«Un giovane, espulso dall’università, di famiglia piccolo borghese, poverissimo, decide di uscir di colpo dalla sua triste situazione […] e uccidere una vecchia usuraia […]: una vecchia stupida, sorda, malata, avida, cattiva […]; egli decide di ucciderla […] e diventare in seguito – e per sempre – un uomo onesto, risoluto, inflessibile nel compiere ‘il proprio dovere verso l’umanità’»

Con queste parole Fëdor Michajlovič Dostoevskij,in una lettera scritta nel 1865 all’editore di Delitto e castigo, presenta nel contempo il suo immortale personaggio, Rodione Romanic Rascolnicov, e il tema centrale del romanzo, il delitto.

Rascolnicov è uno studente ventiquattrenne, mantenuto a Pietroburgo dalla madre con grandi sacrifici ma costretto a lasciare l’università per mancanza di mezzi. La miseria in cui versa è evidenziata fin dal primo momento dal suo aspetto («Era cosí male in arnese, che un altro, per quanto assuefatto, avrebbe avuto ritegno di uscir di giorno con quei cenci indosso») e dalla stanza in affitto in cui vive, che fa esclamare alla madre in visita: «Che brutto alloggio il tuo, Rodia, mi pare un sepolcro».

L’autore di Delitto e castigo, pubblicato nel 1866, si prefigge però esplicitamente uno scopo che va ben al di là della vicenda individuale del suo personaggio, ed è quello di «scavare a fondo, in questo romanzo, tutti i problemi». Il dramma di Rascolnicov si svolge infatti nel 1865, anno segnato in Russia da una crisi monetaria responsabile da un lato del proliferare degli speculatori, dall’altro della miseria che colpisce la maggior parte della popolazione, dai disoccupati, ai lavoratori, agli studenti. Una situazione vissuta in prima persona dallo stesso Dostoevskij, che scrive Delitto e castigo in uno dei periodi più bui, dopo quello della carcerazione e della condanna alla pena capitale, della propria esistenza: nel 1864, infatti, alla morte del fratello Michaìl, egli deve assumersi la responsabilità della sua numerosa famiglia, della rivista che dirigevano assieme, “Epocha”, e di una pesante situazione debitoria. Costretto a rivolgersi dapprima agli usurai, poi ad una vecchia zia ricchissima ma avara, alla fine subisce comunque il sequestro di tutti i beni, e deve chiudere la rivista; fuggito da Pietroburgo a Wiesbaden, nella speranza di rifarsi perde alla roulette anche il poco denaro che gli era rimasto, tanto che l’albergo in cui era alloggiato gli rifiuta i pasti.

In Delitto e castigo troviamo quindi un monumentale affresco della Pietroburgo degli anni sessanta, frutto sia dell’esperienza diretta dell’autore che delle conoscenze da lui acquisite scrivendo per “Epocha” ed altre riviste russe articoli sulle piaghe della società del suo tempo, quali la miseria, l’alcolismo e le sue conseguenze, la disoccupazione, la prostituzione, lo sfruttamento e l’abbandono dei minori, l’usura.

Il titolo del romanzo, Преступление и наказание, letteralmente Il delitto e la pena, (ripreso da quello del trattato del 1764 di Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, pubblicato in Russia nel 1803), lapidariamente pone l’accento sui due temi che percorrono l’intera opera e dominano non solo i pensieri e la vita di Rascolnicov, ma anche azioni e discorsi degli altri personaggi. Ma qual è il movente di un delitto apparentemente insensato, il cui autore conosce appena la vittima designata e non trae alcun vantaggio dal furto commesso ai suoi danni? È Rascolnicov stesso a spiegarcelo, escludendo le motivazioni più scontate, che pur gli erano balenate alla mente, come il desiderio di riscattarsi dalla miseria e la volontà di provvedere alla madre ed alla sorella, ridotte ad una vita di stenti per mantenerlo. Il vero movente è riconducibile alla sua concezione della vita, che vede l’umanità divisa in due categorie: la massa dei “pidocchi”e“lo strato superiore”.

«’Credo soltanto alla mia idea, la cui sostanza è questa, che gli uomini, per legge naturale, si dividono, in generale, in due strati: inferiore cioè, per cosí dire, materiale di riproduzione animale, e superiore, cioè uomini che hanno il dono di bandire una nuova parola. Le suddivisioni, si capisce, sono infinite, ma i tratti caratteristici della seconda categoria sono abbastanza spiccati: la prima, sempre parlando in genere, è conservatrice, cedevole, obbediente…. Obbedienza doverosa e punto umiliante…. La seconda è composta di uomini, i quali, in corrispondenza delle loro attitudini, tendono a violar la legge.’»

Rascolnicov spera di appartenere alla seconda categoria, quella degli “uomini”, e ritiene che l’unico modo per verificarlo sia il compimento di un atto che gli permetta di oltrepassare il “limite vietato”, come l’omicidio. Designa quindi la vittima, emblema dei mali del suo tempo, una vecchia ed avara usuraia forse ispirata dalla figura della ricchissima zia di Dostoevskij, Kumànina, che invece di aiutare i nipoti in miseria li aveva diseredati lasciando nel suo testamento ben quindicimila rubli per il proprio funerale. Con questo delitto Rascolnicov potrà dimostrare di essere un “uomo” e aprirsi la strada verso un futuro eroico, al servizio dell’umanità, come quel Napoleone che per lui costituisce il modello con cui spesso si pone a confronto. Lo tormenta però un dubbio esistenziale:

«’volevo sapere subito, al piú presto, se come tutti gli altri io ero un pidocchio ovvero un uomo. Avrei o no avuto il coraggio di varcare il limite vietato? avrei o no osato chinarmi e afferrare? ero io un vigliacco o avevo il diritto….’»

Rascolnicov oscilla quindi fra il desiderio di mettere in atto il suo proposito e l’abbandono ad una totale passività nell’isolamento della propria misera stanza. L’azione vera e propria, il delitto, è determinata alla fine non da una ferma decisione subentrata alle incertezze precedenti, ma dal verificarsi di una serie di eventi favorevoli che lui interpreta come premonitori: un sogno, un discorso ascoltato per caso davanti ad una bottega, una conversazione in osteria…

«Quel discorso insignificante da osteria, esercitò su lui un enorme influsso nell’ulteriore svolgimento del fatto, come se veramente la via da battere gli fosse tracciata da una fatalità ineluttabile….»

La descrizione del delitto, le cui modalità furono ispirate a Dostoevskij da fatti di cronaca dell’epoca, occupa un solo capitolo, il settimo ed ultimo della prima parte: qui il tempo del racconto, volto ad evocare nei minimi dettagli non solo gesti ma anche pensieri e stati d’animo di Rascolnicov, si dilata, fino a superare quello della storia.

Se il tema del delitto pervade l’intero romanzo, al centro dell’interiorità del protagonista domina sovrano il “castigo”: non si tratta però della pena prevista dalla legge, ma del tormento interiore che inizia ancor prima dell’omicidio, viene somatizzato nel delirio che immediatamente lo segue, e si accentua sempre più fino a portare Rascolnicov a sentirsi accerchiato e sopraffatto dagli altrui sospetti, in preda ad una duplice lotta, contro la legge e contro la propria coscienza, tanto disperato da affermare «Può anche darsi che in prigione si stia meglio….». Malessere fisico e psichico diventano in lui un tutt’uno:

«‘Chi sarà mai? chi è quest’uomo sbucato di sottoterra? Dov’era? che cosa ha potuto vedere? È indubitato che tutto ha visto. Ma dove si nascondeva? di dove spiava? Perché ha aspettato fino ad oggi per saltar fuori? E com’è possibile che abbia visto?… Hum….‘ (e il freddo e il tremito lo scuotevano piú forte).»

Dostoevskij mette a nudo il suo personaggio davanti al lettore facendone emergere la personalità non solo da azioni e dialoghi ma soprattutto dagli incubi che dopo il delitto lo tormentano notte e giorno e dai pensieri che popolano la sua solitudine, alla fine divenutagli insopportabile. Questi ultimi, talora, vengono anche inseriti come a-parte nella narrazione, intercalati al dialogo, in particolare nelle scene in cui egli si trova davanti al suo antagonista, il giudice istruttore incaricato di risolvere il caso, Porfirio Petrovic: costui, colto, perspicace, brillante, dotato di un’abile dialettica, implacabile nel giungere ad una soluzione e nel contempo umano, fin dall’inizio come un ragno gli tesse intorno la sua tela di indizi, provocandolo per indurlo a rivelazioni pericolose. Rascolnicov cerca di intuirne e sventarne i tranelli, e nel contempo di mascherare i propri stati d’animo simulando un’apparente tranquillità.

«’Diceste ieri, mi sembra,’ riprese Rascolnicov ‘che avreste voluto interrogarmi…. di ufficio…. a proposito della mia conoscenza con quella…. donna uccisa?’
‘Ma perché diamine ci ho messo quel mi sembra?… e perché mi turba tanto l’avercelo messo?’ I due pensieri gli balenarono in un punto solo.»

Il percorso interiore che Rascolnicov compie dopo il delitto, più volte paragonato al Calvario, inizia quando egli, dichiaratamente ateo, chiede a Sonja Marmeladova di leggergli l’episodio evangelico della resurrezione di Lazzaro. Sonja, una ragazza poverissima costretta a prostituirsi per mantenere il padre alcolizzato, la matrigna tisica e i fratellastri, diviene da quel momento la “Beatrice” di Rascolnicov: dolce e serena anche nelle avversità, amorevole nei confronti del prossimo, amata e rispettata da tutti coloro che entrano in contatto con lei, sorretta da una fede incrollabile e da una morale altrettanto solida, con ostinazione persegue lo scopo di redimere l’uomo di cui si è innamorata nell’intuirne la sofferenza.

«Rascolnicov la osservava intento. Un visino smagrito e pallido, abbastanza irregolare, angoloso, sporgenti il mento ed il naso. Non la si poteva dir bella. Gli occhi cilestri però erano cosí limpidi e conferivano al viso, nel momento dell’animazione, una espressione cosí semplice e buona, che involontariamente attraeva. Un tratto speciale e caratteristico era poi questo, che ad onta dei suoi diciotto anni, pareva quasi una bambina nei lineamenti, nella timidezza, nella voce, nei gesti, che qualche volta facevano perfino sorridere.»

Sonja, la prostituta che è riuscita a mantenere nonostante tutto il proprio animo puro, cercata e nel contempo respinta da Rascolnicov, amata e odiata, diviene per lui l’immagine vivente di quella fede e di quella coscienza, rispondente alla morale comune, che il superuomo nichilista vorrebbe e dovrebbe sdegnosamente rifiutare.

Come Sonja, tutti i personaggi di Delitto e castigo gravitano attorno a Rascolnicov, del quale, anche quando ne sono gli antagonisti, subiscono il fascino; nonostante egli sia l’indiscusso protagonista, ciascuno di essi è tratteggiato con precipue caratteristiche psicologiche: la madre, Pulcheria Alessàndrovna, definita “timida e cedevole” ma dagli incrollabili principi; il fedele e bistrattato amico, Rasumihin, saggio, dotato di senso pratico, altruista, «un giovanotto straordinariamente allegro, franco, buono fino alla semplicità» che «nascondeva un carattere nobile e un sentimento profondo»; l’affascinante sorella Dunia, decisa ad immolarsi per Rascolnicov sposando un uomo che non ama, Pietro Petrovic Lugin, l’unico personaggio completamente negativo del romanzo, un gretto avvocato affarista forse modellato su Pavel Petrovic Lyzin, l’implacabile creditore che aveva chiesto il sequestro dei beni di Dostoevskij…

I personaggi vengono inizialmente evocati con pochi tratti, ma essenziali. Essi spesso prendono vita dalla descrizione di uno sguardo, come il Fra Cristoforo di Manzoni «Due occhi incavati eran per lo più chinati a terra, ma talvolta sfolgoravano, con vivacità repentina”; basti pensare agli “occhietti cattivi” dell’usuraia o allo «sguardo pensoso […] tratto tratto solcato da un lampo di follia» dell’alcolizzato Marmeladov. Il teorico russo Michail Bachtin ha efficacemente definito Delitto e castigo “romanzo polifonico”, in quanto in esso, a differenza dei “monologici”, i personaggi non rispecchiano il punto di vista dell’autore, ma sono portatori di un’autonoma visione del mondo, che emerge non tanto dalle azioni che compiono, quanto, soprattutto, dall’interazione con gli altri, in un costante dialogo che prevale nettamente sulle parti descrittive.

Due sono i luoghi in cui troviamo prevalentemente Rascolnicov: il misero alloggio che ospita i suoi deliri e le strade di Pietroburgo, che egli percorre incessantemente quando non è recluso nella propria stanza. Pietroburgo, dove convergono tutti i personaggi, è qui una città in cui il denaro, o piuttosto la sua mancanza, è al centro dei pensieri e della vita dei personaggi: all’ostentata ricchezza di pochi fa da contraltare la miseria di tutti gli altri, efficacemente evocata da una dettagliata rappresentazione dello spazio, dalle strade buie, spopolate e fangose, alle squallide osterie, agli interni angusti, poveri e maleodoranti, in cui una popolazione affamata vive in condizioni di promiscuità.

Le vicende si svolgono in un breve arco temporale (poco più di un anno, il 1865) e il tempo della narrazione, dato l’impianto dialogico del romanzo, tende a coincidere con quello della storia, tranne che nella parte conclusiva, dove un’ellissi di nove mesi, fra l’ultimo capitolo e l’epilogo, precede un’accelerazione, con una conclusione che lascia spazio alla fantasia del lettore:

«Questo formerebbe materia di un altro racconto, ma il racconto attuale ha qui fine.»

Nell’edizione Carabba di Delitto e castigo (1921), la traduzione italiana è di Federigo Verdinois (1844 – 1927), la cui biografia, a cura di Paolo Alberti e Catia Righi, è presente su questo sito al link https://liberliber.it/autori/autori-v/federigo-verdinois/. Verdinois, instancabile traduttore di opere inglesi (Dickens, Shakespeare, Wallace, Wilde), francesi (Hugo, Theuriet), tedesche (Wagner) e polacche (Sienkiewicz), si è dedicato in particolare ai grandi narratori russi dell’ottocento come Gogol’, Gor’kij, Puškin, Tolstoj, Turghenieff e soprattutto Dostoevskij (Povera gente, I fratelli Karamazov, L’adolescente, L’idiota). Ha tradotto inoltre Che fare? di Černyševskij, pubblicato in Russia nel 1863, (https://liberliber.it/autori/autori-c/nikolaj-gavrilovic-cernysevskij/) che colpì e condizionò non poco Dostoevskij, tanto da spingerlo a creare, proprio in contrapposizione ai personaggi del celebre romanzo socialista, il suo Rascolnicov, “il nichilista sventurato” nel cui animo, dopo una lotta fra vita e teoria, “è la vita a riportare la vittoria” (N. N. Strachov).

Questa traduzione, benché più che centenaria, risulta tuttora apprezzabile per scorrevolezza e leggibilità, nonché per la fedeltà al testo originale. Non mancano però, in un lavoro monumentale come questo, piccole pecche, che possiamo notare ad esempio nell’incipit:

«In una sera caldissima del principio di luglio, un giovane uscí dallo stambugio dove stava a retta nel vicolo S.***, e a passi lenti e risoluti si avviò verso il ponte di K***.»

Qui il termine russo каморки è stato reso con il toscanismo “stambugio”, al quale altri traduttori hanno preferito “stanzuccia” (Alfredo Polledro, Einaudi, 1947) e i più moderni “stanzino” (Maria Serena Prina, Mondadori, 1994) ostanzetta(Vittoria Carafa De Gavardo, Newton Compton, 1994); invece медленно, как бы в нерешимости, letteralmente “lentamente, come se fosse indeciso” è stato erroneamente tradotto con “a passi lenti e risoluti”.

Sinossi a cura di Paolo Alberti

Dall’incipit del libro:

In una sera caldissima del principio di luglio, un giovane uscí dallo stambugio dove stava a retta nel vicolo S.***, e a passi lenti e risoluti si avviò verso il ponte di K***.
Scendendo le scale, gli venne fatto di poter cansare l’incontro della padrona di casa. La sua cameretta era in soffitta di un fabbricato a cinque piani, e piú che ad una camera somigliava ad uno stipo. La padrona abitava al piano immediatamente sottoposto, e la sua cucina, sempre spalancata, dava sulle scale. Ogni volta che il giovane usciva, gli toccava passarvi davanti, ed era assalito da una timidezza morbosa, che lo irritava e lo faceva arrossire. Con la padrona di casa era indebitato fino alla cima dei capelli.
Non già che fosse pauroso o accasciato: tutt’altro: era bensí da un po’ di tempo in uno stato di tensione e di suscettibilità, non dissimile dall’ipocondria. A tal segno s’era isolato e chiuso in sé, che ogni sorta d’incontro lo turbava. Stretto dalla povertà, non pareva accorarsene gran fatto. Non si occupava piú delle sue faccende. Della padrona di casa non aveva in sostanza nessunissima paura, checché quella mulinasse contro di lui.

Scarica gratis: Delitto e castigo di “Fëdor Mihajlovič Dostoevskij.