L’ultimo esponente della Democrazia Cristiana, Gianfranco Rotondi, si aggrappa al passato e sogna di ritornare all’ombra di Giorgia Meloni. Ma è davvero il futuro che l’Italia merita? Vediamo quanto pare emergere dalle sue recenti dichiarazioni.
Nel panorama politico italiano, c’è una figura che sembra muoversi ai margini, un uomo in bilico tra passato e presente, con lo sguardo rivolto a un futuro che continua a sfuggirgli dalle mani. Gianfranco Rotondi, il politico e giornalista italiano, sembra essere sempre più vittima di una teleutofobia strisciante—la paura ossessiva della fine—che lo ha relegato a capo di un partituncolo moribondo, in lotta per la sopravvivenza nelle periferie più remote della Campania. La teleutofobia, dal greco “teleuto” (fine) e “phobos” (paura), è l’angoscia che attanaglia Rotondi, incapace di accettare il declino della gloriosa Democrazia Cristiana, e lo costringe a vivere in un perenne stato di convulsione politica, come un pesciolino rosso in un acquario senza ossigeno e cibo.
“Una nuova Dc? Forse.” Questa è l’ultima carta di Rotondi, un tentativo disperato di risvegliare l’anima democristiana sotto la benedizione di Giorgia Meloni. Ma la realtà è più cruda: mentre sogna una leadership giovane e al femminile per rilanciare l’idea di una Dc unita, Rotondi sa bene di camminare sul filo del rasoio. Un tavolo giuridico con Cesa e Cuffaro si profila all’orizzonte per decidere chi davvero può rivendicare il simbolo della Democrazia Cristiana, una battaglia di logoramento che sembra destinata a trascinarsi nei tribunali e nelle riunioni politiche di provincia. “Razionalizzare l’esistente”, come dice Rotondi, appare ormai un miraggio mentre i vecchi alleati si scontrano per un brand politico che sembra ormai solo un’eco del passato.
Nel frattempo, il panorama di Avellino si trasforma in una trincea politica. Rotondi ha giocato le sue carte nel campo largo irpino, sostenendo il patto civico e facendo appello a una strategia di destrutturazione del Pd, ma la sua manovra non ha portato ai frutti sperati. Con un’ironia degna della migliore commedia politica, Rotondi riconosce che Avellino è l’unico capoluogo della Campania dove il campo largo è all’opposizione, ma sa anche che questo è solo un fiore all’occhiello di una sconfitta più grande: il centrodestra irpino, come riconosce lui stesso, è un’entità fantasma, condannata all’irrilevanza da una combinazione di alleanze fallite e strategie mal calibrate.
E mentre Rotondi continua a osservare, con occhio vigile e un filo di sarcasmo, la possibilità che l’Ulivo possa tornare a guidare la sinistra italiana, sa bene che il centrodestra rischia ancora una volta di trovarsi a mani vuote. La suggestione di Castagnetti e l’idea di un Pd che potrebbe recuperare la sua anima popolare fanno suonare un campanello d’allarme nella mente di Rotondi, sempre più consapevole che il suo ruolo di cantore della Dc potrebbe essere sull’orlo del tramonto.
Rotondi è ormai come una figura tragica, che tenta disperatamente di mantenere rilevante una narrazione che non risuona più con l’elettorato italiano. Mentre Meloni consolida la sua leadership e il panorama politico si evolve, la visione di Rotondi appare sempre più come un’anacronistica rappresentazione di un mondo che non c’è più. E forse, in fondo, lo sa anche lui.