Mi sono ucciso oggi, a 24 anni.
Lavoravo in fabbrica, alla catena di montaggio, come uno schiavo. Mettevo insieme componenti per i computer e per i cellulari. Ogni tanto scrivevo poesie. Lavoravo e facevo ricca la mia città, che trent’anni fa era solo un paese di pescatori.
Molti miei compagni di lavoro si sono uccisi prima di me, uno dopo l’altro. Quando c’era tanta richiesta lavoravamo anche 12 ore al giorno, con poche pause brevissime. Nei pochi momenti di riposo bevevamo birra, fumavamo, giocavamo ai videogiochi. Lavoravo in uno spazio piccolo, umido, senza la luce del sole.
Però ogni tanto scrivevo poesie, e mi piaceva.
Come molti miei amici a vent’anni ho lasciato il mio paesino per venire a lavorare nella grande città, Shenzhen. Ma 12 ore di lavoro ti fanno a pezzi, ti fanno impazzire, è per questo che tanti miei compagni si sono suicidati.
Mi piaceva scrivere poesie, mi piacevano i libri. E così ho provato a farmi assumere nella biblioteca della fabbrica, ma non mi hanno voluto. Allora ho provato a farmi assumere in una libreria, e non mi hanno voluto. E così mi sono ucciso. Vi lascio questa mia poesia:
Una vite è caduta al suolo
in questa notte di lavoro fuori orario
è precipitata in verticale, tintinnando leggermente.
Non attirerà l’attenzione di nessuno,
proprio come quando qui davanti
in una notte identica a questa
qualcuno cadde a suolo.
Xu Lizhi, 30 settembre 2014, 24 anni, Shenzhen, Cina
Fine.