Si tratta della ristampa di un romanzo uscito per Frassinelli nel 1994, quando ancora l’autore non vantava la notorietà di questi ultimi anni, ma già scriveva opere destinate a durare, come questa di cui ci occuperemo, che può dirsi il preludio a quello straordinario romanzo che è “Parenti lontani“, uscito nel 2000 e vincitore nel 2008 del premio John Fante, a cui “Volare basso” si lega per la rappresentazione di una terra, quella lucana, e di un popolo ricchi di fascino, di tradizioni e di storia: “un posto fuori da ogni giro e da ogni sogno”; “Imbocco la stradina che porta in piazza. Ci sono gruppetti di vecchiacci in cappotti a quadri, corti, stretti, lisi, gli stessi che vent’anni prima hanno protetto i loro figli emigrati dal freddo e dalla solitudine nelle strade di grandi metropoli del Nord.”
Viaggiamo nella memoria. I protagonisti sono diversi, ma si somigliano come gocce d’acqua, dal primo, Eugenio Granieri, a Silvio Costa, a Bruno La Padula, fino a sfumare nel finale in un solo personaggio dal malinconico contrassegno di morte e di delusione. Pure le donne, tutte con la mania del sesso e del tradimento, si somigliano. Le vite si intrecciano continuamente. In comune hanno una vita insoddisfatta, talvolta grama, senza fortuna. Eugenio Granieri può rappresentarli e assorbirli tutti, ne è allo stesso tempo lo specchio moltiplicatore e il grandangolare: lui, rimasto a vivere nei suoi luoghi, è spento e deluso come saranno tutti gli altri: “mi sento come uno di quei poveri nei romanzi di Dickens. Dieci anni fa non avrei mai pensato di ridurmi in questo stato.”; “ho già perso tutto quello che c’era da perdere, pagato tutto quello che c’era da pagare.” I suoi compagni sono partiti per trovare fortuna altrove. Non è facile dimenticarli, anche se in qualche caso non si sa neppure in quale parte del mondo siano finiti. Hanno vissuto insieme, però, una parte importante della loro vita, quella della giovinezza, dell’entusiasmo, della irresponsabilità, dell’avventura.
Cappelli dà il meglio di sé ogni qualvolta si getta a capofitto a parlare dell’età giovanile, bravo a descriverla qual era ai suoi tempi, ma bravo anche ad estrarne quel particolare spirito che unisce i giovani di ogni epoca: “ma quante sono le cose della nostra giovinezza che non ci sembrano ridicole?”. Cappelli è giovane dentro, lo sarà sempre. Il mondo che rappresenta, come succederà più tardi in “Parenti lontani”, contiene tutto il passato, tutto il presente e tutto il futuro possibili. Nella disinvoltura dei giochi, delle illusioni, delle scelleratezze degli uomini della cui vita ci racconta, è racchiusa l’energia primordiale di una umanità che trova nella gioia e nella indeterminatezza del vivere la misura sconfinata della sua immortalità. I giovani di Cappelli sono l’effigie di ciò che di vitale si perpetua nel mondo, nonché la risposta ai molti perché esso, pur con tutte le idiosincrasie, gli eccessi e le avversità che lo attraversano, non riesce mai a spegnersi, ma solo ad illuminarsi.
In questo modo, passato, presente e futuro viaggiano congiunti e la storia forma una specie di monolite dentro il quale il superamento della fisicità del tempo e dello spazio avvia un flusso (“Abbandonarsi alla corrente”) che non racconta più la storia di un uomo ma di tutti gli uomini.
Nardozza Nichi, il personaggio che appare accanto a Eugenio, una specie di Verdone di “Un sacco bello“, spassosissimo film di costume del 1980, è l’espressione di una vitalità animalesca che l’uomo si porta dentro dalla notte dei tempi.
Sesso sfrenato, ragazze e spose disinibite, provocanti giarrettiere, spinello, spregiudicatezza, disordine materiale, confusione di idee sul proprio avvenire, urgenza di vivere giorno per giorno, sono il rumore di fondo di una gioventù che trova nella propria sregolatezza il solo modo di rispondere alla vita. I movimenti di emancipazione conseguenti al ’68, seppure hanno lasciato il segno del mutamento, scivolano ora sulla pelle dei protagonisti, assorbiti piuttosto dall’ansia di gettarsi a capofitto nello sfogo quotidiano dei propri sensi e della propria esuberante vitalità.
La struttura esalta l’intreccio delle vite dei personaggi, osservati da angolazioni plurime nel momento in cui ciascuno si chiede che fine abbia fatto l’altro, come se il lettore si trovasse di volta in volta invitato in salotti gestiti da ospiti diversi, in ognuno dei quali ascoltasse parlare degli altri personaggi conosciuti.
Si chiamino Eugenio, oppure Silvio, o Bruno, i narratori che si alternano alla ribalta sono tutti riconducibili ad uno solo, il cui sguardo sulla vita reca l’amaro segno della provvisorietà e della ironia. Il riflesso che si stampa sui prescelti al rito dissezionatorio è cangiante, mai lo stesso, ha striature che presuppongono un punto di partenza mobile, preparato e predisposto a cogliere i movimenti impressi da una realtà mai uguale a se stessa. Come avviene, in modo speciale, con le donne: da Angela, a Elisa, a Assunta, Rossana, Linda, Marta, Carla, Fiamma, e così via, tutte assatanate, quasi eguali, ma espressione, allo stesso modo dei narratori, di insoddisfazioni, di incertezze, di smarrimenti, di solitudini, di fallimenti, tutti dalle sfumature diverse.
È l’operazione più interessante del romanzo, sorretta, in più, da una scrittura giovanile e pungente.
Si resta ammirati di questa scrittura che riesce a trasformare ogni situazione in un’avventura. Si pensi al capitolo, tra i migliori, in cui Silvio fa la sua prima esperienza di volo con la sua istruttrice Veronica, ovviamente “una gran femmina.“: “Abbiamo solo il cielo davanti, ora. Ed è così azzurro. Ci sono delle lame bianche, sottili, e noi che ci passiamo in mezzo e io, a questo punto, ho le labbra poggiate sul suo orecchio. Intanto il trabiccolo si alza, si alza sempre di più. Vedo le lunghe dita di Veronica che girano la chiave e il motore smette di crepitare e all’improvviso c’è tutto-questo-silenzio-intorno.”
Il romanzo è anche, condita di raffinata ironia, una sarabanda del sesso. Eugenio, Silvio e Bruno, come in un ruotante spettro di colori, diventano un solo colore: sono la stessa persona, o meglio: un Eugenio diviso in tre parti eguali a se stesse. Pur traditi dalle mogli, non falliscono mai una conquista; le donne, attratte da essi come da una calamita, perdono la loro anima per divenire unicamente oggetto del piacere maschile, oltre che del proprio. Il lungo elenco di esse è quasi una dichiarazione di malinconica e acidula compassione (“Mi fa scivolare di nuovo la mano dietro la nuca e mi bacia. Questa volta dura molto di più. Troppo. Ha un alito terribile. Un concentrato di cipolla, aglio, alici, birra, e fumo.”), finché ad un certo punto l’autore ci dà la ragione di questa attrazione incontenibile: “Incontrare donne di nascosto è un modo come un altro per avvicinarsi alla natura e a te stesso, la parte più intima dico.”
Ecco: il nascosto, ma anche il fatuo, il superficiale, affidati alla manifestazione del sesso, sembrano la rotta della vita degli uomini (uomini e donne), annoiati ed anche nauseati da tutto ciò che è facile ed ordinario. Un mondo nella cui esaltazione sta però annidato il “volare basso” del titolo, ossia la sconfitta.
Essa è rappresentata dal trascorrere del tempo, il quale, anche a nostra insaputa, ci trasforma e ci rende diversi, non più intraprendenti e entusiasti come prima (“il tempo lascia i suoi segni anche su chi sembrava non appartenergli”), bensì contaminati da un lento impercettibile disfacimento che non è solo esteriore, ma si insinua nell’anima: “Pensi a te stesso, alla parte più intima di te stesso, e ti sembra che sei sempre lo stesso, di quando eri bambino, ma non è così.”; “cerco di arrampicarmi dal baratro in cui sono sprofondato, ma è come se raschiassi con le unghie una superficie di marmo – il marmo di una tomba.”