreste e Pilade e Ifigenia si rende conto di essere al cospetto del fratello e i tre cercano di elaborare un piano di fuga, in lei inizia un grave conflitto interiore e si mostra enormemente turbata di dover mentire a Toante per poter mettere in pratica il progetto di fuga. Alla gioia immensa di aver ritrovato il fratello si contrappone l’intollerabile necessità dell’inganno e del tradimento nei confronti di chi, Toante appunto, le ha fatto del bene. Quando Ifigenia decide di non fuggire in quel modo e il re le chiede conto del rinvio del sacrificio, Ifigenia oppone un orgoglioso rifiuto all’ordine inutilmente feroce e inumano, ma rivela anche l’inganno tramato per fuggire e all’ira di Toante oppone la sua lealtà e schiettezza. Anche Oreste interviene spiegando come l’oracolo abbia indicato il compito di Ifigenia lontano dalla Tauride. Toante si rende conto che alla forza e all’astuzia virile si contrappone vittoriosa la sincerità femminile di Ifigenia.
La traduzione di Vincenzo Errante ebbe elogi anche dalla parte più attenta ed esigente della critica e si colloca a tutt’oggi tra le più rigorose e letterariamente efficaci nonostante, dopo quella “storica” – invero molto modesta – di Scipione Maffei, ci siano state quelle di Rinaldo Küfferle e di Nicola Terzaghi che sono di assoluto interesse.
Sinossi a cura di Paolo Alberti
Dall’incipit del dramma:
ATTO PRIMO
SCENA I.
Ifigenia sola.
Ifigenia.
Mobili cime della sacra antica
frondosa selva! Alle vostre penombre,
come al tempio silente della Dea,
io con trepidi sensi ancóra accedo,
quasi vi entrassi per la prima volta;
e lo spirito mio non si abbandona.
Celata qui da tempo mi trattiene
un’alta volontà, cui mi sommetto;
e pur mi sento, come quando giunsi,
straniera sempre in questa terra estranea.
Da’ miei diletti, ahimè, mi esclude il mare;
e sto ritta sul lido i lunghi giorni,
con l’anima anelante al suolo greco;
ma contro i miei sospiri il mar, mugghiando,
sol cupi accenti reca a questa volta.
Oh, misero colui che la sua vita
dai genitori lungi e dai fratelli
solitaria trascina! Ecco: la gioia,
ch’egli sfiora di già con labbra anele,
via gli strappa il cordoglio, e la disperde.
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