Fedeltà

di
Cesare Pavese

tempo di lettura: 15 minuti


I.

Quando Amelio venne portato a casa dall’ospedale e posato sul letto, gli altri smisero di andarlo a trovare, ma Garofolo cominciò allora. Prima non s’era deciso perché, quantunque Amelio all’ospedale fosse entrato sporco piú di benzina che di sangue, dicevano che su quel letto nel sangue ci dormiva, ingessato e legato come un gabbione di cemento. Garofolo aveva visto la motocicletta e ne aveva avuto abbastanza.
Ma ora che Amelio era condannato a non muoversi piú, Garofolo sentí il bisogno di fargli compagnia e aiutarlo come poteva. Gli avevano detto che, quando all’ospedale gli mettevano in bocca la sigaretta e gliel’accendevano, Amelio chiudeva gli occhi come un bambino. Salí con le tasche piene di sigarette, ma Amelio gli parve tutt’altro che umiliato: guardava invece negli occhi come se uno non ci fosse. Che faccia avesse prima, Garofolo non riusciva a ricordare, ma gli ossi della mascella e della tempia facevano cavità nerastre che dicevano quanto avesse urlato e stretto i denti.
Farlo parlare, a Garofolo era sempre riuscito difficile. Mentre fumavano, Garofolo lasciò andare un sorriso, che finí in una smorfia.
— Che c’è da ridere?
— Rido di Masino.
— Non so.
— Ha voluto provare anche lui. Suo padre smontava una moto; lui tutto quello che vede, salta sopra; una volta partito, gli resta in mano il manubrio. Adesso gli tocca pagarla.
— Ignoranti, – disse Amelio. – Non sanno neanche andare in bicicletta e vogliono fare i meccanici.
Faceva un mattino fresco, con un po’ di nebbia chiara: una gran luce fredda empiva i vetri. Amelio era disteso sul sofà della cucina fra le lenzuola che traboccavano a terra. Aveva scoperto il petto peloso di un biondo piú pallido dei capelli e, poggiato sui gomiti, si grattava un capezzolo.
— Mi pare che aspetti qualcuno, – disse Garofolo. Andò a spalancare i vetri. – Non si sente nemmeno la strada, – disse, – si sta bene quassú –. Voltandosi vide la faccia tesa di Amelio rovesciato supino e la schiena arcuata sui gomiti. Teneva gli occhi chiusi e respirava.
Garofolo prima di salire aveva aspettato che la madre di Amelio passasse davanti alla tabaccheria. Ci passava tutte le mattine per andare alla spesa e non bisognava lasciarsi prendere perché tutti le servivano da sfogo e aveva un modo di parlare cosí astioso, che si capiva come il marito invece stesse zitto. Poveretto, sua moglie era stata una bella donna, e si vede che in quel figlio violento e ben piantato lui ci aveva messo tutta la sua forza e non doveva essergli parso vero di esser riuscito a tanto. Garofolo pensava che dei due lui soffrisse di piú; perché, se davvero quella donna era stata bella e robusta come dicevano, un giovanotto come Amelio non doveva esserle parso, come al marito, un miracolo.
Il vecchio faceva pietà. Era passato giorni prima dalla tabaccheria – non piú ogni sera come un tempo – a prendere un mezzo toscano e aveva cercato nella scatola a testa china, con una meticolosità distratta, brontolando a fior di denti tra i baffi, cascanti e ingialliti come fosse anche lui paralizzato.
— E Natalina? – disse Garofolo.
Stavolta la smorfia la fece Amelio.
— Fa freddo, – disse.
Quando Garofolo tornò dalla finestra, vide che Amelio rideva scoprendo i denti come quando era abbronzato dal sole.
— Le donne sono tutte cosi: finché va, va… Ma io vado ancora.
Garofolo sorrise.
— È venuta a trovarti?
— Viene stamattina.
Garofolo si alzò in piedi.
— È per questo che l’aspetti a letto, – disse ridendo.
Una volta in strada, Garofolo si sentí felice. Amelio insomma stava meglio di lui. Ecco quel che vuol dire sapersi fare una ragazza: tiene compagnia e si gode. Sotto il sole e le foglie secche Garofolo attraversò il viale e davanti alla tabaccheria si voltò alle gambe svelte di una che passava, invidiando Amelio.
Aver voglia di discorrere, il lavoro lo facevano gli avventori che buttavano i soldi sul banco e si palpavano loro i pacchetti o i sigari. Poi c’era la mamma che pensava ai francobolli e al sale. Un negozio che andava da sé. Garofolo pensava che, se fossero stati piú in grande, suo padre avrebbe potuto prendere anche Amelio che lavorare doveva. Quando però lassú si decidessero a comprargli il carrozzino e scendere al pianterreno. Ma avrebbe potuto un carrozzino girare dietro il banco?
Ecco entrarsene all’una Natalina, senza cappello e profumata, e guardare di cattivo umore Garofolo accorso dal retro. Natalina veniva di rado – aveva il tabaccaio davanti al laboratorio – ma sapeva che Garofolo era amico di Amelio e prima della disgrazia era anche entrata qualche volta con Amelio.
— Faceva fresco stamattina, – disse Garofolo. – Si stava bene nel letto.
Natalina levò gli occhi tra i capelli e fece quella smorfia ridendo. Garofolo aprí il banco e prese le boccette in vetrina. Mentre annusavano, si spargeva piú fino e piú caldo il sentore bruno di lei.
Dopo la Colonia, la violetta; dopo la violetta, il «Notturno». Natalina aveva fretta e non trovava il suo gusto.
— Ho una fame, – disse, – che non ci vedo piú. Passerò un altro giorno.

II.

La sera Garofolo era ancora contento e andò al biliardo. C’era Masino, con la testa fasciata, che aspettava qualcuno per lagnarsi.
— Come va? – disse Garofolo.
— Male.
— Vai, che sta peggio la motocicletta.
— Bisogna saper cadere, – disse Masino. Entrò nel discorso il padrone che portava un caffè: – Bisogna imparare a star dritti.
— Se non facevo la pallottola, mi rompevo la schiena, – disse Masino punto sul vivo. Si fermò. – Come Amelio.
Tacquero tutti e tre un istante.
— Amelio sta bene adesso, – disse Garofolo. – Pensa già alle ragazze.
— Ah sí? – disse il padrone, – non gli dà disturbi? Non avrei mai creduto. Ebbene, può essere contento.
— E le gambe? – interruppe Masino.
— Come fossero secche. Toccata la spina dorsale, è saltata la valvola. I comandi sono lí.
Riprese il padrone: – Pazienza, pazienza, ma almeno salvarsi le gambe senz’osso. Sono proprio contento, perché se lo merita. Ne aveva bisogno. È un miracolo che non capita a tutti. Ti ha fatto vedere?
Garofolo sorrise. – Non a me.
Garofolo pensava che nella cucina di Amelio doveva esser rimasta quella traccia di profumo. Chi sa se, tornando padre e madre, Amelio si era trasportato con Natalina sul seggiolone della stanza da letto. Tanto facevano come gli sposi e non era Amelio quello che avesse soggezione.
Amelio con Natalina aveva sempre comandato. Bastava pensare come la lasciava sull’uscio quando entrava a comprare le sigarette e, quando usciva, lei correva a prendergli il braccio. E per strada, se incontravano qualcuno, Amelio si fermava a parlare come fosse solo. Una sera Masino e Garofolo l’avevano voluta far ballare e, a metà ballo con Masino, Natalina aveva detto pardon scappando all’ingresso dove Amelio l’aspettava. Non c’era ora che non li trovassero in giro, e alla domenica partivano in motocicletta.
Garofolo cercò diverse volte d’indurre suo padre a prendere Amelio in tabaccheria, ma il padre non ascoltava nemmeno e fu la mamma che, una volta per tutte, gli disse chiaro di non fare sciocchezze. Difatti neanche lui non ci pensava veramente. «Non può nemmeno scendere le scale». Eppure Garofolo pensava che qualcosa si sarebbe fatto se la disgrazia fosse capitata in famiglia, o se i vecchi d’Amelio avessero avuto una tabaccheria.
Ma le disgrazie non vengono mai giuste. Che vita doveva fare ad Amelio e alla sua ragazza quella vecchiaccia che adesso si litigava con tutti? Garofolo non ritornò l’indomani a trovare Amelio, un po’ per non legarsi troppo e un po’ perché non sapeva se la vecchia era uscita.
Ritornò un pomeriggio che il profumo era ormai ben svanito: la cucina sapeva di piedi e d’umido. C’era poca luce – fuori piovigginava – e Amelio quel giorno non l’avevano alzato: la porta era aperta.
Amelio aveva una barba di molti giorni e prima cosa chiese da fumare. Stava appoggiato al muro freddo, seduto sotto le coperte.
— Quando cambiate casa?
Si sapeva che fino a primavera non sarebbero traslocati, ma era tanto per chiedere.
Amelio fumava, occhi chiusi.
— Ieri sera al cinema si sono picchiati, – disse Garofolo. – C’era uno che metteva una mano sul buco e faceva le ombre. Hanno fischiato, poi si è sentito gridare una donna e l’hanno tirata fuori dei soldati che sembrava morta. Aveva una calza strappata, ma quando è rinvenuta si è visto che era gobba. Gobba come una strega. Che gente c’è però: mettersi con le gobbe!
— Allo scuro, – disse Amelio, – vanno tutte bene.
— Non ti alzi? – chiese Garofolo.
— Come faccio? – disse Amelio, e aprí gli occhi. – Ci vuole uno pratico, a portarmi. Tanto è lo stesso.
— Dove ti mettono?
— Di là sul seggiolone.
— E tuo padre?
— Tira avanti come può. Gli ultimi soldi glieli hanno succhiati per farmi la cura elettrica. Non sono mica una dinamo.
— Che cura fai adesso?
Amelio alzò le spalle. Garofolo gli chiese se voleva giocare alle carte. Trasse di tasca il mazzo – erano già umide – e con cautela si sedette sul sofà. Mentre distribuiva sulla coperta una briscola, disse gioviale: – Bisognerebbe essere in quattro –. E poi, posando il mazzo:.
— Come va Natalina?
Amelio succhiellava e non rispose. Cominciarono a giocare in silenzio. Mani e faccia ossute di Amelio parevano assorte. Garofolo vinceva, ma senza interesse non c’era gusto. Finita la mano, nessuno contò i punti e lasciarono stare. Scivolarono a terra delle carte.
Gli occhi di Amelio brillarono: pareva avesse la febbre. A un tratto contorse le labbra e cacciò un sospiro subito rattenuto.
— Sono stufo di stare qua dentro, – piagnucolò sommesso. A Garofolo parve di sentire un bambino. Piegandosi a raccogliere le carte, balbettò: – Pensa a rimetterti in forze, sei smorto. Con la bella stagione usciremo.
— Finché starò qua dentro come una pianta in cantina, avrò questa faccia. Lo sono già, in forze. Starei meglio se non lo fossi.
— Perché non apri mai? – chiese Garofolo.
— Poi si gela, e chi chiude?
— C’è tua mamma.
Garofolo, appoggiato al muro, sorrise.
— Quella ha solo paura che qualcuno mi porti da bere. Annusa anche l’aria. Tiene il fiasco sotto chiave.
— Vuoi che te ne porti io? – disse Garofolo.
Amelio alzò le spalle. – Da fumare, piuttosto. Da fumare. Poi, se ce n’è, da bere.
— Sí, ma devi guardarti, – disse Garofolo alzandosi. – Qualunque disordine ti può far male –. Parlava con gli occhi altrove.
— Te ne vai? – disse Amelio.
— Me ne vado prima che torni la vecchia –. Gli posò i tre pacchetti sul cuscino.
Amelio lo lasciò giungere alla porta, poi chiamò: – Non vuoi vedermele le gambe?
Garofolo voltandosi lo vide disteso nel letto, le lenzuola sino ai piedi, la camicia sul ventre. Dovette avvicinarsi. Le gambe ossute forti erano degne di Amelio. Solo le cosce dimagrendo s’erano fatte arcuate e bianco-sudice sotto il pelo. Amelio si torse per mostrarle con la mano.
— Non sembrano sane? – disse.

III.

Tornando a casa, Garofolo si fermava sul marciapiede. Non capiva perché Amelio gli avesse fatto vedere le gambe. Nel ricordo immaginava invece bianco e sodo il corpo di Natalina.
A ripensarci, le gambe d’Amelio gli facevano senso non per la paralisi, ma perché rivedeva verso l’alto delle cosce la peluria infoltirsi in una selva rossigna.
— Dovremmo andare nudi, per abituarci.
Era strano che un uomo gli facesse piú effetto delle donne. Ma si chetò, accorgendosi che in realtà pensava a Natalina.
L’indomani in bottega, tanti ne entravano tanti alzava gli occhi. Sarebbe tornata? Non si può comandare ai pensieri.
Entrò invece il padre di Amelio, con gli occhi rossi, e gli chiese un toscano. Allora Garofolo si ricordò ch’era domenica.
— Sta bene Amelio? – chiese affabile.
Il vecchio lo guardò di sotto in su, gli tremarono i baffi, e rispose come non aveva mai risposto. – Crepare dovrebbe –. Poi si pulí la bocca.
Garofolo cascò dalle nuvole. Ma il vecchio non aveva finito. – Poteva crepare in fabbrica e buscarsi l’indennità d’infortunio; non fare quel volo da stupido… chi gliel’aveva detto di passare i novanta?… Hanno vent’anni e si credono… non pensano a chi ne ha sessanta…
Era ubriaco e se ne andò. Garofolo sapeva che sua madre nel retro era stata a sentire, tralasciando per un momento, soddisfatta, di sbucciare le patate. Non osò voltarsi.
Natalina la rivide perché andò dalle sue parti a cercarla. Quando scorse sul marciapiede la sua stretta sottana, si fece avanti fissandola, la percorse con gli occhi e ammiccò. Gli bastava averla guardata ripensando al comune segreto. Natalina sorridente fece l’atto di fermarsi.
Ricordandola al braccio d’Amelio, Garofolo non si stupí. Si appoggiò al muro e le chiese perché non tornava in tabaccheria.
Natalina lo fissò divertita e gli rispose che non aveva bisogno di niente. Garofolo cambiò discorso, per non fare il piazzista. Le chiese come mai passava sola la domenica. Natalina s’imbronciò come una bimba, poi disse riprendendo a camminare: – Non posso fidarmi di nessuno: sono tutti sfacciati con me…
— Anch’io? – disse Garofolo, parandosi la guancia. Natalina fece un sorriso. – Oh, noi ci conosciamo.
La sera andarono al cinema in galleria, e Garofolo si vergognava di averla cercata per guardarle le gambe. Natalina aveva un modo cosí assennato di parlare, che Garofolo trasecolava ricordando le occhiate impertinenti che, aggrappata al braccio d’Amelio, aveva un tempo lanciato ai passanti che la guardavano. Non osò parlargliene ma capí che tutto nasceva dalla disgrazia. Pensava che, tenendole compagnia in quel modo, la sorvegliava per Amelio e gli faceva un favore. Pure, l’indomani che salí a trovarlo non osò dirgli nulla perché c’era la madre in cucina e non potè nemmeno dargli la bottiglia che aveva nella tasca del soprabito. Fumarono una sigaretta, e se ne andò.
Natalina ne aveva bisogno di essere sorvegliata. – Bravo, bravo, – gli disse un giorno Masino che li incontrò a braccetto, e le diede un’occhiata che non gli piacque niente. Natalina sorrise.
Garofolo s’abituò presto al braccio caldo di Natalina e alle parole misurate che si scambiavano scherzando. Parlavano dei tempi passati quando Natalina era tutta per Amelio, ne parlavano come di una cosa divertente e molto lontana. Poi c’era stata la disgrazia. La prima volta che Garofolo alluse allo stato presente di Amelio, Natalina gli serrò la mano, contrasse il viso e gli disse: – Ci penso già sempre. Non parliamone –. Garofolo le colse un lampo nello sguardo, che non era assennato, e capí di non contare proprio nulla. Ma Natalina si strinse a lui e gli disse: – Stiamo insieme! – Presero cosí l’abitudine di stringersi qualche volta camminando, purché non ci fosse nessuno.
Passavano intanto i giorni, ormai nevicava o faceva nebbia, e si stava bene al cinematografo. Garofolo ne trovò uno fuori mano, che piacque a Natalina.
Natalina aveva rimorso per quella povera ragazza cui rubava la compagnia: Garofolo negava ridendo.
Non aveva rimorsi, Garofolo. Era contento di uscire con una ragazza come Natalina che capiva tutto al volo e gli dava confidenza. Natalina era sveglia e che fosse anche esperta si vedeva dalla smorfia che faceva ogni volta che nel discorso veniva fuori quel quinto piano. Garofolo invidiava Amelio, era naturale: l’odore e i gesti di Natalina gli tormentavano il sangue; ma poi, non si deve cercare le donne solo perché sotto i vestiti sono nude.
— Dovremmo farci veder meno, – diceva Natalina, – trovarci soltanto al caffè. La gente sa che sei amico di Amelio e fa presto a pensar male.
Anche questo era giusto. Decisero di non dire ad Amelio che si vedevano, perché Amelio sempre solo e inchiodato nel letto poteva fare qualche storia.

IV.

— Ieri ho veduto Amelio e abbiamo giocato alle carte, – le disse una sera. – Gli ho portato da bere. È straordinario. Nemmeno da bevuto ha parlato di te.
— E perché doveva parlarne? – disse Natalina aggrottandosi.
Garofolo non seppe che rispondere.
— Avete tutti questo vizio, voi ragazzi, – continuò Natalina, – parlare, parlare. Che bisogno ce n’è?
— Ma… dicevo che Amelio non ha parlato…
— Vuol dire che ha la testa sul collo. Fa’ lo stesso anche tu.
Sovente Garofolo pensava come sarebbero andate le cose se lui fosse stato al posto d’Amelio e Amelio al suo. E capiva ch’era stupido pensarci, perché al suo posto Amelio avrebbe avuto Natalina e non sarebbe successo niente. Ma lui almeno che stava al pianterreno avrebbe potuto uscire.
Amelio invece non usciva ancora. Salí a trovarlo una mattina, ch’era tornato un po’ di sole. Mentre aspettava nel viale che la madre scendesse, ventilava di chiedere ad Amelio se Natalina anche con lui aveva degli scatti cosí irragionevoli. «Poveretto, non facciamo disastri», si disse e intanto la vecchia, data una brutta occhiata all’ingiro, uscí dal portone.
Trovò Amelio nella cucina squallida intento a sorbire, imbacuccato d’un mantello, un tazzone di latte. Si salutarono con un cenno.
Bevuto il latte, Amelio rosicchiò un po’ di pane inzuppato in un piatto di minestra fredda. Masticò adagio, posò il piatto sul tavolo e s’abbandonò sul sofà.
— Hai veduto qualcuno?
Amelio alzò le spalle e, torcendosi sulla vita, tese una mano dalle coperte. – Dammi il pappagallo –. Prese il pappagallo tra le dita ossute e se lo cacciò sotto le lenzuola. Garofolo andò a guardare dalla finestra luminosa, e tornò quando Amelio sollevando le coperte gli tese con cautela la maiolica. – Vuota nel lavandino, – disse Amelio.
— Chi vuoi che venga a trovarmi? – disse, quand’ebbe la sigaretta accesa.
— Natalina la ricevi qui? – chiese Garofolo.
— Che cosa fai con Natalina?
Garofolo levò gli occhi.
— L’ho accompagnata una volta al cinema… Si lamenta che è sola. A te chi l’ha detto?
Amelio sorrise. – Natalina non sta sola neanche a legarla. Occhio alla tabaccheria.
Mentre Garofolo in piedi tormentava la sigaretta, Amelio fissava tranquillo le coperte. Il lavandino nell’angolo gocciolava cadenzato.
— Senti, Garofolo, – disse d’un tratto Amelio, – da tre mesi non esco di casa. Mio padre non è capace e per mia madre è peccato. Tocca a te. Se non mi trovi una donna, sono morto. Non portarmi piú da bere e con quei soldi affittamene una. La porti qui, che non ci sia nessuno.
Il sorriso idiota di Garofolo gli fece alzare la voce:
— …E dille che sono uno storpio, che non mi faccia poi storie. Prendila magra altrimenti mi schiaccia. Capito?
Garofolo aveva in gola una domanda, ma non la fece. Tormentò un altro poco la sigaretta, buttò il mozzicone, disse calmo:
— Qualunque donna?
— Che non sia troppo grassa, ma neanche un’acciuga.
— Secondo che la trovo. A che ora?
— Domani mattina a quest’ora.
— Se l’avrò già trovata. Vado subito?
— Fila.
Natalina se lo vide sul portone a mezzogiorno e lasciò in fretta le colleghe che ridevano e gli corse a fianco.
Girato l’angolo cominciò Garofolo.
— È vero che da tre mesi non vai piú da Amelio?
Natalina si fermò, gli serrò il polso e disse adagio: – Vorresti che ci andassi?
Siccome era sabato non c’era fretta. Girando per le straducole deserte, Natalina gli disse ogni cosa, senza rimproverarlo che avesse parlato con Amelio.
— Gli ho voluto molto bene prima, e tu lo sai, – disse Natalina guardando avanti a sé. – Te l’ho detto sinceramente. All’ospedale andavo sempre a trovarlo, benché fosse colpa sua se era là. Ma dopo, – Natalina storse la bocca, – dopo non ho potuto resistere piú. È come se avesse le gambe di pietra. Tu vorresti bene a una donna con le gambe di pietra? Me le sogno di notte e mi fanno ribrezzo.
— Però è un uomo come tutti gli altri, – disse Garofolo tanto per dire.
— Che cosa importa? – e Natalina lo guardò con rimprovero. – Non cerca solo questo una ragazza. E gliel’ho detto.
— Gliel’hai detto?
—Sí.
Passeggiarono fino all’una e Natalina sorridendo si toglieva dalla vita la mano di Garofolo che, pensando alla donna che doveva portare ad Amelio, non aveva piú ritegno. Combinarono che dopocena sarebbe passata lei dalla tabaccheria a prenderlo. Poi si diedero un bacio sotto un portone dove entrava una banda di sole.
Natalina non l’aveva detto, ma Garofolo rincasando sospettava che Amelio l’avesse anche maltrattata.
Pure, nel pomeriggio andò per quella commissione. Provava un senso d’irresponsabile fastidio a rimetter piede in quella casa, ora che sapeva che con Natalina era questione di tempo e magari l’avrebbe sposata. Un po’ trafelato chiese di parlare con la padrona.
In piedi, sulla porta di un salottino, la padrona l’ascoltò senza batter ciglio.
— La mattina, a che ora? – disse.
Garofolo in uno specchio laterale vide confusamente qualcosa di nudo.
— Bisogna intenderci subito, con voialtri. Sono almeno cento lire…
— Cento lire…
Nel pomeriggio Garofolo ci pensava ancora e concluse di cercare una di quelle della strada che, anche per l’avvenire, fosse a portata dei mezzi d’Amelio. Ma fino a notte non era possibile.
Garofolo fece sera servendo al banco, un po’ distratto, perché adesso pensava con troppo gusto alle gambe di Natalina. Alla peggio, una ragazza come quella valeva la pena di sposarla. Senza quel capitombolo, Amelio l’avrebbe certo sposata.
Dopo cena si trovarono e andarono a spasso. Stavolta Natalina non cercava piú di nascondersi, e anzi per infilare un vicolo buio Garofolo dovette manovrare. – Sciocco, – diceva Natalina, – abbiamo tempo –. Si baciarono e strinsero insieme. Poi andarono a ballare e Garofolo ottenne che ballasse soltanto con lui. Ballando Natalina lo guardava, e stavano incollati come un corpo solo.
La lasciò sul portone, che c’era la luna. Baciandola Garofolo le disse a bassa voce: – Io ti sposo e cosí Amelio non potrà dir nulla.
— Che cosa vuoi che dica? – bisbigliò Natalina guardandolo negli occhi.
Poi Garofolo attraversò la città fino a un viale del centro, dove una volta era stato fermato da una vecchia e una giovane che litigavano. Faceva freddo, e si fermò stracco morto non vedendo nessuno: forse il chiarore della luna le scacciava? Prese una viuzza laterale e dopo il primo portone si sentí invitare.
Nell’ombra Garofolo fissò un viso smorto ch’era tutto occhi e bocca. La donna ascoltò impaziente prendendogli il braccio. – E tu non mi vuoi? – disse con voce roca.
Garofolo scosse il capo. – Non hai mica malattie?
— Provami, va’!
Presero appuntamento per le undici dell’indomani. Sempre tenendogli il braccio, la donna volle una sigaretta: Garofolo gliel’accese e contento di non avere nemmeno scherzato, se ne andò, pensando a Natalina.

Fine.


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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Fedeltà
AUTORE: Pavese, Cesare

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze

TRATTO DA: Racconti / Cesare Pavese. - Torino : Einaudi, [1994]. - 525 p. ; 20 cm.

SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)