«Dovrebbero a mio avviso gl’italiani tradurre diligentemente assai delle recenti poesie inglesi e tedesche; onde mostrare qualche novità a’ loro concittadini, i quali per lo più stanno contenti all’antica mitologia: né pensano che quelle favole sono da un pezzo anticate, anzi il resto d’Europa le ha già abbandonate e dimentiche. Perciò gl’intelletti della bella Italia, se amano di non giacere oziosi, rivolgano spesso l’attenzione al di là dell’Alpi, non dico per vestire le fogge straniere, ma per conoscerle, non per diventare imitatori, ma per uscire di quelle usanze viete, le quali durano nella letteratura come nelle compagnie i complimenti, a pregiudizio della naturale schiettezza.»
1816: la rivista “Biblioteca italiana” esordisce all’inizio dell’anno pubblicando un articolo destinato a suscitare accese polemiche, Sulla maniera e la utilità delle traduzioni (De l’Esprit des traductions), di Madame de Staël. Il direttore della rivista, nonché traduttore dell’articolo, è Pietro Giordani, che un anno dopo inizierà con Leopardi uno scambio epistolare destinato a creare fra i due un rapporto di reciproca stima ed amicizia, coronato nel 1818 dalla sua attesissima visita a Recanati. I suoi articoli, come gli scrive Leopardi in una lettera dell’8 agosto 1817,
«diedero stabilità e forza alla mia conversione che era appunto sul cominciare, che gustato quel cibo, le altre cose moderne che prima mi pareano squisite, mi parvero schifissime, che attendea la Biblioteca con infinito desiderio».
In Sulla maniera e la utilità delle traduzioni si legge che gli artisti italiani, per svecchiare una letteratura nazionale ancora legata a un passato ormai “vieto”, incarnato dal permanere del ricorso alla mitologia, dovrebbero trarre ispirazione dalle opere recentemente pubblicate in Inghilterra e in Germania. Queste affermazioni, com’era prevedibile, accendono in Italia un vivacissimo dibattito fra i sostenitori dei classici e dei romantici: vi partecipa lo stesso Giordani che, sempre sulla sua rivista, qualche mese dopo pubblica il proprio articolo Un italiano risponde al discorso della Stael, prendendo posizione a favore dei classicisti, nella convinzione che prima i greci, poi i latini ed infine i trecentisti italiani abbiano raggiunto in arte, nel passato, la perfezione:
«Le scienze hanno un progresso infinito e possono ogni dì trovare verità prima non sapute. Finito è il progresso delle arti: quando abbiano e trovato il bello e saputo esprimerlo, in quello riposano».
Leopardi, non ancora diciottenne, nutritosi fino a quel momento con “studio matto e disperatissimo” dei classici greci, latini e italiani, prontamente interviene nella polemica, inviando al giornale una lettera, che però non viene pubblicata; il 18 luglio 1816, perciò, insiste, scrivendo quella che nell’edizione delle sue opere compare con il titolo Lettera ai sigg. compilatori della Biblioteca italiana in risposta a quella di Mad. la Baronessa di Staël Holstein ai medesimi, in cui rivolge un accorato appello agli scrittori italiani:
«Leggete i Greci, i Latini, gl’Italiani, e lasciate da banda gli scrittori del Nord, e ove pure vogliate leggerli, se è possibile non gl’imitate, e se anco volete imitarli, non aprite più mai, ve ne scongiuro per le nove Sorelle, Omero Virgilio e Tasso né vogliate innestare nei lor celesti Poemi Fingallo e Temora, con far mostri più ridicoli de’ Satiri, più osceni delle Arpie.»
Nemmeno questa lettera viene pubblicata. Il 15 gennaio 1818 Lodovico di Breme scrive, sulla rivista “Lo Spettatore italiano”, Osservazioni sul Giaurro di Byron, intervenendo a difesa dei romantici; Leopardi, instancabile, risponde inviando all’editore Stella, il 27 marzo 1818, la prima parte del Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, che porterà a termine in agosto e verrà pubblicato solo postumo, nel 1906, da Le Monnier, in Scritti vari inediti.
Leopardi, nel Discorso, dichiara di voler mantenere l’anonimato per non attirare l’attenzione sulla propria persona a discapito delle tesi espresse, e spiega le motivazioni che lo hanno indotto a prendere posizione contro le affermazioni di Di Breme, a suo parere, come con insistenza ribadisce, “pericolose”:
«Senz’altro le Osservazioni del Cavaliere a me paiono pericolose; e dico pericolose, perché sono per la più parte acute e ingegnose e profonde, e questo, se a noi non par vero quello che pare al Breme, dobbiamo giudicare che sia pericoloso, potendo persuadere a molti quello che secondo noi è falso, e che certamente è di tanto rilievo quanto le lettere e la poesia.»
Un saggio breve ma fondamentale, quello di Leopardi, sua unica opera organica di poetica (successivamente affiderà le sue annotazioni sul tema allo Zibaldone) ed espressione fra le più mature della posizione antiromantica. Il Discorso riprende punto per punto le tesi di Di Breme, confutandole e contrapponendo “Schlegel il Lessing la Staël” a “Aristotele Orazio Quintiliano”, nonché a Dante e Petrarca. Leopardi, che già maturava quella “Teoria del piacere” che avrebbe poi esposto sullo Zibaldone a partire dal 1820 (Zib. 165-184), impernia il suo ragionamento sulla convinzione che: scopo del poeta sia suscitare “piacere”; ciò sia possibile solo stimolando l’immaginazione attraverso l’imitazione della natura; l’uomo moderno si sia allontanato da quella natura che aveva ispirato i classici, consentendo loro di creare opere inarrivabili. Ne deriva che i moderni debbano necessariamente ispirarsi ad essi, non imitandoli pedissequamente, ma emulandoli. Invece gli autori nordici, proposti come modelli da Madame de Staël e da Di Breme, vengono da Leopardi sprezzantemente definiti quello “sterco sentimentale e poetico” che “ci scola giù dalle alpi o c’è vomitato sulle rive dal mare”. Il poeta contemporaneo, quindi
«deve coll’arte sua quasi trasportarci in quei primi tempi, e quella natura che ci è sparita dagli occhi, ricondurcela avanti, o più tosto svelarcela ancora presente e bella come in principio, e farcela vedere e sentire, e cagionarci quei diletti soprumani di cui pressoché tutto, salvo il desiderio, abbiamo perduto, onde sia presentemente l’ufficio suo, non solamente imitar la natura, ma anche manifestarla, non solamente dilettarci la fantasia, ma liberarcela dalle angustie.»
La lucida esposizione della propria poetica, sorprendente in un autore appena diciottenne, non impedisce a Leopardi di trasmetterci nel contempo la propria passione nei confronti dei classici, che si manifesta appieno nelle accorate apostrofi come quella sopra citata (con i “Per Dio” che qua e là affiorano per dare maggior enfasi alle sollecitazioni) e nel variare del registro linguistico dallo stile alto, utilizzato per evocare i classici, al crudo “sterco” che “scola” riferito ai romantici.
Esaltazione dei classici e rifiuto dei nuovi modelli romantici sfociano in un accorato appello finale ai giovani coetanei:
«Questa patria, o Giovani italiani, considerate se vada sprezzata e rifiutata, vedete se sia tale da vergognarsene quando non accatti maniere e costumi e lettere e gusto e linguaggio dagli stranieri, giudicate se sia degna di quella barbarie la quale io seguitando fin qui colla scrittura, non ho saputo né potuto appena adombrare. […] sovvenite alla madre vostra ricordandovi degli antenati e guardando ai futuri, dai quali non avrete amore né lode se trascurando avrete si può dire uccisa la vostra patria; secondando questa beata natura onde il cielo v’ha formati e circondati; disprezzando la fama presente che tocca per l’ordinario agl’indegni, e cercando la fama immortale che agl’indegni non tocca mai, ch’essendo toccata agli artefici e scrittori italiani e latini e greci, non toccherà né a’ romantici né a’ sentimentali né agli orientali né a veruno della schiatta moderna; considerando la barbarie che ci sovrasta; avendo pietà di questa bellissima terra, e de’ monumenti e delle ceneri de’ nostri padri; e finalmente non volendo che la povera patria nostra in tanta miseria, perciò si rimanga senz’aiuto, perché non può essere aiutata fuorché da voi.»
Sinossi a cura di Mariella Laurenti
Dall’incipit del libro:
Se alla difesa delle opinioni de’ nostri padri e de’ nostri avi e di tutti i secoli combattute oggi da molti intorno all’arte dello scrivere e segnatamente alla poetica si fossero levati uomini famosi e grandi, e se agl’ingegni forti e vasti si fosse fatta incontro la forza e la vastità degl’ingegni, e ai pensieri sublimi e profondi, la sublimità e profondità dei pensieri, né ci sarebbe oramai bisogno d’altre discussioni, né quando bene ci fosse stato, avrei però ardito io di farmi avanti. Ora s’è risposto fin qui alle cose colle parole, e agli argomenti colle facezie, e alla ragione coll’autorità, e la guerra è stata fra la plebe e gli atleti, e fra i giornalisti e i filosofi, di maniera che non è maraviglia se questi imbaldanziscono e paiono tenere il campo, e noi tra paurosi e vergognosi e superbi, tenendoci al sicuro come dentro a recinti di muraglie e di torri, gl’insultiamo tuttavia cogli stessi motteggi, quasi ch’esser ultimo a replicare fosse vincere; né però questo stesso ci è conceduto.
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