Gaber è morto il 1 gennaio del 2003. Tanti vip e politici resero omaggio al cantautore. Tutti lo lodarono. Sì. Ma lui che ne avrebbe pensato di loro? Inoltre a distanza di venti anni c’è forse qualche suo erede nel mondo della canzone? Assolutamente no. Forse oggi i produttori discografici si disinteressano dei nuovi Gaber, tutti intenti come sono a trovare cantanti fighetti che scrivano, interpretino canzonette commerciali. E poi il pubblico è cambiato da allora e forse oggi non riceverebbe, non raccoglierebbe certi messaggi impegnati! L’ultimo lascito di Gaber è stato un album registrato in studio “Io non mi sento italiano”: 10 brani scritti con Sandro Luporini, di cui 6 inediti. Gaber era assurto alla fama nazionale grazie alla televisione, ma all’apice della popolarità scelse il palcoscenico, inventando addirittura un nuovo genere: il teatro-canzone. Eppure erano in molti a canticchiare in quegli anni la “Ballata del Cerruti Gino” o “Lo shampoo”. Tra i suoi spettacoli ricordiamo “Dialogo tra un impegnato e un non so”, “Far finta di essere sani”, “Libertà obbligatoria”, “E pensare che c’era il pensiero”.

Eclettico, versatile sapeva cogliere la complessità del mondo circostante in tutte le sue sfaccettature. Gaber sapeva descrivere con felici bozzetti l’Italia senza stilizzazioni. Era un artista così sensibile da carpire elementi e spunti da svariate fonti. In canzoni come “I borghesi” ad esempio è possibile intuire il gioco di assimilazione e innovazione che ha suscitato in lui tale lavoro. Gaber era un uomo di sinistra, ma soprattutto era un libero pensatore lontano dai dogmi e dalla retorica di qualsiasi partito politico. Nella sua celebre canzone “Il tic” aveva raccontato in modo esemplare la mortificazione del lavoro moderno nelle catene di montaggio, che negava qualsiasi tipo di autorealizzazione dell’individuo. Gaber con un testo graffiante e la sua bravura nel fare il mimo metteva in risalto la divisione del lavoro e la parcellizzazione di esso. Lo stesso Marx aveva scritto ne “Il capitale” che il lavoro “diventa lavoro-macchina, l’abilità del singolo diventa sempre più infinitamente limitata e la coscienza degli operai della fabbrica viene degradata fino all’estrema ottusità”. Un artista non deve essere un discepolo, ma un testimone scomodo della sua epoca. Giorgio Gaber lo è stato con la sua perenne analisi spietata della realtà. E’ stato anche un intellettuale, a cui ha fatto riferimento la sua generazione e non solo. E’ stato tale perché era una delle poche coscienze critiche che vegliavano sulla penisola. Certo l’ultimo Gaber non era piaciuto ad alcuni, che ritenevano che con i suoi ultimi brani facesse male alla sinistra.  E’ riuscito a ogni modo a raccontare i sogni della generazione del ’68, di quel maggio francese, che non ha coniato soltanto slogan come “l’immaginazione al potere”, ma che ha operato un rinnovamento totale della cultura contemporanea, trasfondendo nuovi slanci di vitalità e nuovi ideali. Erano gli anni della denuncia della crisi dei vecchi valori, del sentirsi parte comune; gli anni delle occupazioni nelle università e delle uova lanciate alla prima della Scala.

In una sua canzone “La libertà” Gaber cantava: “La libertà non è star sopra un albero,/ non è neanche il volo di un moscone,/ la libertà non è uno spazio libero,/ libertà è partecipazione”. E in questo stare insieme, in questo collettivismo i suoi coetanei avevano creduto ciecamente per tutta la giovinezza. Ma se l’erano dimenticato con il sopravvenire della maturità. Ecco perché recentemente Gaber a conti fatti aveva detto a tutti che la sua generazione aveva perso: gli ideali più nobili, come l’aspirazione all’uguaglianza e la difesa dei diritti dei più deboli, erano stati traditi dal conformismo, dalla pigrizia intellettuale, dall’opportunismo e dal solito machiavellismo all’italiana. In “Qualcuno era comunista” il cantautore scrive: “Da una parte l’uomo inserito che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana e dall’altra il gabbiano senza più neanche l’intenzione del volo perché ormai il sogno si è rattrappito. Due miserie in un corpo solo”. Ma forse il problema sta a monte. Forse quella generazione aveva perso perché non era riuscita a trovare un giusto equilibrio tra solitudine e partecipazione collettiva. Gaber l’aveva intuito infatti scriveva in “La solitudine”: “La solitudine non è mica una follia,/ è indispensabile per star bene in compagnia”; però allo stesso tempo avvertiva anche che “l’uomo non è fatto per stare solo” e che “il suo bisogno di contatto è naturale,/ come l’istinto della fame”. Forse i giovani di allora avevano creduto utopicamente che il senso di appartenenza potesse bastare, non ritagliando spazi di individualismo, che sono salvifici per il senso critico di ognuno. Ma allora erroneamente si era creduto che i problemi individuali, i propri tarli e le proprie fisime potessero scomparire al cospetto del gruppo. E Gaber infatti canta in “Far finta di essere sani”: “Per ora rimando il suicidio/ e faccio un gruppo di studio,/ le masse, la lotta di classe, i testi gramsciani,/ far finta di essere sani”.

Gaber era capace di far riflettere persone di ogni strato sociale, di ogni retroterra culturale e di ogni orientamento politico. La sua produzione è davvero ampia e nell’arco di essa colpiscono i suoi testi, che hanno sempre dignità letteraria e non sono mai scontati. Ti spingono sempre a rielaborare le tue opinioni, addirittura talvolta alcuni punti che ritenevi fermi nella tua visione del mondo vengono scardinati con il sapiente uso della sua ironia. Le sue provocazioni sono sempre intelligenti, le sue istantanee della realtà riescono a catturare sempre le angosce dell’inconscio collettivo. Gaber mostra i falsi idoli e i paradossi della democrazia nostrana, mette a nudo sé stesso e rende pubbliche le sue incertezze e i suoi smarrimenti: incertezze e smarrimenti che sono di tutti coloro che non hanno ancora portato il cervello all’ammasso. Meglio di un sociologo sapeva osservare e criticare le mode e i costumi degli italiani. Forse ad alcuni benpensanti questa sua sagacia non piaceva affatto, perché nelle sue canzoni potevano specchiarsi e vedere di rimando l’immagine dei loro vizi e difetti. Gaber toglieva qualsiasi belletto, qualsiasi perbenismo di facciata. Lo faceva anche nei confronti di sé stesso con una sincerità disarmante.

Nella vita privata era schivo e riservato, sul palcoscenico invece diventava un attore con una non comune capacità interpretativa. Gaber era una stella polare, capace di indicare la strada maestra. Se eri disorientato, bastava ascoltare il suo nuovo album e capivi subito le indicazioni, riuscivi a leggere e a decifrare i malesseri del nostro tempo in un modo inaspettato. Faccio alcuni esempi. In “L’audience: “”Ma sì, in questo “spappolamento” generale politica, cultura, spettacolo, tutto, non sono le idee che contano, no, non è la visione delle cose, no, non è la qualità dell’impegno, no, è l’astuzia del mestiere, è la bravura che conta, ma che vi dico la bravura, che conta, che conta è…l’audience ! Si fanno le statistiche, i sondaggi di opinione, le indagini di mercato e alla fine hit-parade!”

In “C’è un’aria”: “Ma la televisione che ti culla/ dolcemente/ presa a piccole dosi/ direi che è quasi un tranquillante/ la si dovrebbe trattare in tutte le famiglie/ con lo stesso rispetto che è giusto avere/ per una lavastoviglie”. E infine in “Si può”: “Con tutte le libertà che avete, volete anche la libertà di pensare?”