Fulgenzio.
di
Cordelia
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L’antefatto si può leggere nel breve racconto “I figli di Eraldo”(N.d.R)
Appena partito il padre, Fulgenzio andò a dare un‘occhiata al suo possedimento, fece colla mente il calcolo del danaro che avrebbe potuto ricavare dai prodotti delle sue terre, e crollò il capo pensando a tutto il tempo ed al lavoro che occorrevano prima di arrivare alla ricchezza a cui aspirava. Fin da bambino aveva sognato tesori sepolti fra le viscere della terra, grotte piene di pietre preziose, mucchi d‘oro e d‘argento. Egli considerava quale massima tra le felicità il possedere tante ricchezze da potersi un giorno permettere qualunque godimento. Era un giovane pratico e positivo, e capiva benissimo che vagando per i campi, e seguendo le immagini della fantasia, non avrebbe aumentato di un soldo il suo patrimonio, sicché pensò di mettersi subito al lavoro e di trarre il maggior profitto possibile da ciò che possedeva.
Dietro la casa c‘era un bellissimo bosco, formato da una collina coperta d‘alberi secolari che davano un‘ombra deliziosa, e aspetto selvaggio e pittoresco a quell‘angolo tranquillo. Il suo primo pensiero fu di far tagliare quel bosco e vendere la legna: chiamò una schiera di contadini e ordinò che incominciassero tosto l‘opera di distruzione. Egli stava tutto il giorno a sorvegliarli, affinchè non perdessero il tempo, e li spingeva al lavoro, rimproverandoli e minacciandoli e non lasciando loro un minuto di riposo. Diceva che l‘uomo era stato condannato a lavorare, e ne dava l‘esempio aiutando ad abbattere gli alberi, a spezzare i rami, a squarciare i tronchi. Era un vero strazio veder cadere quei giganti della foresta che gemevano sotto l‘accetta del boscaiuolo; gli uccelli, disturbati nei loro nidi, fuggivano, mandando grida che scendevano al cuore. Qualche volta i contadini, impietositi da tanti lamenti, sospendevano il lavoro; ma Fulgenzio con un‘occhiata feroce diceva loro: “A che vi fermate? Avanti, avanti! il tempo stringe, la vita é breve, bisogna lavorare.”
Giù cadevano le piante al suolo senza interruzione, la montagna si spogliava e, prendeva un aspetto desolante.
In terra quei giganti abbattuti davano l’impressione d’un campo di battaglia. Nuvoli d’uccelli spauriti volavano nell‘aria mandando grida disperate, e andavano altrove, a cercare foreste più ospitali. Intanto la legna veniva caricata sopra carri che Fulgenzio conduceva al mercato, dove procurava di ricavarne il maggior prezzo possibile. Un altro si sarebbe commosso all‘idea di vendere quegli alberi, suoi amici d‘infanzia, sotto alla cui ombra si era spesso riposato, ma egli ad altro non pensava che ad accumulare ricchezze; diceva che per essere stimato ci volevano danari,che l‘oro è il padrone del mondo, e così continuava a tagliare il bosco, a mandare legna al mercato e a ricavarne danaro.
Quando la foresta fu tutta devastata, e ch‘egli ebbe molti quattrini, pensò al modo di moltiplicarli,e volle tentare il commercio. Nella città vicina si fabbricavano stoffe: ne comperò in gran quantità, s‘imbarcò su un bastimento con tutta la sua mercanzia e pensò di portarla in paesi lontani, e trarne un buon profitto.
Il tempo era bellissimo, il mare tranquillo, e tutto prometteva un buon viaggio. Ma quando fu lontano dalla riva, si levò un vento forte, apparvero in cielo neri nuvoloni, e le onde cominciarono a sollevarsi tanto, che comprese di non poter evitare la burrasca. Già il bastimento era lanciato di qua e di là sull‘onde tempestose; il capitano e i marinai facevano sforzi inauditi per poterlo dirigere: tutto invano. I passeggieri piangevano, gridavano, chiedevano aiuto, e si tenevano perduti. Ad un certo punto il capitano decise di buttare in mare tutte le mercanzie che erano ammucchiate sul bastimento. Fulgenzio a quella notizia si sentì morire, gli si gettò ai piedi dicendo.
— Vi supplico, mio capitano, non gettate in mare le mie merci, sono la mia unica speranza; trovate un altro modo per salvarci, quello non servirebbe a nulla.
Il capitano rispose:
— Le vostre preghiere non mi commuovono: più della roba mi è cara la vita dei passeggieri; se in cinque minuti la burrasca non cessa, tutte le merci saranno buttate in mare.
E i minuti passavano, e la furia dell‘onde non si placava, quando a Fulgenzio balenò un‘idea che espose subito al capitano:
— So un mezzo per calmare la tempesta, – gli disse, – ve lo insegnerò se promettete di risparmiare la roba mia.
— Calmate le onde, – rispose il capitano, e avrete salva la roba.
— Ebbene, – disse Fulgenzio, – versate in mare le botti d‘olio che ho veduto raccolte nella stura.
— Siete pazzo, – disse il capitano – a che servirebbe?
— Provate.
— Tenterò, ma se non si riesce guai a voi! – e il capitano diede l‘ordine di versare tutto l‘olio raccolto nelle botti, sulle onde furiose.
Appena eseguito quel comando, il mare parve calmarsi come per incanto, e il bastimento scivolò tranquillo sul mare, mentre intorno tutti gli elementi erano ancora sossopra, e la striscia d‘olio lo seguì per un lungo tratto, finchè il mare ebbe tempo di calmarsi. I compagni di Fulgenzio sorpresi gridarono al miracolo, e da quel momento lo considerarono come un mago. Egli non sapeva come gli fosse venuta quell‘ispirazione, ma intanto il suo scopo era raggiunto, e il capitano non solo gli fece molti elogi per il suo saggio consiglio, ma gli diede doni preziosi.
Erano salvi dalla tempesta, però si trovavano in un luogo sconosciuto: il capitano vedeva in distanza un‘isola disegnarsi sull‘onde; sapendo che in quei paraggi dovevano abitare i Caraibi, popoli crudeli e antropofagi, non si sarebbe avvicinato a terra se il bastimento non avesse avuto bisogno di rifornirsi di viveri e di riparare ai guasti sofferti. Gli fu forza approdare.
Scesi a terra, trovarono una specie d‘isola incantata, con piante meravigliose e fiori giganteschi: una vegetazione tropicale che spargeva nell‘aria inebbrianti profumi.
Fulgenzio non rimase come i compagni estatico davanti alle bellezze della natura, ma rivolse il passo verso alcuni pescatori i quali giravano carichi di bellissime conchiglie, e le ammucchiavano sulla spiaggia, dove un‘altra schiera di uomini stava intenta ad aprirle, e a farne uscire perle di una grossezza maravigliosa, che accumulavano come fossero sassolini. Fulgenzio si avvicinò a quella gente, prese in mano alcune perle,e fece capire coi gesti che avrebbe volontieri cambiate quelle perle con delle stoffe che aveva con sè: quegli uomini erano quasi nudi, solo coperti di foglie di palma, e dovevano certo aver bisogno di drappi per vestirsi e far tende con cui ripararsi dai raggi del sole. Egli sciorinò le stoffe ai loro occhi: e quei pescatori alla vista di quei drappi variopinti si misero a battere le mani dalla gioia, e ben volentieri li cambiarono colle perle, che riguardavano cosa di poco valore, come i sassolini della spiaggia.
Fulgenzio si riempì di perle le tasche, la cintura, una borsa che aveva con sè, e avrebbe voluto avere dei sacchi per farne un ricco bottino.
Anche il capitano e gli altri passeggieri si erano avvicinati per raccoglierne, quando scorsero in distanza degli uomini armati che venivano verso la spiaggia. I pescatori si fecero dei segni, e in fretta staccarono le imbarcazioni che avevano nascoste in un piccolo seno, e via fuggirono remando sull‘onde.
Il capitano, e i passeggieri pensarono che dovevano essere i Caraibi, e in fretta salirono alla loro volta, sulle loro imbarcazioni per raggiungere il bastimento, dimenticando Fulgenzio che per l‘avidità di raccogliere perle era rimasto sulla spiaggia, senza avvedersi di quello che succedeva intorno a lui.
S‘accorse del suo errore, quando fu circondato da una schiera d‘uomini dall‘aspetto così feroce da far tremare il più coraggioso, e rimase impietrito dalla paura vedendosi in mezzo a quelle faccie poco rassicuranti; pregò che lo lasciassero seguire i compagni,ma quei selvaggi lo costrinsero a seguirli, e lo trascinarono nell‘interno dell‘isola.
Egli vedendo innanzi a sè un bosco intricato, pensò alla difficoltà di uscirne anche se avesse potuto sfuggire alla vigilanza di quella gente; si rammentò una favola che gli aveva raccontata la nutrice, d‘un bimbo che trovò la strada in un bosco, spargendo in terra dei sassolini bianchi, e ciò gli fece pensare alle perle che aveva con sè. Quantunque si sentisse uno strappo al cuore all‘idea di perdere quelle ricchezze,pure ne lasciò cadere una ogni cinque passi, e così continuò fino a che venne condotto in una vasta spianata in mezzo al bosco, dove alcuni uomini facevano cuocere ad una grande fiamma della cane umana.
Fulgenzio si sentì gelare il sangue a quella vista, e capì di essere proprio caduto in mano a quella tribù di antropofagi di cui aveva udito parlare, e dagli sguardi di coloro capì che lo consideravano come un buon arrosto degno di figurare ai loro banchetti. Pareva che essi dicessero, nel loro linguaggio:
“ È abbastanza grasso,è giovane, è bianco, sarà certo un buon boccone.”
Egli si sentiva venire i brividi, pensando alla sorte che forse l‘aspettava. Intanto quei selvaggi si misero a mangiare, e pareva che gustassero molto il loro pasto, ed erano tanto di buon umore che ne offersero anche a Fulgenzio, il quale rifiutò, e stette tranquillo nel suo angolo tutto tremante dalla paura.
Diede un sospirone di sollievo, quando vide che s‘accingevano a dormire: finse di sdraiarsi, mostrandosi stanco,ma stette ad osservare ciò che accadeva intorno a lui.
Vi fu un momento in cui credette giunta la sua ultima ora, quando vide due selvaggi avvicinarglisi; egli non si mosse, lo credettero addormentato, lo lasciarono in pace, e si sdraiarono in terra per dormire, certi che non sarebbe fuggito, perchè il sole volgeva al tramonto e il bosco era troppo intricato. Però quando Fulgenzio fu ben sicuro che tutti dormivano, sgusciò carponi sotto i rami delle piante,e cercò di distinguere le perle che aveva sparse sul suo cammino.
Per fortuna la notte era chiara; egli aveva buona vista, e potè vedere i punti bianchi che risaltavano sulla terra scura. Trovata una perla la metteva in tasca, e cercava l‘altra, così continuò fino a che si trovò sulla spiaggia,quando cominciava ad albeggiare. Vide in distanza il bastimento, fece dei segnali coi rami degli alberi, perchè mandassero un‘imbarcazione a prenderlo; il capitano era infatti rimasto colla speranza di veder tornare Fulgenzio, ma, passata la notte, per allontanarsi dai Caraibi si preparava a partire. Fulgenzio se ne accorse, e n’ebbe un tale spavento che quasi perdette la ragione, tanto più che vide un fuoco muoversi in lontananza,e s’accorse che i suoi nemici erano in moto per rintracciarlo. Volse intorno uno sguardo disperato, vide un pezzo di legno che poteva galleggiare, lo raccolse, lo spinse in mare, e vi si emise a cavalcioni. Prese due foglie di palma secche per servirsene come remi, e via sul mare gridando, e facendo segni, e dirigendosi verso il bastimento che aveva già, tutte le vele spiegate. e si allontanava sempre più dalla riva.
Egli lo seguì colla forza della disperazione. Era in un‘ansia terribile; sulla riva i cannibali, vedendo sfuggirsi la preda, mandavano alte grida; il bastimento si allontanava, e le foglie che gli servivano di remi quasi non resistevano più all‘urto delle onde. No, non era possibile, che dopo essere sfuggito dalle mani dei nemici dovesse morire in mare, e giurava che se riusciva a salvarsi, non si sarebbe più esposto ai pericoli di lunghi viaggi. Già dalla paura di quella notte gli si erano imbiancati i capelli, tanto che quelli che stavano sul bastimento coi cannocchiali rivolti vero di lui, non lo riconoscevano più, e non sapevano se fermarsi o proseguire. Un momento che Fulgenzio vide il bastimento che accennava a fermarsi gridò con tutto il fiato:
— Fermatevi, aiuto! aiuto! sono Fulgenzio.
Il capitano era troppo lontano per sentire le parole, ma vedendo che si trattava d‘un uomo solo e in pericolo, mosso a compassione dalle grida disperate si avvicinò a lui, e gli gettò una corda perché vi si potesse aggrappare: era tempo; appena Fulgenzio riuscì a toccare il bastimento cadde svenuto.
Tutti gli furono intorno a soccorrerlo ed egli quando si riebbe pregò il capitano di condurlo presto a terra, in una città civile; era ancora tutto sgomento, pensando a quella notte d‘orrore che non avrebbe dimenticata più mai, e anelava l‘istante di essere al sicuro.
La sua sola consolazione era d‘aver salvato tutte le perle raccolte, e pensava di venderle, e impiegare il denaro in qualche industria che gli permettesse di rimanere nel suo paese, perché di viaggi ne aveva ormai abbastanza.
Giunto a casa fu molto imbarazzato per nascondere e mettere al sicuro il suo tesoro; prima riunì le perle in un sacco che collocò in un armadio che aveva una serratura segreta; ma la notte, sia che lo spavento passato nell’isola dei Caraibi gli avesse scompigliato i nervi, sia che l‘idea del tesoro nascosto lo preoccupasse eccessivamente, si sognava di ladri che venissero a rubarglielo, si svegliava di soprassalto, caricava un fucile, e correva per la casa e per il giardino, mandando forti grida, e combattendo con una schiera di fantasmi, che credeva persone in carne ed ossa. I suoi affari continuavano a prosperare, ma egli non era mai contento e un giorno pensò di trar profitto da un torrente che scendeva dal monte per mettere in moto un mulino; dopo aver venduto il bosco, s‘accorse che la collina era formata di marmi preziosi, e pensò di abbattere anche la collina per vendere i marmi.
Chiamò subito una schiera di operai, e là dove un tempo si ergeva l‘erta collina coperta da magnifici boschi, si vide dar fuoco alle mine, squarciare il monte, estrarre massi giganteschi di macigno, che, tagliati e lavorati, venivano posti in grandi barche sul lago che stava ai piedi del monte e spediti per il mondo.
Mano mano che i suoi possedimenti erano invasi dall’industria, diventavano brulli e sassosi, ma Fulgenzio non se ne curava; gli bastava che i suoi affari prosperassero.
Soltanto la notte non poteva dormire, turbato da una strana inquietudine ad ogni più piccolo rumore; soffriva di non avere presso di sè una persona alla quale confidare le sue pene, sembrandogli che il suono di una voce amica gli avrebbe calmato lo spirito. Decise di prendere moglie per avere una compagna; soltanto la scelta era difficile: gli pareva di non essere abbastanza ricco per permettersi il lusso di una famiglia, e decise di cercare una donna ricca.
Presso alla collina che stava sfasciandosi sotto lo scoppio delle mine e il piccone dei minatori, la sua vista si posava spesso sopra una vasta estensione di campi verdeggianti ed ubertosi: chiese ad un operaio a chi appartenessero quei campi dove le spiche s‘inchinavano sotto il peso del grano, le pannocchie alzavano rigogliose al cielo il capo biondeggiante, e i grappoli d‘uva sembravano quelli della Terra promessa.
L‘operaio rispose:
— Appartengono ad una signora che chiamano la strega, perchè è brutta da far scappare la gente.
Fulgenzio pensava essere impossibile che una signora così brutta possedesse campi così belli e disse:
— Mi piacerebbe conoscerla.
— Se vi mettete in questo posto all‘ora del tramonto, la vedrete passeggiare coi suoi due gatti; badate che non vi faccia qualche stregoneria, – disse l‘operaio.
Ma Fulgenzio non aveva simili paure, e all‘ora del tramonto si sedette su di un masso di pietra, aspettando la ricca vicina. Infatti nell‘ora in cui il sole tingeva le colline di un colore rosso e violetto, vide attraversare il pergolato un‘ombra nera, seguita da due oggetti che a quella distanza parevano due palle, una bianca e l‘altra fulva.
Quando furono presso il muricciolo che divideva i suoi possedimenti da quelli della signora Sofronia, così si chiamava la sua vicina,la vide sedersi sopra una panca,con un gatto per parte,e accarezzarli in modo ch‘essi facevano le fusa,e scuotevano la coda dalla contentezza.
Erano due bellissimi gatti d‘Angora, col pelo lungo e sottile come seta, che ora voltavano la testina con un movimento grazioso, ora si raggomitolavano in modo da sembrare due cuscini, uno d‘oro e uno bianco come la neve.
Fulgenzio diede un‘occhiata anche alla signora, gli parve smunta e un po’gobba, ma non la trovò così brutta come gliel‘avevano descritta. Per attirare la sua attenzione egli fece cadere un sassolino che andò a battere proprio sulla groppa del gatto bianco, il quale aperse la bocca ad un piccolo miagolio. La signora Sofronia alzò il capo, e prendendo fra le braccia il gattino disse irritata:
— Chi ha osato percuotere il mio Candido?
— Chiedo scusa, – rispose umilmente Fulgenzio, – passeggiavo, ho urtato inavvertitamente col piede un sassolino, che è caduto sul suo bellissimo gatto, ne sono dispiacente, e se mi permette di scavalcare il muricciolo vengo ad accarezzarlo per fare la pace. Mi piacciono tanto i gatti.
— Quand‘è così, venite pure, – disse la signora Sofronia, sorpresa di trovare un uomo tanto umile e gentile.
Fulgenzio non se lo fece ripetere, in un salto fu vicino a lei, ed accarezzando i gatti disse:
— Che belle bestie, sono una meraviglia!
La signora, contenta di quegli elogi rivolti ai suoi fidi, rispose:
— Sono la mia compagnia: essi almeno mi seguono e mi vogliono bene; io li trovo migliori degli uomini.
— Siete ingiusta, – rispose Fulgenzio, – spero di farvi ricredere.
E da quel momento procurò di trovarsi sempre alla medesima ora in quel posto, e prese l‘abitudine di conversare colla vicina, finchè venne un giorno ch‘essa lo condusse a visitare i suoi campi, tutti belli e ben tenuti che promettevano un raccolto abbondante; la corte dove allevava una quantità di bestie, piccioni, galline, fagiani, tacchini e pavoni; le stalle piene di mucche, vitellini da latte, cavalli, buoi, una quantità di grazia di Dio che a Fulgenzio faceva venire le vertigini.
— Vedete, – essa diceva, – i campi sono così belli, le bestie così grasse, perchè me ne occupo io. Se sapeste quanto ho da fare!
— E lo dite a me? L‘occhio del padrone ingrassa il campo, lo so anch‘io per prova che devo sorvegliare tutto, occuparmi di ogni più piccola cosa.
Trovarono che andavano perfettamente d‘accordo, che avevano tutti e due il solo e medesimo pensiero di aumentare le rendite e pensarono di udire le loro vite solitarie, sposandosi.
Fulgenzio non la trovava poi così brutta; a quel po’di gobba si era abituato, le scoperse due occhi espressivi, e ciò che era ancora meglio, altri vasti possedimenti; e pensò che in breve, fra l‘agricoltura e l’industria, sarebbero divenuti i più ricchi proprietari dei dintorni.
Il giorno delle nozze misero l‘avarizia da parte, e fecero una festa campestre invitando tutti i contadini e operai che da loro dipendevano.
Vi fu un banchetto, durante il quale un vino squisito che scendeva dalle botti in getti copiosi come quelli d‘una fonte mise tutti di buon umore: però sottovoce ciascuno ripeteva la seguente canzone:
La strega sposa il mago,
Oggi si fa baldoria,
Domani un‘altra storia
Dovremo incominciar.
La strega sposa il mago,
Oggi si pranza e cena,
Doman con maggior lena
Dovremo lavorar.
Poi intrecciarono sui prati liete danze, ma i più allegri erano i gatti, Candido e Dorato, i quali avevano tanto mangiato che si arrotolavano sull‘erba facendo salti e capriole, tanto più che la signora Sofronia, contenta di aver trovato uno sposo, si era dimenticata di loro.
Però, passato quel giorno di baldoria, gli sposi ripresero la loro vita operosa; Sofronia si occupava dei campi e delle bestie, Fulgenzio delle sue industrie. Egli andava continuamente in città a vendere legni e marmi, e ritornava carico di quattrini: pure non era contento, voleva diventare più ricco del principe, che vedeva ogni anno scendere dal vecchio castello situato sul monte, in splendidi equipaggi,seguito da un corteo di dame e cavalieri. Dopo un anno, ebbero una figliuola che chiamarono Alba,perchè nacque appunto nell‘ora che il sole stava per sorgere. Era una bella bimba coi capelli d‘oro, e prometteva di diventare una bella ragazza; ma Sofronia che temeva di esserne eclissata si curava poco di lei, e le preferiva Candido e Dorato, così che la piccina divenne gelosa dei gatti e non li poteva soffrire; forse contribuiva a renderglieli odiosi l’impressione che ebbe una volta che s‘era sentita quasi soffocare da Dorato il quale era andato a dormire nella sua culla, e per fortuna fu mandato via in tempo dalla nutrice. Essa si era invece affezionata ad un piccolo cane che teneva sempre presso di sé, e le faceva compagnia; perché i suoi genitori, molto occupati dei loro affari, non si curavano di lei. Ma se la madre invidiava la bellezza di Alba, Fulgenzio adorava la figlia, e sognava di circondarla di tanta ricchezza da farle sposare il figlio del principe.
E così s‘immergeva sempre più nel lavoro, procurava di ammucchiare tesori su tesori, e intanto Alba sola, abbandonata, girava nel giardino, passava in mezzo agli operai ed ai contadini che sudavano per arricchirla, e la guardavano con ammirazione, come se la sola presenza di lei li consolasse delle loro fatiche.
Essa guardava tutto quel lavorìo,e non poteva comprendere come il padre potesse trovar piacere a quella vita faticosa.
— Perchè ti affatichi tanto? – gli chiedeva.
— Per farti ricca.
— Non m‘importa, babbo: riposati, non lavorar più.
— Voglio che sposi il figlio del principe, – le rispondeva il padre.
— Non mi piace.
— Deve piacerti: voglio che tu sia principessa.
E quando Alba vedeva passare il figlio del principe scappava e si nascondeva, come se avesse visto una brutta bestia. Si divertiva invece a scendere alla riva del lago,dove veniva tutte le mattine un giovane pittore che copiava il paesaggio: aveva fatto amicizia con lui, e si compiaceva di veder uscire dal suo pennello le foglie verdi come quelle degli alberi e il lago azzurro,colle vele che parevano quasi mosse dal vento.
— Come fate, – gli diceva, – a combinare con un po’di colore tutte quelle belle cose: siete forse un mago?
— Siete voi piuttosto una fata benefica che colla vostra presenza mi date l‘ispirazione.
E prima di andarsene le diceva:
— Ritornerete domani?
— Certo, – rispondeva Alba, – mi piace tanto vedere gli alberi e i monti uscire dalle vostre mani.
Un giorno il pittore la pregò di posare, e le fece il ritratto col cagnolino in braccio.
— Come sembro bella, – disse la fanciulla quando vide la sua immagine sulla tela; – io non sono così.
— Così siete ai miei occhi, – disse il pittore.
— Vorrei avere i vostri occhi, – allora soggiunse Alba.
— Perché?
— Perché tutto il mondo mi apparirebbe più bello.
— Non è vero: voi siete cento volte più bella del ritratto, siete troppo modesta.
E tutti i giorni si lasciavano stringendosi la mano: e dicendosi:
— Addio, bella fata.
— Addio, mago, a domani.
Ed Alba, dopo che era stata in riva al lago a chiacchierare col pittore, era così contenta che si metteva da sola a scoppiare dalle risa, tanto che i suoi genitori, non potendo comprendere quell‘allegria, le dicevano:
— Ma che cos’hai, Alba?
— Com’è bella la vita! – rispondeva la fanciulla.
— Quando avrai sposato il principe, allora, sì, troverai bella la vita.
— Il principe non lo voglio, – diceva Alba facendosi malinconica: – se mi parlate del principe, vado via e non mi vedrete più.
Fulgenzio non poteva capire l‘antipatia di Alba per il principe, ed un giorno disse alla moglie:
— Temo ci sia sotto qualche cosa.
— Lascia fare a me che la terrò d‘occhio, – rispose Sofronia.
E così fece; una mattina la seguì di nascosto fino al lago, e scoperse che Alba, chiacchierava volentieri col pittore.
Quando la figlia tornò a casa sempre più allegra, non le disse nulla: ma il giorno appresso, mentre Alba era ancora a letto, scese in riva al lago e disse al pittore:
— Che cosa fate nei miei possedimenti?
— Dipingo, come vedete; – rispose.
— Vi ordino di lasciar subito questi luoghi, – disse Sofronia.
— Perchè? – chiese il pittore. – Che male vi faccio!
— Perchè sono io la padrona e non permetto che si dipinga nei miei possedimenti, – rispose.
— È che vorrei salutare prima una fanciulla che viene sempre a tenermi compagnia.
— La saluterò io per voi.
— E vorrei darle questo ritratto come ricordo.
— Glielo darò io.
Il pittore piangeva; ma quella non era casa sua, e doveva andarsene.
Intanto si portava via quei luoghi nei suoi quadri, e la fanciulla che gli si proibiva di salutare, gli stava dipinta nel cuore e nella mente e nessuno gliel‘avrebbe potuta strappare.
Sofronia, quando vide il pittore disposto a partire su di una barchettina leggiera, tornò a casa, nascose il ritratto della figlia e non le disse nulla.
Alba andò come al solito alla riva del lago, e fu sorpresa di non vedere in distanza il pittore seduto al cavalletto.
— Dove sarà il nostro amico? – disse al cagnolino. Ma il cagnolino la guardò con occhi mesti, e non poteva risponderle.
Ella si guardò intorno, e vista in lontananza la barchettina che s‘allontanava come un punto bruno, sul fondo del lago, capì che quel legno doveva portar lontano il suo amico, e le parve che un velo nero si stendesse sui bel lago azzurro.
Sapeva che un giorno o l‘altro sarebbe partito, ma non avrebbe mai immaginato che egli potesse partire così, senza avvisarla, senza dirle una parola d‘addio.
Come le pareva brutta la vita in quel momento! Prese in braccio il suo cagnolino e tornò lentamente a casa.
Quel giorno non ebbe voglia, nè di ridere, nè di mangiare; il giorno appresso ritornò come al solito al lago, e stette delle lunghe ore a fissare il punto lontano ove la barca era scomparsa.
E così fece tutti i giorni.
Non rideva più, diveniva sempre più pallida e magra.
— Che cos’hai? – le diceva il padre quando aveva tempo d‘osservarla.
— Nulla.
— Perchè non ridi più?
— Perchè il mondo è brutto.
Un giorno ch‘essa se ne stava come al solito in riva al lago, si rivolse al suo cagnolino e gli disse:
— Ti ricordi del pittore che faceva nascere sulla tela alberi e fiori? Ti ricordi come era gentile, e come ti accarezzava quando saltavi in mezzo ai pastelli, che mettevi in bocca per portarmeli? Ora quel cattivo s‘è annoiato di noi, ed è andato a trovare altre fate e altri cagnolini. Di‘, vuoi che andiamo a raggiungerlo? – Sì? ebbene proviamo.
Staccò una grossa foglia di musa, vi si sdraiò come in un letto e si lasciò cadere lungo il pendio che scendeva al lago, adagio adagio, finchè sentì una piccola onda lambirle i piedi.
— Com‘è fresca l‘acqua! – disse al cagnolino, – come deve essere bello laggiù!
E si lasciò andare, avvolta e cullata dall‘onde; chiuse gli occhi come in un sogno. L‘acqua fresca le calmava la febbre, ed essa gridava:
— Avanti, com‘è bello! avanti!
Poi sentì l‘acqua salire su su, e avvolgerle lentamente il bel corpo come un freddo lenzuolo; e nelle orecchie udì un suono confuso e lontano, le pareva la voce dell‘amico che la chiamasse.
Poi ebbe un brivido, le parve di scendere in un baratro, non sentì più nulla. L‘acqua si richiuse increspandosi. Un raggio di sole si posò sul lago e sorrise alla fanciulla scomparsa.
A casa Fulgenzio e Sofronia erano seduti a tavola aspettando la figlia; ad ogni istante l‘uno o l‘altra andava alla finestra, sperando di vederla comparire, e poi si interrogavano inquieti collo sguardo.
— Dove sarà andata? – diceva Fulgenzio.
— Gira sempre per la campagna, si sarà forse smarrita, – rispondeva la moglie.
— Dio mio, che cosa sarà accaduto?
— Tornerà, tornerà, non ci sono pericoli.
Il tempo passava ed Alba non ritornava. Incominciarono allora ad essere sul serio inquieti.
— Bisogna mandar a vedere: – dissero tutti e due ad un tratto, e mandarono alcuni contadini e servi in diverse direzioni a cercare Alba; essi stettero ancora ad aspettare pieni d‘ansietà. I minuti sembravano ore in quell‘attesa senza frutto. Nessuno ritornava.
Ad un certo punto non potendo più restare immobili ad aspettare, uscirono.
La notte era buia e non si udivano che i vaghi rumori della campagna; di tratto in tratto, l‘abbaiare di qualche cane lontano rompeva il silenzio.
— Sarà Alba, – dicevano; – vengono, vengono.
Ma poi i cani tacevano, tutto tornava in silenzio, e nessuno compariva.
Quando si erano scostati alquanto dalla casa, rifacevano i loro passi in attesa di qualche messaggio.
Finalmente Fulgenzio disse a Sofronia:
— Tu rimani: io vado, e ritornerò subito a dirti qualche cosa. – E s‘avviò verso il lago.
Ad un certo punto vide un gruppo di persone incerte e silenziose, alle quali fece per avvicinarsi, ma fu fermato da una donna che gli disse:
— No, si fermi, non vada avanti, è meglio che ritorni a casa.
— No, voglio vedere. – E si cacciò innanzi facendosi un passaggio in mezzo a quella schiera di corpi umani che volevano sbarrargli la strada.
— Mia figlia! Mia figlia! – esclamò piangendo.
Stesa sull‘erba, adagiata ancora sulla foglia della musa, giaceva Alba cogli occhi chiusi, calma come se dormisse. Un raggio di luna faceva risaltare il contorno del volto ed il colore dei capelli.
— Quanto è bella! – dicevano tutti intorno a lei: – pare una santa. Dio sa che cosa è accaduto! Che disgrazia!
E guardavano rispettosi Fulgenzio, e aspettavano i suoi ordini.
Egli al primo momento era rimasto come impietrito, quasi che la realtà non potesse farsi strada nel suo cervello sconvolto.
— Dobbiamo portarla a casa? – gli chiesero.
— No, più tardi.
E pensò alla moglie che aspettava ansiosamente, e non aveva un‘idea di quello che le avrebbe detto.
— Andate pure avanti: la porterò a casa io.
Ma nessuno aveva il coraggio di muoversi.
Egli compose con dei rami d‘albero una specie di barella, vi adagiò sopra la figlia come in un letto, e aiutato da tre uomini si avviò lentamente verso casa.
Sofronia aspettava sempre; cento volte andò su e giù, avanti e indietro, dalla casa al cancello; avrebbe voluto non saper più nulla. Sentiva la sventura nel cuore, nell‘aria, nel silenzio che la circondava; quando udì i passi che s‘avvicinavano lenti, esitanti, lugubri, non ebbe il coraggio di muoversi; aveva timore di sapere, sarebbe stato sempre troppo presto.
— Se fosse una buona notizia correrebbero, – pensava, – spalancherebbero le porte; era meglio non saper nulla, e avrebbe voluto morire.
Il corteo si era avvicinato e la folla era rimasta in giardino: solo Fulgenzio ebbe il coraggio di mostrarsi sulla soglia. Sofronia lo guardò in volto, comprese tutto,gli si gettò fra le braccia piangendo, poi avvicinatasi al cadavere della figlia disse:
— Come è bella! essa almeno non soffre più, vorrei essere al suo posto!
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Il lavoro continuava sempre febbrile nei possedimenti di Fulgenzio; il mulino girava veloce, la collina si sventrava per cedere i suoi marmi, l‘oro si ammucchiava negli scrigni, ma egli non si curava più di nulla. Che cosa gli importavano le ricchezze, se non aveva più desiderio di goderle? Perchè, per chi, aveva, ammucchiato tutto quel danaro? Passava ore ed ore a contemplare, silenzioso, cogli occhi fissi il ritratto della figlia.
Colla moglie non parlava più: non si guardavano neppure in viso, temendo leggervi a vicenda u n rimprovero terribile.
Ognuno si sentiva colpevole di aver resa la figlia infelice, e trascinavano assieme la loro vita come una catena; guardavano nel cielo lontano, aspettando la morte che non voleva venire.
E tutta la ricchezza che li circondava sembrava un’irrisione.
Invidiavano il pittore che era partito portandosi nel cuore l‘immagine di Alba, perchè almeno egli l‘aveva amata bene, e non aveva il cuore dilaniato dal rimorso che li tormentava e avea loro tolta la pace.
Fine.
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Fulgenzio
AUTORE: Cordelia
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
https://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/
TRATTO DA: Nel regno delle chimere : novelle fantastiche / di Cordelia - Milano: Fratelli Treves edit, 1898 - 283 p. ; 19 cm.
SOGGETTO:
FIC004000 FICTION / Classici
FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)