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Nel 1917, mentre a causa dei problemi con la censura sono ancora in corso le travagliate vicende editoriali de Il suddito, primo romanzo della trilogia Romane der deutschen Gesellschaft im Zeitalter Wilhelms II (Romanzi della società tedesca nell’età di Guglielmo II), Heinrich Mann pubblica il secondo, I poveri, cui seguirà, nel 1925, la terza parte, La testa. Dalle vicende narrate ne Il suddito sono trascorsi alcuni anni (siamo alle soglie della I Guerra Mondiale, che irromperà sulla scena alla fine del romanzo), e il centro delle azioni si sposta dalla cittadina di Netzig, frutto della fantasia di Mann, alla vicina Gausenfeld, “la città della carta”, sede della cartiera di Diederich Hetzling, della sua villa e del quartiere dormitorio dei suoi operai.
Le dinamiche che si sviluppano nel corso del romanzo sono efficacemente rappresentate da due cronotopi contrapposti: da un lato le case popolari costruite dall’imprenditore Hetzling per ospitare i suoi operai, dall’altro Villalta. Le prime, dagli interni bui, angusti e maleodoranti, sono lo scenario della vita di promiscuità, miseria, litigiosità e violenza cui sono costretti i lavoratori, per i quali Villalta, “il paradiso proibito”, la lussuosa villa dove vivono ed accolgono i loro ospiti Hetzling e la sua famiglia, rappresenta l’irraggiungibile miraggio di una felicità cui nonostante le sconfitte continuano ad aspirare, come testimoniano le parole del protagonista, l’operaio Carlo Balloch:
«Tutte le faccie avevano una tragica serietà di destino. In un silenzio grande Carlo Balrich disse forte:
— Durerà ancora un poco, poi verrà la giustizia.
— Sarà così – approvarono dalle tavole e si levò un sussurrio. Era la fede che parlava sottovoce.
— Siamo sulla strada della giustizia e se anche tu vedessi che ogni giorno la strada si fa più lunga, non importa; le ore dei ricchi sono contate, e con quello che oggi essi ci costano saremo ricchi tutti. Tutti abiteremo in sale spaziose arieggiate e avremo un buon mangiare e le macchine che ci appartengono lavoreranno per noi.»
Le auto di lusso, sulle quali i signori sfrecciano rasentando al loro passaggio ed infangando gli operai appiedati, simboleggiano non solo l’ostentazione della ricchezza ma anche il disprezzo dei borghesi nei confronti dei lavoratori, che generando odio di classe si ritorce contro di loro.
«Quando egli tornava dalla città, già vicino a casa sua, lo raggiungeva e sorpassava, per quanto egli s’affrettasse, l’automobile di Hetzling e lo copriva o di fango o di polvere. Il consigliere segreto dottor Hetzling guardava, ravvolto nel suo spolverino, sempre dritto davanti a sè e Klinkorum, schiacciato contro la sua staccionata, lo fissava con uno sguardo d’odio impotente fin quando non scompariva in una nuvola putreolente.»
Diederich Hetzling, del quale Mann ne Il suddito aveva narrato l’infanzia e l’irresistibile ascesa, chiamandolo prevalentemente “Diederich”, qui diventa “il direttore generale Hetzling”, arrogante imprenditore di mezza età il cui aspetto grottesco viene ancor più accentuato:
«Hetzling, proprietario di Gausenfeld, di una enorme ricchezza e di molte decorazioni e cariche… Hetzling più grasso, più duro di lineamenti, con i peli radi, soffiava guardando fisso davanti a sè, sopra le borse cascanti degli occhi… con il suo ventre enorme, la sua faccia bionda e dura.»
Non diversa, l’immagine deformata della moglie Gusta
«Dritta in un catafalco di pizzi, nastri, perle, pietre stava seduta rigida perchè il busto le univa in un solo monumento superbo pancia e seno. Il naso però era una patata come quello di Herbersdorf.»
Anche Buch, divenuto cognato di Hetzling, e da lui mantenuto assieme alla sua famiglia, è qui “l’avvocato Buch”, il cui aspetto fisico rispecchia la rassegnazione ad una condizione umiliante
«un signore di mezza età, grasso, con la faccia floscia rasata, con un cappello floscio, il passo un po’ vacillante.»
L’imprenditore Hetzling in questo secondo romanzo passa però in secondo piano, assumendo per il giovane protagonista, l’operaio Carlo Balloch, il ruolo di antagonista, emblema dello sfruttamento e dell’oppressione:
«L’odio. Con quello t’addormenti e con quello t’alzi. Alle sei del mattino t’alzi e con il bavero della giacca sollevato vai, vai con altre centinaia verso la fabbrica tacendo e odiando. Odio dietro, odio dentro, odio avanti. Tutti curvati, sotto la stessa ingiustizia, tutti attorniati dalla pressione dell’odio come dal fumo delle macchine.»
Gli operai, che aspirano ad un riscatto dalla loro condizione, non si sentono tutelati neppure dal partito socialista: lo dimostra l’opinione che hanno del loro rappresentante in parlamento, quel Napoleone Fischer che nel romanzo precedente, scendendo a compromessi con Hetzling, da operaio della cartiera era divenuto deputato.
«E adesso i compagni parlarono del partito. Il partito non era puro – era inquinato da elementi che pensavano più a loro stessi che non alla classe operaia. Jauner accennò a Napoleone Fischer, il deputato del paese, che aveva certo fatto affari, ma più buoni per sè che per il proletariato. Egli era in ottimi rapporti con Hetzling, in ottimi rapporti con il governo, votava sempre le spese militari e, ogni tanto, otteneva una assicurazione per la disoccupazione, una casa operaia.E dire che quello aveva lavorato con le sue mani da Hetzling! Che c’era da sperar dagli altri che avevano le mani bianche…»
In questo secondo romanzo, vicende e personaggi sono presentati dal punto di vista degli operai, ed in particolare da quello di Carlo Balloch: questi si sente depositario della missione di riscattare se stesso ed i suoi compagni dalla miseria e dallo sfruttamento, in una simbolica presa di possesso di villa Villalta. L’avvocato Buck, che vede in lui uno strumento per sfuggire alla condizione di dipendenza cui è soggetto nella villa, lo convince che solo studiando potrà acquisire la capacità di far valere i suoi diritti e quelli dei compagni, e lo affida a Klinkorum, vecchio maestro in pensione incaricato di insegnargli il latino e di prepararlo ad affrontare gli studi universitari per diventare avvocato. La vita di Balloch da questo momento si sdoppia ed egli di giorno è l’operaio che si sfinisce alle macchine, di notte il diligente studente che sottrae al sonno le ore necessarie per recuperare il tempo perduto.
Nella vicenda assume un ruolo cruciale il ritrovamento di una lettera, scritta da Hetzling, prova del fatto che egli aveva costruito la propria ricchezza su di un gruzzolo affidatogli da un suo commilitone, zio di Balloch, di cui si era impadronito. La lettera, custodita gelosamente da Balloch e cercata affannosamente da Hetzling, diventa il simbolo delle legittime aspirazioni degli operai a quella vita sicura ed agiata che vedono incarnata in Villalta e Balloch si trasforma per Hetzling nel nemico da sconfiggere con tutti i mezzi. Gli studi di Balloch da un lato fanno sì che gli operai lo avvertano sempre più distante da loro, ma dall’altro gli conferiscono quell’autorevolezza che lo fa riconoscere da essi come guida.
Lo svilupparsi della vicenda vede una progressiva accentuazione del conflitto di classe, fino a che la situazione diventa esplosiva, e pare avvicinarsi l’evento profetizzato dal vecchio maestro Klinkorum…
«Verrà tempo, miei signori, nel quale anche Villalta, anche la sua villa sarà scossa dall’urto della folla, appestata dal puzzo della folla, minacciata a scrollata dalla vendetta della folla e rasa al suolo. Questo io glielo assicuro.»
Come Il suddito, anche I poveri, nell’edizione italiana del 1919, viene pubblicato con una traduzione anonima ma, a parere della germanista e traduttrice Lavinia Mazzucchetti (Lavinia Mazzucchetti, Il romanziere della rivoluzione tedesca e suo fratello, in Ead., Novecento in Germania, Mondadori, Milano 1959, pp. 64-69), essa sarebbe da attribuire allo scrittore Mario Mariani, così come quella del primo volume della trilogia, di cui egli aveva scritto l’introduzione.
Sinossi a cura di Mariella Laurenti
Dall’incipit del libro:
I bambini gridavano correndo davanti alla grande casa operaia di Gausenfeld dove erano nati tutti; centinaia scappavan fuori dalla casa zeppa, saltellavano e si picchiavano sul prato verde. Gli uomini quando non lavoravano rimanevano, se c’era il sole, poggiati al muro della casa a guardare i bimbi. I più piccoli cadevano incessantemente nel fosso che divideva il prato dalla strada di campagna e madri e sorelle correvano in aiuto. I più grandicelli lo saltavano specialmente dalla parte dove esso, seguendo la strada, andava verso il cimitero; e dall’altra banda si spingevano l’un l’altro contro la tentennante staccionata della villa Klinkorum. Se si spezzava la staccionata correvan dentro in fretta a rubare le mele.
Il proprietario sentiva con terrore e con rabbia lo scricchiolìo dei rami che essi schiantavano; ma con le sue gambe irrigidite, arrivava sempre troppo tardi e i monelli eran già lontani e di lontano gli mostravano ridendo i frutti acerbi, come se li avesser colti sulla strada. Allora egli teneva loro un discorso sulla proprietà e sull’educazione; sempre lo stesso discorso perchè non s’accorgeva mai d’aver a che vedere sempre con gli stessi ragazzi.
Klinkorum era stato maestro, ma soltanto pei ricchi e, siccome gli eran già caduti i denti, s’era costruito una tana. Non appena Klinkorum s’era allontanato, i ragazzi correvan di nuovo oltre la staccionata. Il vecchio imbianchino che subaffittava una stanza al primo piano li guardava ammiccando. Solo le femminucce avevan dalle madri la proibizione di entrare nel giardino di Klinkorum.
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