Il primo romanzo di Carlo Linati, del 1928, narra dell’amore tra lo scrittore Gilberto Vallarsa e Patrizia Andreani, giovane e affascinante vedova di uno scultore viennese. Senza dubbio la grande passione di Gilberto resta sempre “al di qua” dell’amore che egli vorrebbe e che egli ricerca con un turbamento che spesso è già rimpianto prima ancora che quanto presagito si sia avverato.

Perché poi, in effetti, questa passione non ha neppure storia, è priva di sviluppi se non quello di lasciarsi con l’unico scopo di riprendersi e riprendersi con l’unico scopo di lasciarsi. Poiché nel testo ogni momento somiglia all’altro, si può dire che neppure esista una fine.

Il testo stesso finisce prima ancora di trovare la conclusione. L’ultimo convegno è sempre il penultimo e quindi la fine non può essere che casuale come era stato casuale l’inizio. E il racconto frammentario infatti non implica l’episodio. Ma questo testo incarna completamente la poetica del frammento e trova compiutamente questa capacità poetica nel portare con sé la memoria fatale di un “tutto” del quale avrebbe dovuto far parte. In questa luce si spiegano sia i lunghi intermezzi – la morte dello scultore marito di Patrizia o la colazione nuziale nella villa dell’ingegner Gaio – sia il fatto che non accada mai nulla: Patrizia non s’incontra con Marina, non ha mai modo di vedere Lisetta e Gilberto non completa il pedinamento del taxi che sta portando Patrizia e Ungaro, né può vedere se Cleto abbia raggiunto lo scopo.

Non avvenendo tutto questo il racconto si libera del suo peso morto e può tendere alla sua finalità poetica che vede un amore in dissolvenza inserito in un paesaggio di natura e costume con caratteristiche di decadenza. Tra il primo bacio sul cavalcavia e la tenerezza dell’ultimo sguardo abbiamo soprattutto lo sciupio di un amore che non è centrale ma sullo sfondo di volta in volta di un tramonto milanese, di una sera sul lago, di una notte di luna al parco.

Sinossi a cura di Paolo Alberti

Dall’incipit del libro:

Ritta davanti alla grande specchiera ovale in un canto della camera Patrizia era intenta a dare l’ultimo ritocco alla sua acconciatura da ballo quando d’un tratto sentì una fitta acuta sotto al costato, che le tolse di colpo il respiro.
Trasalendo si premè le mani al seno, ma sentendosi subito mancar le forze indietreggiò barcollando fino al letto poi vi si gettò bocconi, alenando, colla faccia contro il guanciale.
Di lì a poco quando la cameriera entrò, ella si lamentava dolorosamente e due occhiaie livide e scure attorno agli occhi parevano divorarsi la sua faccia piena di pallore.
— Signora!
— Non è nulla… non è nulla… sospirò con un fil di voce. Un semplice capogiro… Fammi il favore di telefonare a Tamaro.
— Ma prima non volete che v’aiuti a spogliarvi, a mettervi a letto?… Dio, come siete pallida!
— No, prima telefona.
La cameriera sparì. Dopo poco era di ritorno; aiutò Patrizia a spogliarsi, adagino, poi la mise a letto, rimboccò le coltri, chiuse le imposte ed uscì in punta dei piedi.
Tamaro giunse dopo qualche ora. Era un omicciolo magretto e calvo, vestito di blu, di bei modi. Lo dicevano medico espertissimo. Patrizia lo aveva conosciuto in casa d’amici.
Egli le tastò il polso, le ascoltò il cuore e palpò accuratamente i suoi spazi intercostali. Infine si rialzò e con un gesto lento e asciutto le tirò le coltri fin sotto al mento.

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