Si tratta di un breve testo, suddiviso in capitoli, a loro volta molto brevi.

Non c’è una narrazione continua, anzi non c’è propriamente una vera e propria narrazione, nel senso comune del termine: i singoli capitoli sono piuttosto dei quadretti (sostanzialmente autonomi), all’interno dei quali l’autore presenta episodi di vita (presumibilmente vissuta), descrizioni, suggestioni, riflessioni, paesaggi.

Ecco, forse talvolta viene proprio da pensare che i protagonisti, piuttosto che esseri umani, siano proprio gli sfondi naturali, nella loro immediata presenza oppure stravolti a causa della guerra. Questa è una delle caratteristiche salienti di un testo dove la natura non si mostra mai come un palcoscenico dove gli uomini agiscono, ma propone sempre metafore a chi la osserva, vive e partecipa delle vicende umane interagendo in modo profondo e misterioso: ecco perché lo stile della scrittura potrebbe definirsi una sorta di “prosa lirica”, pur non essendo esplicitamente “poetico”.

I diversi capitoli potrebbero idealmente suddividersi in tre gruppi: un primo, in cui l’autore richiama i luoghi della propria infanzia; un secondo, in cui si intuisce un narratore più maturo; un terzo, in cui si mostra la distruzione della guerra. Ma invano si cercherebbe di individuare una collocazione sequenziale.

Non manca qualche momento più “rilassato” e divertito, nelle poche allusioni ad approcci amorosi, più o meno occasionali. Ma nel complesso, la prosa sempre “alta”, il tono elevato e “allusivo” (si vedano per esempio gli esergo ad inizio di alcuni capitoli) e i termini ricercati e talvolta inusuali richiedono una lettura lenta e una tensione costante da parte del lettore.

Sinossi a cura di Roberto Rogai

Dall’incipit del libro:

Questo è il piazzale dove giocavo fanciullo.
Tutto ammassato di luce bruna, mosso da monticelli e da buche, sembra una pasta di pane sformata a grandi colpi nei giorni della creazione e premuta qua e là dal gran pollice.
Vi passano le figure viventi tirandosi dietro un cencio d’ombra; ma non sono che un vacuo corteo di favole, atteggiati pastori di presepe: e anche la signorina fa vista al balcone, sfogliando i suoi sguardi azzurri lungo la proda delle case.
Per tutto un lato s’apre una chiesa in rovina, sgranata dal terremoto. Si vede uno spicchio dell’abside con la raggera di stucchi dorati, e il tetto si rovescia sugli archi vuoti di parete. L’immagine del presepe insiste, perchè qui nessuno vede o è veduto: come se lo guardasse soltanto un dio inesorabile, l’iddio che sgretola tutto con l’unica pupilla canicolare.
E io ho vergogna di vedere la miseria di questi viventi. Stanno come se non sapessero d’esserci. Ciascuno porta un piccolo pozzo d’ombra fresca dentro di sè, e vi sta sempre affacciato. I volti sono maschere rovesce, gettati all’indietro dall’urto del sole; e a taluno gli occhi colano dentro come lunghe vive lagrime a toccare il sorso di quell’acqua nera e segreta.

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