I viaggi d’una lacrima di Bice… raccontati da lei stessa.

di
Jack La Bolina
(Augusto Vittorio Vecchi)

tempo di lettura: 34 minuti


Cara Bice, tu non ricordi certamente quante volte dai tuoi occhi sgorgassero le lacrime. Io invece rammento come una mattina la lezione di musica ti riescisse più difficile che per il consueto. La mamma invano tentava di richiamar le tue piccole dita ai tasti bianchi e neri del cembalo. Tu allora sentisti qualcosa che saliva alle tue pupille e non ti lasciava più distinguere la riga della tastiera, e dalle tue palpebre gonfie cadde strizzata dalle ciglia una gocciolona di pianto che scivolò lungo la tua gota destra e si fermò sul tappeto.

Quella lacrima ero io.

Ora è passato più d’un anno da quel giorno e son tornata da te. Sono tra i petali d’una rosa che è nella tua camera di studio. Ti vedo leggere e tu non vedi me; ti vedo scrivere e tu non ti accorgi che ti guardo. Tu mi hai dimenticato, piccola Bice, ma io non ho mai dimenticato te.

E stamane prima che cogliessero la rosa, il mio vecchio amico Jack passeggiando in giardino ha udito che lo chiamavo. È un omino curioso che presta poca attenzione a ciò che gli dicono i suoi simili, ma che ascolta volentieri la voce mattinale della pianta, i lamenti sommessi dell’acqua ed i dialoghi severi dei sassi.

Gli ho raccontato i miei viaggi ed egli te li narrerà.

Tiepida ancora degli occhi di Bice ruzzolai sul tappeto turco. Fra due pallottoline di lana tinta rimasi ancora tonda. Scorsi la mamma di Bice e Bice e Lena e Carlo lasciar il salotto ed andarsene. Rimasi proprio sola. Nella mezza luce di quella sala vedevo oggetti per me nuovi. Provai a parlar col tappeto. Non mi rispose. Il cembalo che mi avrebbe compreso fece il sordo anch’esso.

Una finestra fu aperta e v’entrò un raggio di sole. Allora sotto la poderosa carezza di quel bel raggio aureo tutta la sala parve trasfigurata. S’accesero i colori del tappeto, le dorature delle volte riflessero, dai fiori delle giardiniere sprigionossi un’onda di profumo, le tende ebbero un fremito, le corde d’una chitarra mandarono un sospiro. Ed io sentii una dolce impressione di caldo che tutta m’invase. Mi sembrava di crescere, avevo come un capogiro e la sala che m’era sulle prime parsa vastissima ora pareami rimpicciolire. Una forza ignota mi sollevò dal tappeto. Dilatata oltre misura, leggiera m’alzai, m’alzai lungo quel caro raggio di sole che mi traeva a sé come la mamma attrae nelle sue braccia il proprio bambino. Così uscii all’aperto.

Che vista immensa! Il verde smaltato di fiori del giardino, le mura brune del castello, l’azzurro cupo del cielo! Che musica! quanto superiore a quella del mio povero amico il cembalo! Cinguettavano i passeri sulle torri merlate, susurravano i moscerini per l’aere quieto e caldissimo, cantavano monotone sugli alberi le cicale.

Ed io sempre più grande e giuliva m’alzavo sempre rapida correndo lungo il raggio d’oro.

Andai su su sino che la campagna verde e le bianche città si confusero in una sola macchia grigiastra. Di Carimate e del Castello non vedevo traccia alcuna. Ero nel— l’immenso azzurro senza limiti.

Ma ecco che il mio moto s’arrestò. Il sole divenne meno caldo; sentii come se da lui m’allontanassero. Mi guardai intorno e non mi trovai sola. Altre gocce erano meco, ancor esse ingrandite e come assottigliate. Ben presto ci avvicinammo le une alle altre spinte com’eravamo da folli brezze leggiere leggiere. Chi veniva da una parte dell’azzurro, chi dall’altra, alcune dal basso; altre dall’alto. Talune avevano avuto per culla un fiore, tal altre che si addimostravano più orgogliose erano salite su da un fiume chiamato Ticino del quale vantavano le acque limpide. Ce n’erano di povere e meschine umilmente sorte dalle risaie. Ce n’era una poi che tutte noi trattammo con gran sussiego; figurati ch’era stata semplicemente goccia di sudore d’un cavallino chiamato Pick! Mentre noi ci facevamo le nostre mutue confidenze e cercavamo di metterci in modo da non mischiarci in soverchia dimestichezza con gocce d’ignobile o di non accertata provenienza il bel sole che ci aveva tratte dalla terra tramontò. Ci mandò come una ultima carezza e poi disparve. Fu un immenso dolore! Ci sentimmo intirizzire intirizzire e come di fronte ad un pericolo ignoto e misterioso ci accostammo l’una all’altra, decise a far causa comune. In quell’istante t’assicuro che tutte le fisime e gli orgogli del giorno cessarono.

Mi ricordo una certa gocciolina tutta profumata che per esser stata nel fazzoletto di trina d’un’imperatrice stimavasi più delle altre. Quando essa vide le tenebre che s’avanzavano e tutte le stelle gremire il cielo, la poverina ebbe una paura tale che s’accostò ad un’umile goccia proveniente dallo spurgo d’una macchina di carta ed anco puzzolente di cloro e le si raccomandò che non l’abbandonasse mai. L’onesta goccia sorrise e promise e mantenne.

Rimasero insieme finché…

Te lo dirò poi. Non conviene dilungarsi in incidenti.

La notte c’impaurì. Eravamo tutte raccolte ed intirizzite, La terra apparivaci come una macchia bruna al fioco chiarore delle stelle. Che sarà mai di noi? — pensavamo.

— Fatevi coraggio, ragazze, — sclamò allegramente una gocciola del nostro gruppo; — son vecchio di queste cose — soggiunse.

Strette intorno al tranquillo interlocutore, lo pregammo narrarci la sua storia ed egli incominciò:

Storia d’un gocciolone.

Goccine mie belle, io son vecchio del mestiere ed è bene che sappiate come non sia la prima volta che mi ritrovo nel profondo azzurro.

Non rammento più d’onde venni, ma vi dirò dove siamo.

Noi tutti qui radunati facciamo ciò che gli uomini chiamano una nuvola. Il mio padrone che è uno scienziato che sta a Pavia e che s’occupa di meteorologia, il signor Nocca, direbbe che siamo ridotti allo stato di vapore acqueo. Come vapore abbiam perduto ogni libertà. Possiamo muoverci spinti dal vento, precipitare al basso ripigliando la nostra forma di gocce, doventando or pioggia, or rugiada, condensarci in globuli di grandine, cadere a falde di neve, esser divorati dalla terra, far molto bene, e produrre molto male.

Io codesti stadi li ho tutti passati da quel vecchio gocciolone che sono. Son stato anche in prigione in una macchina a vapore dove ho bollito maledettamente. Ma non temete di nulla, veh? Né la natura che ha bisogno di noi, né gli animali e le piante che ci assorbono posson mai distruggerci. Solamente ci vuole coraggio per sopportare le migrazioni che ci toccano. Ecco guardate, siamo in ballo.

Un forte sibilo troncò la voce al narratore. La nuvola di cui formava parte integrante, spinta dal vento si pose in cammino. Noi facevamo ogni miglior sforzo a tenerci serrate l’una contro l’altra onde quella robusta brezza non ci sparpagliasse. Là vidi che cosa voleva dire una salda amicizia e quanti proponimenti del tempo buono mancano allorché il mal tempo imperversa.

Dai vari punti del firmamento altre nuvole si avanzavano alla nostra volta. Alcune s’addensavano sul nostro capo, c’investivano altre per di sotto e seco ci traevano più in alto. Il vento ingagliardiva; le stelle non si vedevano più. Era una notte tetra e paurosa quella che ci avvolgeva.

Correnti fredde s’alternavano con correnti afose, un cupo romore continuo ci accompagnava nella nostra corsa vertiginosa: finalmente un grandioso spettacolo ci apparve.

Una luce intensa, un tuono meraviglioso colpirono i nostri sensi. L’enorme nuvola ebbe una scossa tremenda. Parte, staccata da noi capitombolò verso il basso e potei scorgere al chiarore d’un lampo le due gocce di cui ti narrai, quella del fazzoletto e quella della cartiera, avvinghiarsi una all’altra e confondersi in una sola. Che di loro avvenne? Io non mi rammento più che d’una lunga notte, seguita da un giorno lunghissimo, poi da altre notti ed altri giorni.

Il vento ci tormentava sempre, non mai accordandoci riposo.

La mia nuvola commista ad altre formava una gigantesca massa di vapore. Non avevo più i miei vicini, nessuno comprendeva la mia parlata italiana. Né io comprendevo le lingue diverse che avevano le mie novelle compagne. Né potevo dimandar dove fossimo; d’altronde neppur esse me lo avrebbero saputo dire.

Alla fine il vento cessò.

Una parte del cupo nuvolone erasi precipitata in pioggia su terre che non avevo potuto nemmeno intravedere. Tornò a rifulgere il sole.

Ma quanto diverso dal caldo e luminoso astro che a Carimate mi aveva sollevato per l’aere cilestrino. Veramente questo sole che dardeggiava pallidi raggi obliqui non era quello della mia Lombardia.

E non avrei saputo spiegar cotesta differenza se non avessi veduto accorrere a me vicino il mio amico gocciolone dell’osservatorio.

— Buon dì, amica, — mi disse.

— Ben tornato fra noi, caro, — risposi. — Mi sai dir dove siamo?

— Caspiteretta! Ti dirigi a persona competente.

Sappi che siamo presso al circolo polare artico, là dove il sole obliquo sta tre mesi sull’orizzonte. Da certe reminiscenze della mia prigionia nell’osservatorio meteorologico e da certe mie nozioni scientifiche, mi pare che siamo sullo stretto di Davis fra la Groenlandia e l’America del Nord propriamente detta. Abbiamo fatto un cammino indiavolato fra correnti elettriche meravigliose. C’è stato un momento nel quale il vento di scirocco che ci spingeva aveva la forza d’un uragano. Le nubi ch’erano al disotto di noi hanno camminato per la direzione di ponente e talune sono cascate in pioggia.

Il gocciolone esitò un istante, poi ripigliò:

— Che cosa sarà di noi è difficile dirlo; ma temo un cattivo autunno. Che Dio ce la mandi buona.

— Ma di che temi? — richiesi.

— Tutto dipende ora dai venti che ci meneranno o qua o là. Il sole poco può ancor durare sull’orizzonte…

Se i freddi ci sorprenderanno qua sullo stretto di Davis cascheremo in neve; se ci butteranno a tramontana diventeremo… Ah! Ah! il freddo mi piglia, addio…

Il freddo pigliò anche me; mi sentii intirizzire; stringere da tutte le parti, quel tepore che dovevo al sole nativo di cui avevo conservato una porzione mi abbandonò. Assiderata, subitaneamente il mio involucro acqueo si congelò poscia pigliò una consistenza cristallina. Acquistai un peso nuovo, scesi, scesi giù per l’aere, poi con movimento sempre più rapido capitombolai al basso. Quando giunsi a toccare la superficie dell’acqua che ancor essa rapprendevasi ero una pallottolina di ghiaccio, presso ad una terra coperta di enormi monti di ghiaccio verdastro sui quali gli ultimi raggi del sole iperboreo si rifrangevano.

Cominciò da quell’istante la mia prigionia. Tenebre che di tanto in tanto un’aurora boreale veniva a diradare, silenzio sepolcrale, frigore insoffribile, ecco di quanto ho potuto serbare memoria.

Mi ritornavano alla mente il castello, la piccola Bice, il mio viaggio ridente, l’uragano, le amiche perdute ed il mio buono ed allegro gocciolone pieno di esperienza e di sapere.

Egli era poco discosto da me; anzi mi rivolsi a lui per aver notizie del futuro. Ma non volle discorrere.

— Fa un freddo che taglia le parole in bocca anche agli scienziati, mi disse con evidente mal umore. Chiacchiereremo alla primavera prossima. E per vari mesi non ci fu modo di levargli una parola di bocca.

— Pst Pst, lagrimina bella. Pst! Pst!

— Oh! ti sei svegliato, dormiglione?

— Si, conviene che ci prepariamo.

— Prepararsi a che cosa?

— Diamine allo sgelo che è imminente. Non senti come l’ammasso di ghiaccio si muove? Come si vede che sei una lacrima di donna; non hai punto cervello.

Devi sapere che fra poco tutto codesto sterminato campo — floc come diciamo noi scienziati — va a staccarsi dalla costa con un rumore tremendo. Saremo allora una enorme isola di ghiaccio in balìa delle correnti che ci trascineranno a mezzogiorno; e l’istante della nostra liberazione non è lontano. Nutro qualche speranza di tornar quel gocciolone sapiente che tu hai conosciuto e d’andarmi a riscaldare all’equatore. Che piacere! salire fino ad 80 gradi del termometro di Fahrenheit! Che delizia dev’essere. Conosco il Mediterraneo, ma l’Atlantico del Mezzogiorno non l’ho ancor mai frequentato. Ho poi una matta voglia di fare un corso d’esperimento nel Pacifico girando il Capo Horn. Veramente sarebbe per me più interessante l’Oceano Indiano.

Figurati che colà fra goccia e goccia d’acqua s’inseriscono talvolta infusori fosforescenti così numerosi che il mare tutto per miglia e miglia prende un’apparenza lattea. Capisci che orgoglio esser goccia di cotesto mare! E poi dall’Oceano Indiano risalire il Golfo del Bengala e scendere per il mare della Sonda e su su per le coste della China e del Giappone entrar nella famosa corrente nera, il Kurosiwo dei giapponesi ed entrar così trionfalmente nell’Oceano Pacifico. E sai, star sempre fra quei tali cari 70 od 80 gradi e non rabbrividir di freddo come in questo malaugurato mar di Davis.

— Io non ho tanto vasta ambizione. Mi contenterei di andarmene tranquillamente nel Mediterraneo.

Il gocciolone non dovette approvare i miei umili pensieri perché masticò qualcosa fra i denti e per un giorno o due non mi rivolse la parola.

Ma aveva indovinato. Poco dopo accadde lo sgelo. Fra scoppi paurosi che somigliavano a tuoni, il nostro campo di ghiaccio staccossi e scese in balìa della corrente. Nella nostra corsa incontravamo altri flocs. Che potenti urti succedevano! Ma le acque calde del mare libero erano altrettanto nocive ai flocs quanto il mutuo urtarsi.

Il ghiaccio sgretolavasi ferito al basso dalle acque tiepide, al sommo dal sole che alzavasi sull’orizzonte.

Una bella mattina anch’io perdetti la mia forma cristallina alla quale mi ero abituata e tornai gocciolina d’acqua. Puah! Puah! che orrore! Il mio amico scienziato non mi aveva iniziato al tremendo mistero del mare.

Al contatto di tutta quell’acqua tiepida mi sentii invadere da un sapore salso ed amaro. Qualcosa di nauseante penetrò nelle mie più intime molecole; mi parve d’esser avvelenata.

Una risata mi fece voltar a dritta e vidi l’amico che tutto dilettavasi di quel saporaccio e che pareva la più felice goccia del mondo intero. Difatti mi disse:

— Vedi gocciolina sventata, ora andremo a grado a grado a cambiare il 3 e mezzo per cento del nostro peso in altrettanto sale marino. E sai tu che cosa contiene? Contiene cloruro di sodio, solfato di calce, carbonato di calce, potassa e magnesia e ferro. Senza questo sale che tu disprezzi non sarebbe stata possibile la corrente che qui ci ha menato, la piccola Bice non potrebbe digerire il suo pranzo, l’aria non sarebbe sana, la meravigliosa legge dei climi non esisterebbe, la tua Lombardia non sarebbe la ricca contrada che è. Rispetta il sale del mare che è la salute della terra. Sono i componenti calcari del sale che manipolati dalle madrepore formano novelle isole nell’Oceania; sono i componenti calcari del sale che milioni di secoli or sono furono manipolati da quelle umili piccole conchiglie che hanno innalzato le Ande e le tue Alpi native. Benedici il sale, lagrimetta ignorante!

In mezzo a codeste lezioni camminavamo sempre verso il mezzogiorno. Il mio compagno mi insegnava il nome dei pesci che brulicavano nella nostra corrente, la corrente europea. Mi annunciò che seguivamo la costa della Spagna e del Portogallo; che allo stretto di Gibilterra saremmo stati raggiunti da una corrente sottomarina proveniente dal Mediterraneo e che d’accordo avremmo rasentato la costa occidentale dell’Africa.

Che magnifico viaggio! caldo il giorno, ventilato l’aere dal soffio dell’aliseo, gremito di curiosi animali il vasto nostro fiume che solcava il mare. Nel cielo le stelle fulgidissime! Ma ecco che una sera che insieme col mio amico ero andata proprio a galla, chiamatavi dalla temperatura già molto calda, ecco che mi accorsi di stelle che io non avevo veduto prima.

— È la croce del Sud quella che tu scorgi! Guarda lo scudo di Sobiesky, guarda come è più ricco il cielo qui; guarda che meraviglia di cielo! Ora siamo all’equatore; domani faremo una nuova strada.

E difatti il nostro fiume pigliò una direzione nuova, corse a ponente. Eravamo nella corrente equatoriale.

(Continua)

II.

Sì, ero nella corrente Atlantica equatoriale.

Le acque come una immensa fiumana correvano verso ponente. Ma com’erano popolate! Pesci d’ogni specie, molluschi, minutissimi animaletti ad occhio umano invisibili, popolavano questo magnifico fiume.

Io già abituata ormai all’esistenza vagabonda di goccia di mare andavo ora su, ora giù, secondo la temperatura dell’acqua circostante. A rari intervalli il sole della zona torrida faceva capolino dal denso nuvolato ed allora un insolito movimento cominciava fra noi.

Io provava quella strana sensazione che dal tappeto del salotto m’aveva alzata fino alle nubi sopra il Castello.

Più d’una volta m’accadde d’esser già quasi sospesa fra cielo ed acqua, ma ugual numero di volte fui ricacciata giù da grosse e spesse gocce di pioggia che si precipitavano sul mare.

Una mattina me ne venni quietamente a galla sperando sempre nella carezza del sole, e vidi una gran massa nera verso la quale ci avanzavamo.

Rimasi incantata a guardare. Era una nave che sorpresa dalla calma attendeva un buffo di vento per procedere nel suo cammino.

Io ne guardava i bei fianchi lustri quando udii un plash, plash, puff!… e mi sentii alzar su in un secchiolino. Non puoi immaginarti la paura che provai ed anche il dolore di vedermi separata dal mio buon gocciolone Pavese.

— Che faranno di me e delle mie compagne nel secchiolino? — pensai.

L’uomo che ci aveva tirato su, pose il secchiolino sul ponte ed un giovane con un gallone d’oro sulla manica e con una macchinetta in mano s’avanzò.

Figurati che era una nostra conoscenza, il signor Luciano Manara, quello che ha una villa a Barzanò.

Pigliò tranquillamente il termometro (l’istrumentino che aveva fra mano) misurò la temperatura dell’acqua, segnò certi numeri sopra un taccuino e poi disse ad un marinaro; « buttate quell’acqua sul ponte.»

L’uomo colla più grande indifferenza obbedì e noi fummo sparse sul ponte levigato della Carmen cutter del R. Jacht Club Italiano appartenente al signor Luciano Manara.

Che piacere udir quella sua gente parlar la nostra lingua!

È vero che la calma li teneva d’un umore tutt’altro che piacevole, ma, credi, quando è lungo tempo che non si ode la lingua del proprio paese anche un’insolenza nel proprio idioma fa piacere più d’una cortesia in lingua straniera.

Poverini! avevan ragione di essere inquieti! Erano otto giorni — a quanto capii — che stavano là in calma, percossi dall’aria afosa, rotta di tanto in tanto da corti buffi affaticati di vento e da acquazzoni di pioggia tepida.

Otto giorni passai a bordo alla Carmen sempre lì lì per esser dall’insopportabil calore tramutata in vapore e sempre in buon punto rinfrescata da torrenti d’acqua che venivano giù dal cielo plumbeo.

Come Dio volle la Carmen uscì da quella zona tremenda e me lo annunciò un grido del nostromo di guardia che urlò tutto contento: « Signor Manara l’aliseo del Sud! »

Era proprio lui, l’aliseo che soffiava alla nostra volta.

Non più nuvoloni di piombo, non più l’afa insopportabile, non più il malumore, ma il cielo azzurro, la brezza leggiadra, freschetta, il gaio viso dei marinari, il mare ceruleo increspato di candide pecorelle, il sole caldo, ma sano e robusto.

Era scritto però che quel cotanto altero aliseo mi dovesse rapire alla tranquilla vita della Carmen.

A mezzogiorno il sole mi colpì: inerte, non potei fuggirne l’ardore. Mi portò su per l’aere in una carezza di fuoco; lasciai come traccia un polviscolino di sale, come una mia spoglia alla nave che mi aveva dato asilo.

Sotto di me l’oceano smisurato, sopra di me il cielo azzurro; un puntino bianco che seguii lungamente con lo sguardo, era la Carmen che faceva strada per Montevideo.

L’aliseo di libeccio mi portò seco e ben tosto ai miei piedi non ebbi più il mare, ma la terra Americana.

Immense foreste che alternavansi con pianure a perdita d’occhi, fiumi che solcavan la terra e parevano dalla mia altezza lunghi e tortuosi nastri d’argento.

La caldura dell’aria aveva in taluni luoghi ingiallito il robusto fogliame e gli asciutti prati crepolavano al sole. Di fronte a me s’ergevano gli ammassi porporini di montagne altissime sulle cui vette brillavano come cristalli gli eterni ghiacciai.

E verso quella barriera mi sospingeva l’aliseo.

Intorno a quella vetta che non fui tarda a raggiungere si raccolsero meco milioni e milioni di goccie che il sole aveva estratte dalla zona equatoriale.

Conta quanti milioni puoi, somma i granelli di sabbia del deserto e le stelle che sono in cielo, e non farai la decima parte del numero di gocce d’acqua che meco si raccolsero intorno alle cime delle Ande.

Dall’Atlantico, enorme caldaia, sollevate dal potentissimo sole, trascinate dal libeccio che mai non posa, giungevano a miliardi giornalmente le gocce di vapore acqueo.

D’ogni nazione, d’ogni linguaggio. Gocce che erano state prigioniere nei ghiacci del Polo Artico, che erano sgorgate dalle sorgenti onde s’alimenta il Niger, gocce stillate dalle foglie imbalsamate degli Eucalipti d’Australia, dai campi di rose della Persia e del Cashmir, gocce ch’erano state nevi nell’Imalaja e rugiade nei giardini della China meridionale, gocce che avevano bagnato le gelide terre del Capo Horn ed i vigneti del Capo di Buona Speranza, gocce giovani di ieri e vecchie di migliaia di secoli, tutte le aveva radunate il sole interprete del volere di Dio! tutte in attesa dell’istante in cui dovevano esser rese alle terre che dalle sue riarse crepacce le attendeva come un beneficio divino.

Scendemmo come pioggia sulla valle delle Amazzoni.

Come i temporali d’Europa mi parvero meschina cosa rispetto alla tempesta gigantesca che si scaraventò sulla terra tropicale! Echeggiava l’aere del tuono sublime di quella elettricità che ne sovrastava sul capo. Fiumi d’acqua, montagne di luce azzurra, romore di mondi che s’urtassero, tale la scarica sulla terra della nostra cateratta celeste.

Penetravamo dovunque; scivolavamo lungo le rocce, sbucavamo fra foglia e foglia, seguivamo le rugosità dei tronchi, balzavamo da fronda a fronda, ci forzavamo una strada fra le radiche, allagavamo ogni meato ed inseguendoci follemente da una foglia ad una radica, da uno scoglio ad un tronco disseccato, da questo scivolavamo ad una liana arborescente, d’onde cascavamo sulla terra calda e rimbalzando tornavamo a prendere un arbusto, sempre e dovunque attese, desiderate.

La nostra era una febbre; quell’arsura della terra s’era a noi comunicata come un contagio pauroso.

— Resta bella gocciolina — mi disse una pianticella sospesa

nell’aria, un’orchidea. — Senza di te non potrò far i miei fiori rossi come il sangue.

— No, — risposi e balzai di scatto contro un maestoso tronco di guayac.

— Scendi lungo la mia tersa corteccia fino al mio piede e doventerai tronco, del più tenace legno del mondo — mi disse.

— No, — e sferzai la pelle maculata e fredda d’un serpe che usciva dal fogliame per assorbire il dolce umidore della foresta lavata dalla tempesta.

— Resta, resta, la mia pelle ha il color dell’oro e dello smeraldo, — esclamò.

— No, — e mi sprofondai fra il muschio appassito.

E sorda anche a quelle umili preghiere, continuai a scivolare incalzata da altre mie sorelle ed incalzante quelle che mi precedevano finché giunsi ad una ripa d’onde una cateratta buttavasi in una riviera maestosa, che copriva miglia e miglia di foreste innondate.

Ero nel Rio delle Amazzoni.

Che maravigliose rive! che foreste interminabili.

Talvolta scorrevo tranquilla, tal altra rapida come una freccia. Ho lambito enormi zattere d’Indiani, ho colle mie compagne strappato come per giuoco, alberi giganteschi dalla terra dov’erano radicati da secoli, ho veduto affluenti del mio fiume scaricar nel suo alveo colonne d’acqua potenti come mari. E che animali strani passavano fra noi gocce! Gimnoti che per chiappar la loro preda la tramortivano scaricandole addosso una corrente d’elettricità, coccodrilli mostruosi alla vista, lenti ed inoffensivi, lamantini contro cui i jaguari delle rive ponevansi in agguato, tartarughe d’acqua dolce, che la sera a luna piena andavano a depositar le uova sulla sabbia delle isole. E sulle sponde che multiforme popolazione! Scimmie, pappagalli, corvi, tapiri, coati, jaguari, puma, tucani, rompevano il notturno silenzio della notte americana mentre splendeva la luna sulle acque glauche trascinate verso il mare dalla prepotente forza della corrente.

Ma la nostra confusione nelle onde atlantiche doveva essere premio d’una battaglia terribile.

La prorovoca.

Sbarazzatami di certa creta che s’era congiunta a me quando incontrammo il Rio Madera e che mi era diventata antipatica per certe sue idee repubblicane che non s’attagliano ai miei — chiamiamoli pregiudizi — ai miei pregiudizi brianzuoli, sbarazzatami di quella creta (ripeto) che posai destramente lungo una radice di ficus elastica, me ne salii leggiera leggiera a galla e spingendo lo sguardo intorno, vidi che ero giunta alla bocca del Rio delle Amazzoni.

L’estuario dell’immensa riviera poteva avere trecento chilometri di larghezza a quanto mi disse un pezzo di metro scivolato di tasca ad un ingegnere e che s’era accostato a me. Poverino! mi tenne buona compagnia per molti giorni. Era stato fatto a Milano, fuor di porta Ticinese e parlava un dialetto lombardo misto di spagnuolo e di portoghese. Povero metro! Chi sa che cos’è accaduto di lui!

Tutto faceva presagire un tranquillo viaggio nel seno dell’Oceano; la corrente del fiume era fortissima, per causa delle tempeste maravigliose delle Ande.

Ad un tratto, un sordo rumore agita l’aria e si ripercuote sulle rive e sul fondo del fiume. Sulla sponda destra lungo la quale scorrevo, una inusitata vita in quelle ore calde si ridesta. È una corsa sfrenata che s’impadronisce d’ogni creatura vivente o che la spinge dentro terra.

Un grido di spavento esce dalla bocca d’un uomo — prorovoca. Lo echeggiano i muggiti di mandre anch’esse fuggenti, il batter d’ale spaventato degli uccelli che abbandonano le alte cime degli alberi; l’urlo roco delle fiere che abbandonano i loro diurni ricoveri.

La fronte dell’estuario s’alza in onda gigantesca e si muove contro il corso del fiume come una muraglia d’alabastro. Curvansi alberi, al vento che la precede; aumenta il rombare cupo dell’onda commossa, essa c’incalza furente, ci sorprende, s’allarga fuor delle rive, tutto spezza e distrugge…

Io non so dirti quanto durasse quella orribil commozione del fiume. Quando tornai a galla tutto era tranquillo; l’Amazzoni più rigonfio e più flavo scorreva al bacio del mare trascinando seco coll’onde proprie anche quelle della Prorovoca. Galleggiavano sulla riviera tronchi d’alberi, cadaveri, capanne d’Indiani e di portoghesi, oggetti d’ogni sorta. Tutto ciò che non aveva potuto fuggire l’urto della muraglia d’acqua o che da essa era stato raggiunto, tutto essa aveva travolto e trascinato nel ritorno. Fulgido, caldo, impassibile il sole colorava in purpureo dorato quella natura ferita e sbocconcellata, e noi gocce del gran fiume per un istante arrestato nel nostro corso trionfante, avevamo ripreso il fatale cammino determinato da Dio che vuole che le acque vadano al mare per uscirne vapori e tornar nel suo seno capace, con vicenda continua che mai non cambierà.

La notte mi trovò nell’Atlantico. Ma l’acqua non vi era salata. Doveva rimaner dolce per molti giorni ancora.

(Continua)

III.

— Gocciolina bella, dammi un bacio.

— Mi volto: e chi vedo? il gocciolone di Pavia. Oh, caro amicone!

— Che cosa t’è accaduto? d’onde vieni?

— Ragazza mia, ho viaggiato finché ho voluto. La corrente equatoriale m’ha sbattuto contro la costa d’America, ma invece di cascar nella corrente Brasiliana figurati che son capitato in quella che prolunga la costiera da Capo S. Rocco alle terre Magellaniche, ed ho veduto il pericolo d’andare a gelare nella Terra del Fuoco. Bello questo bisticcio, vero? Me ne stavo tranquillamente intorno alla carena d’una fregata italiana comandata dal fratello della nostra Regina e discorrevo in veneziano con una ostrichina della laguna che vi s’era attaccata alla partenza da Malamocco, quando mi sento tirar su da non so qual forza prepotente dentro un tubo e di là per mille angusti passaggi eccomi al buio in una caldaia. Senti, delle peripezie scientifiche ne avevo traversate, ma a questa non m’attendevo.

In tanto tempo, quanto ne metto a dirti cara la mia brianzuola, mi son sentito scottare, son diventato vapore, m’hanno mandato in uno stantuffo, m’han cacciato fuori, m’hanno rispedito in un condensatore, mi hanno tornato allo stato acquoso, poi la pompa m’ha preso, m’ha rimesso un’altra volta in caldaia, ne son uscito, non so che diavolo di strada ho fatto, ma da uno scaricatoio son uscito; il vento freddo m’ha ridotto ad una pallottolina d’acqua e m’ha gettato sul viso del Principe Tommaso di Savoia, che m’ha staccato col fazzoletto e che mi ha messo in tasca.

Di là son andato in un cassettone di biancheria, poi nelle mani d’una lavandaia negra a Rio Janeiro; fra sapone e sudiciume ho potuto andare in una conca d’acqua pulita, che hanno poi vuotata in un ruscello pieno di gamberi, dai quali son fuggito correndomene al mare.

Là son rimasto in rada di Rio, ho salutato l’ostrica mia amica e profittando della corrente che porta a settentrione, son giunto fin qui alle foci del Rio delle Amazzoni, nella prorovoca c’ero anch’io; sai? Mi piacque molto prender parte ad una marea di quel genere. Immagina che il mascaret della Senna, la barra dell’Hongly e la eagre del fiume Tsien-tang nel mar della China sono giuocattoli a petto della prorovoca. Ho fatto venticinque miglia all’ora sulla cima del muraglione d’acqua; era alto trenta metri ed eravamo non un’onda, ma tre onde, capisci? Se mai dovento goccia d’inchiostro nel calamaio di Jack la Bolina, voglio scrivere le mie impressioni.

Ora sono qui, e spero che staremo insieme qualche tempo.

— Ma tu, con tutto il tuo sapere sai dove si vada?

— Cara gocciolina mia, la scienza è una bella cosa, ma il primo pesciolino che m’inghiotte mi rovina tutti i miei pronostici. Basta, tenterò darti un’idea di quanto ci può accadere. Ascoltami,

Ora come ora, noi corriamo lungo la costa della Guiana trascinati dalla corrente Americana.

Passeremo fra le isole di Sopravvento e la costiera del Venezuela ed entreremo nel mar dei Caraibi o delle Antille, il cui golfo di tramontana chiamasi Golfo del Messico. Là vedrai che bel giuoco.

Riscaldati dal sole, dal calorico raggiante delle terre continentali delle due grandi isole di Cuba e di Haiti e dalla Giamaica, sboccheremo tra la Florida e le isole di Bahama in un canale che traverseremo colla gloriosa velocità di un rapido fiume d’acqua calda. Nella nostra corsa vittoriosa saremo sempre coronati di una nebbia tiepida come da una aureola. Porteremo calore all’Inghilterra, alla Scandinavia, saremo noi che scioglieremo i ghiacci del Polo, che apriremo i passi del Baltico, che scalderemo le coste colle nostre acque e l’interno delle terre con la tepida nebbia che seguirà il nostro corso…

— Gocciolone, diventi poeta…

— Non m’interrompere se no perdo il filo… lasciami andare. Quel fiume delle Amazzoni donde siamo usciti, non è più rapido di quello che sarà il nostro fiume Messicano. Il volume d’acqua dell’Amazzoni che ha 5000 chilometri di corso e 300 di foce è mille volte minore del volume del nostro fiume caldo e salato. Le nostre acque saranno colorate d’azzurro così cupo che niun zaffiro uguaglia e nell’ampia distesa dell’Atlantico saranno palesi allo sguardo.

Il primo uomo che ha scientificamente osservato il Gran fiume oceanico sai tu chi era? Nientemeno che Beniamino Franklin, l’istesso che difese gli uomini dal folgore, il mite filosofo di Filadelfia.

Oh gocciolina, si è detto che dobbiamo far qualche breve sosta nei nostri paesi che ci son sì cari, pensa che bella maniera di tornarvi se ci saremo trasportati da codesta nobil corrente che l’Atlantico versa sull’Europa occidentale, arrecando vita e calore, infiorando pianure e montagne, maturando l’uva e le messi, temprando coi venti che produce l’algore delle Alpi e smorzandone ad un tempo la torrida temperie sui vasti deserti.

Qui terminò la lezione il mio buon gocciolone, ed io tutta compresa d’ammirazione attesi che la sorte propizia e la corrente mi spingessero nel Mar di Caraibi.

La compagnia del buon gocciolone fu per me utile oltremodo.

Non fu essa che mi fornì la spiegazione di fenomeni che avrei sempre ignorato od almeno che avrei appreso tardissimo?

Tu, cara mia piccola Bice, farai bene pertanto a non accettare quanto egli mi disse e che io poi ti ho ripetuto come roba di Vangelo. Il mio amico gocciolone è senza dubbio istruito, ma temo che la sua smania di sfoggiar sapienza, lo induca in tentazione di oltrepassare la verità non sempre ma forse di tanto in tanto.

Insomma, sia come vuol essere, è certo che nel lungo viaggio fino a casa, più d’una volta mi ha detto cose assai istruttive ed io mano mano te le ripeterò.

Eravamo già in alto mare; me ne accorgevo dal salso che m’invadeva tutta e che ora non trovavo così ostico come la prima volta. Il gocciolone mi disse che correvamo verso tramontana, ma che presto avremmo incontrato una nuova corrente d’acqua dolce, alla foce dell’Orenoco.

— Torneremo dolci come nell’Amazzoni? — chiesi io.

— Sì, ma per breve tempo; poscia ripiglieremo la usata saturazione di sal marino.

— Ma dunque, secondo te, il mare è ugualmente e per ogni dove salato?

— No, cara. Parlando scientificamente, il mare non cambia salsedine là dove l’evaporazione è bilanciata dalla precipitazione; cioè là dove per tant’acqua che il sole trae a sé come vapore, tanta ne mettono giù le pioggie dalle nubi e le fiumane che altre nubi hanno alimentate. Ed appunto una delle cause che determinano le correnti marine è l’equilibrio della saturazione.

Supponi un mare come il Mar Rosso, poco profondo, stretto, dove nessun fiume sgorga e dove raramente piove. Colà l’evaporazione sarà potentissima ed il livello delle acque tenderà a diminuire. Ma questo fatto della differenza momentanea di livello determinerà un afflusso dallo Stretto di Bab el Mandeb di acqua meno salata, che verrà a rifornirsi di sale e poi spingendo al fondo l’acqua più salsa o più pesante determinerà una corrente sottomarina. C’è un mare chiuso ch’è enormemente salato. È il lago Asfaltite. Poco vi piove, un sol fiume, ch’è il Giordano, vi sbocca ed il sole di Palestina vi determina una potente evaporazione. Coll’andar dei secoli il lago Asfaltite sarà un campo di sal gemma.

In generale sono più salati i mari chiusi ed angusti; il Mediterraneo, il Mar Rosso, il Golfo Persico, e finalmente due laghi d’Asia che furono mari, cioè il Caspio ed il Mar d’Aral, che un tempo fu un braccio del Caspio ed ora n’è distante leghe e leghe.

A moderar la salsedine dell’Atlantico concorrono i maggiori fiumi del mondo, il Plata, l’Amazzoni, l’Orenoco ed il Mississipi.

Sono meno dolci, i mari delle regioni polari.

Là pioggie, nevi, grandini frequenti, fiumi di non lieve importanza, e soprattutto poca evaporazione.

Ma a ristorar l’equilibrio andiamo noi che ora siamo qui fra i tropici.

— Ma allora, come succede che essendo meno sature di noi le acque del settentrione non vengono a noi cacciandoci a fondo come più pesanti? Così mi narrasti, accade per il Mar Rosso.

— Brava, brava gocciolina, ora m’avvedo che principio ad interessarti alle cose di scienza e voglio spiegarti ogni cosa. Anzi ne parleremo fra pochi giorni, non adesso.

Il gocciolone sta zitto per qualche giorno, poi una bella mattina gli vidi pigliare il tuono cattedratico ed incominciar così.

— Vedi tu, gocciolina, alla tua dritta una terra lontana? Quella è l’isola della Trinità. A sinistra, la punta orientale del continente americano. Ora, guarda; a dritta una serie d’isole chiamate Antille, forma come una barriera di terre colla convessità della curva a levante, a sinistra il continente si distende in arco con la corda a levante; cosicché questo mar delle Antille forma col Golfo del Messico due cerchi comunicanti tra di loro per lo stretto di Yucatan.

La corrente equatoriale che ci mena, butta nel Mar delle Antille le acque del Tocantins, dell’Amazzoni e dell’Orenoco, che è quanto dire la maggior parte dell’acqua scaricata dalle pioggie nell’America meridionale. I venti alisei di Grecale vi spingono l’acqua dell’Oceano dai vari stretti fra isola ed isola.

Come se tanta copia d’acqua non fosse sufficiente, sbocca nel Mar delle Antille il Rio Magdalina e nel Golfo del Messico il Rio del Norte o l’immenso Mississipi, il cui volume d’acqua è pari al volume dell’Orenoco, se non lo supera.

Intorno alle rive di codesta caldaia d’acqua salata le terre sono alte e torrefatte dal sole, perché il tropico del Cancro divide il Mar delle Antille dal Golfo.

Sbocco alla caldaia è il passo di Bahama tra la penisola di Florida e le isole Caye, l’una delle quali o Guanahani dove Cristoforo Colombo prese terra e dove piantò la bandiera della scoperta.

Noi, tepide acque dell’Atlantico meridionale, entriamo ora nel Mar dei Caraibi o delle Antille e vi diventeremo bollenti; irromperemo nel Golfo del Messico e la nostra temperatura non varierà, nonostante l’acqua fredda e dolce del Mississipi e del Rio del Norte.

Rese leggiere dal calorico che sole e terra ci mandano, azzurre per la salsedine, ci butteremo come un fiume prepotente nel canal di Bahama.

La nostra velocità sarà tale che per molto corso le nostre molecole non si confonderanno col mare incostante e gli uomini ci conosceranno alla temperatura ed al colore.

È stato calcolato che se non uscissimo così risolutamente dal Golfo del Messico, e invece rimanessimo stazionarie, svilupperemmo tanto calorico da inaridir tutte le fonti della costa e da render inabitabili le isole ed il continente che ci rinserrano.

— Ma e codesto sale di cui tu sempre mi parli, dimmi, d’onde viene? Com’è che i fiumi son dolci ed il mare è salato?

— Ahi! gocciolina bella, tu tocchi una questione oltremodo difficile a risolvere.

Nei primi anni della terra, nell’epoca corrispondente al caos della Storia Sacra, sembra che il nostro pianeta fosse una massa centrale incandescente avviluppata in un nuvolo di vapori. Le sostanze che ora formano la crosta del globo erano o liquide o aereiformi.

L’immensa palla era anche probabilmente luminosa e non è fuori della possibilità che la terra sia stata una cometa. Lanciata nello spazio ad inconcepibile velocità fra gli spazi freddi ed immensi, essa coll’andar del tempo perdette una parte del suo calorico. Io stimo che cominciarono a solidificarsi le rocce più dure e l’involucro gassoso che circondava quell’orbe si assottigliò, e precipitarono al basso le materie ch’erano più pesanti.

L’acqua allora presso a quella terra caldissima non poteva esser che allo stato di vapore riscaldato, come sono stato io nel cilindro della macchina a bordo della corvetta Vittor Pisani.

Quanto tempo la terra fosse tanto calda, né io lo so, né altri te lo saprà dire. Ma il continuo e graduale raffreddamento condusse un bel giorno i vapori dell’atmosfera a precipitar come pioggie dirotte.

Altro che gli acquazzoni delle regioni in cui siamo!

Immagina che furon battaglie fra l’acqua che scendeva a torrenti, e la terra ancor cocente che la risospingeva in alto sotto forma di vapore!

Ma le gocciole nostre antenate domarono quella resistenza e venne un giorno in cui allagarono tutto quanto od almeno gran parte del pianeta.

Noi siam più vecchi e più nobili della terra; l’abbiamo ricoperta come con un mantello e sotto la nostra fluida carezza essa ha preso forma.

Ma in mezzo a quali e grosse battaglie! Quel fuoco interno erompeva in furiosi assalti. Veniva alla superficie aprendo nella crosta ancor tenera crepacci in cui l’acqua ingolfavasi. Scoteva il globo con terremoti, lo torturava con sollevamenti d’isole e di continenti.

Cosicché dalla torbida faccia dell’acqua, alla lurida luce del sole, che traversava un denso nuvolato carico d’idrogeno e di carbonio, sorsero qua e là le prime terre. Emersero come acute vette, squallidi pezzi dello scheletro del mondo d’oggidì.

Ed intorno a codesti pezzi di mondo, altri pezzi si disposero. Noi gocciole che il sole continuava a trasmutare in nuvole e che l’algore delle notti precipitava in pioggie, sgretolammo lentamente le montagne, ma trascinammo i pezzi nelle valli; cosicché fummo le artefici principali della formazione delle terre. E tra monte e monte intorno alla vallata mormorammo nel ruscello, muggimmo nel torrente, straripammo nei fiumi, corremmo al mare. Mare? Era proprio un mare? No, non lo era, ma lo divenne quando i ruscelli, i torrenti ed i fiumi trascinarono secoloro alla foce quelle materie minerali tolte alla terra e donandole alla immensa massa d’acqua ve le lasciarono in dissoluzione. Noi, carissima, abbiam recato il sale al mare che se ne servì a sua volta, che lo fece manipolar dalle sue conchiglie, che lo trasfuse nei tessuti delle sue alghe, che se ne valse per i colori dei suoi pesci.

Le acque salate dai fiumi, terminarono l’opera iniziata dalle pioggie. La minore o maggior salsedine d’un tratto di mare determinò una corrente che or rosicchiò una terra or ne ingrandì un’altra. Con la corrente e con il calore del sole nacquero i venti e seguirono una legge immutabile; il mondo si popolò di quegli animali e si rivestì di quelle piante che potevano nascervi e crescere rigogliosamente; il mare si gremì di materie animate.

— Dunque tu conchiudi che i fiumi portano il sale al mare. Ed allora continuando essi a recarvene, verrà un giorno in cui il mare sarà solido.

— No, gocciolina, no. Il mare ha aumentato il suo grado di salsedine e forse lo aumenterà ancora di poco. Ma il correttivo c’è sempre nella vegetazione e nella popolazione del mare.

Nell’Oceania i sali che i fiumi portano al mare e che là sono dai venti spinti e dalle correnti trascinati, vengono maneggiati da un innocente animaletto che appena si vede ad occhio nudo — la madrepora.

La madrepora trasforma quei sali in un masso, come l’ostrica se ne forma un doppio guscio, come la seppia se ne fabbrica una specie d’osso. La madrepora innalza le basi di nuove isole che s’aggruppano in arcipelaghi che diventeranno forse continenti.

Quando gli uomini hanno costruito le piramidi d’Egitto, il Duomo di Milano, l’immensa Londra, l’elegante Parigi, la ricca New York sembra ad essi aver fatto qualche cosa d’immenso. Immagina che cosa hanno fatto o fanno diuturnamente le madrepore! nientemeno che la maggior parte della Polinesia.

Così discorrendo, ora udendo una relazione di scoprimenti, ora parlando di pesci che incontravamo, ora di numerosi animaletti che gremivano il mar di Caraibi, andavamo in su prolungando la costa.

Vidi la bella terra dell’Honduras, la penisola dell’Yucatan, la terra dell’Avana; ma non entrammo nel porto e continuammo il nostro cammino fino al canal di Bahama.

Aveva proprio ragione il mio buon compagno d’avventura. Le acque della corrente del Golfo rovinavano davvero un fiume. Non un fiume torbido e giallo come l’Amazzoni, ma terso e d’un azzurro carico di zaffiro orientale. Noi gocciole balzavamo giulive in quella magna corrente, che aprivasi una strada fra le acque che a noi opponevansi invano.

Ben presto il sole si nascose dietro il velame di una nebbia, che alla corrente si sovrappose.

E di codesta nebbia mi toccò far parte, perché il calore mi fece evaporare.

Seguii la corrente del Golfo come nube fino al Banco di Terranova. Là m’arrestai e vidi il fiume oceanico torcere il proprio cammino verso Levante, e forse con esso rimase il mio amico Pavese.

Or qua, or là, balestrata da venti irregolari a mezzogiorno od a tramontana del Banco, incerta del mio avvenire, nulla di meglio mi rimaneva che dar un’occhiata al mondo che stava sotto di me.

Ed ebbi la ventura d’esser sopra il Banco nel tempo della pesca del merluzzo. Io conoscevo di vista quell’interessantissimo pesce che aveva seguito i ghiacci, allorché lasciai lo stretto di Davis. Ma allora non ne potei giudicare la singolare avidità, come invece mi accadde dipoi.

Navi francesi, inglesi ed americane ancorate sul Banco, stendevano ogni notte lunghe strisce di lenza, cui erano assicurati cinquecento ami congiunti alla lenza principale, mediante fili della lunghezza di venti metri. I pescatori innescavano gli ami con carne di merluzzo pescato il giorno precedente, e tal è l’avidità di codesti pescioni che purché mangino, essi a nulla guardano. Per soddisfare all’appetito prepotente che li divora, essi mangerebbero magari padre e madre. Veramente non mi dispiacque veder gli uomini chiapparne tanti.

Che tremenda uccisione ne facevano. A terra, tanto in Terranuova quanto all’isole di Saint-Pierre e di Miquelon i pescatori prestamente li sbudellavano; il fegato era messo da parte perché da quello si estrae un olio molto in uso; il rimanente delle interiora era buttato in certi barili che poi seppi si vendono ai pescatori di sardine per attirare col fetore tremendo i delicati pesciolini fra le maglie delle reti. Le teste erano adoperate per innesco. I corpi, divisi in due ed appiattiti con una mazzuola, venivano prima ricoperti di sale, poi accatastati l’un sopra l’altro in mucchi somiglianti ai nostri pagliai. La pioggia è ciò che attendono i pescatori per lavare quei mucchi d’una parte di sale e del sangue. Due giorni di sole susseguenti alla pioggia bastano per rendere il merluzzo ben condizionato. Allora s’imballa e si carica sulle navi che fanno ritorno a casa.

Io non caddi come pioggia, né m’impregnai di quel cattivo odore.

Un vento rapido da Ponente mi trascinò verso l’Europa. Potei farmi così anche un’idea precisa della navigazione. Vidi scorrere il mare navi potentissime e gusci di noce, corazzate tarchiate e snelle navi da diporto. E tutte sembrava convergessero in due punti principali, la Manica d’Inghilterra ed il Mediterraneo.

Il buon ponente che mi trascinava, ci spinse verso il Mediterraneo e di là, in balia di brezze e di rifoletti blandi blandi, fui mandata dentro la terra italiana.

Ma pensa, Bice alla mia maraviglia immensa quando al far del sole veggo sotto di me…, Carimate!

— Ma dunque sono a casa, — dicevo — ma dov’è Bice, dov’è? Ero alto alto su per l’aria cilestra, e tentavo trovare un mezzo per discendere.

Durante il giorno non ci fu mezzo alcuno. Ma la sera mi parve di calar giù a poco a poco, sempre sotto forma di vapore. Vagavo sospesa quando mi sentii come fermata da due foglioline dolcissime al tatto, e da cui un eccellente profumo sprigionavasi.

Dalle foglioline un murmure uscì che diceva:

«Bella lacrimina che vaghi per l’aere, vieni da me che sono una rosa. Io ti terrò prigioniera fra i miei petali, tu darai a me la freschezza, io ti ricambierò in olezzo gratissimo. Tu mi racconterai i tuoi casi, io ti serberò finché mi sarà concesso.»

Rimasi fra i petali fragranti. Passai la notte tranquilla, finché il mattino mi condensò in globulo fra le rosee foglioline che m’avevano servito d’asilo.

Il resto tu lo sai. Per il giardiniere son qui. Jack m’ha sciolto lo scilinguagnolo e per mezzo suo t’ho narrato le mie peregrinazioni.

Fine.


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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: I viaggi d’una lacrima di Bice… raccontati da lei stessa.
AUTORE: Jack La Bolina (Augusto Vittorio Vecchi)
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
https://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

TRATTO DA: Giornale per i bambini / diretto da Ferdinando Martini ; [poi] da C. Collodi. – Roma : [Tipografia del Senato], 1881-1883.
SOGGETTO: JUV038000 FICTION PER RAGAZZI / Brevi Racconti