Léon Bloy, Esegesi dei luoghi comuni. Libro primo, a cura di Alessandro Miliotti, traduzione di Sandra Teroni, collana «La mala parte» n° 12, Piano B Edizioni, Prato 2011, pp. 178, € 11,90. ISBN: 978-88-96665-19-0

«Questo libro» è «più serio e doloroso di quanto non sembri», un libro «in cui ho mostrato il male di cui si muore» (dedica, p. 15). Fin dalle prime righe, Léon Bloy mette subito in chiaro che non intende raccogliere un centone di sciocchezze più o meno divertenti nella loro stupidità. Piuttosto un tassello importante di una «missione». Qualche anno prima (1884) aveva pubblicato Propos d’un entrepreneur de démolitions. Missione di demolitore di una società conformista, cinica e scioccamente edonista. E così, a 51 anni, Bloy inizia un lavoro, che gli avrebbe preso quasi sedici anni, di ricerca e sistematizzazione dei luoghi comuni (Exégèse des lieux communs, iniziato nel 1897, viene pubblicato in un libro nel 1902 e poi addirittura in una trilogia nel 1913).

Quasi al termine delle pagine che ora vengono pubblicate, Bloy trova una brillante definizione: «Il luogo comune è una tangente per fuggire nell’ora del pericolo» (p. 167). Il pericolo di dover affrontare con coraggio la propria coscienza, l’onore e la verità. Anche quella borghese, come ogni rivoluzione, ha bisogno di ritorcere la semantica delle parole («Un tempo, quando non era stata ancora promulgata l’abolizione del significato delle parole […]» – p. 69).

Ecco allora il suo commento a un noto luogo comune: «Cavalcare i princìpi»: «Genere d’equitazione ad uso esclusivo del Borghese. È il più sicuro che si conosca. È perfino inaudito che il cavaliere venga disarcionato. Però, che princìpi ammirevolmente addestrati! Cavalcatura assai piacevole, tanto più che non costa niente e trova da sola il cosacco! La bicicletta e l’automobile sono sorpassate, perché i princìpi sono ancora più veloci, e schiacciano meglio, in modo più soddisfacente, più irrimediabile. Non spezzano soltanto il corpo dei deboli e degli innocenti indifesi, spezzano anche e soprattutto le loro anime. I princìpi che il Borghese monta sono ineguagliabili, insuperabili corsieri di morte, ed egli li tiene nelle scuderie del suo cuore» (p. 46).

Mettere alla berlina l’imbecillità ha sempre un risvolto esilarante. Eppure, è vero, questo è un libro doloroso. La prosa febbrile, iperbolica, esasperata ne fa un testo «ostile». È proprio ciò che Bloy si propone, dicendo di voler essere un «un libellista di buona volontà che sarebbe felice di scontentare, [ […]] e di scontentare a tal punto da provocare collere sconosciute» (p. 18).

Tornato, dopo un periodo di anticlericalismo, a un cattolicesimo intransigente (troppo) e mistico-visionario, Léon Bloy è capace di scontentare tutti per scrivere «solo per Dio»; imposta così il suo testo tutto sulla dicotomia borghese/cristiano e relativo/assoluto. La mentalità del primo è sintomo e causa della decadenza della modernità. Nel testo introduttivo, Miliotti definisce queste pagine «un monolitico, anarchico e talentuosissimo anatema scagliato contro la modernità; una meravigliosa maledizione che investe la società fondata sulle merci, sulla tecnica, sull’affarismo, che disprezza il debole, il povero, il prossimo, cinica fino al grottesco, vigliaccamente conformista e soprattutto incapace di assoluto» (p. 10).

Due sole citazioni ancora. Innanzitutto l’ombelico del luoghi comuni: «Gli affari sono affari»: «È impossibile dire con esattezza che cosa sono gli Affari. Sono una divinità misteriosa, qualcosa come l’Iside dei mascheroni che soppianta tutte le altre divinità. [ […]] Gli Affari sono Affari, come Dio è Dio, cioè fuori da tutto. Gli Affari sono l’Inesplicabile, l’Indimostrabile, l’Incircoscritto, tanto che basta enunciarlo, questo luogo comune, per risolvere tutto, per mettere subito la museruola a condanne, collere, lamenti, suppliche, sdegni e recriminazioni» (p. 31). E, ancora, l’esegesi a un altro, ben noto: «Scegliere il male minore»: «Su questo, nessuna incertezza. Le persone più caritatevoli riconoscono che il male del prossimo è sempre il minore e che è proprio quello che bisogna scegliere. I moralisti hanno da tempo rilevato che si ha sempre abbastanza forza per sopportare le pene degli altri» (p. 157).

Quanto la mentalità mercantilista, cinica e relativista sia oggi ancor più in voga non occorre dimostrarlo. E così vale per l’attualità di questo testo, ripropostoci dalle Edizioni Piano B (dato che il «piano A» non funziona mai, bisogna avere un’alternativa efficace, una capacità di reazione – cfr www.pianobedizioni.com). Che poi la feroce strategia d’attacco all’arma bianca di Bloy risulti ingenerosa e poco efficace, è un altro discorso. Meglio far leva – ne sono convinto – su quanto di buono e di grande è nel cuore dell’uomo, anche se nascosto sotto cumuli di macerie morali. Ma tornare a dare alle parole il loro significato autentico è sempre un grande servizio. E l’esasperazione di Bloy, come ha detto recentemente Alessandro Zaccuri, riesce «appassionante anche quando non può essere convincente» (in «Avvenire», 2 aprile 2011).