Chioma d’argento.

di
Emma Perodi

tempo di lettura: 10 minuti

C’era una volta un re e una regina. Questa ogni anno metteva al mondo una figliola. In capo a cinque anni ne aveva cinque, tutte belle come tanti occhi di sole.

La regina era orgogliosa di quella bella figliolanza, il re pure, e vivevano felici come pasque in un palazzo che era una meraviglia. Ma la notte che la quinta figliola compiva cinque anni, comparvero sul tetto del palazzo cinque cornacchie nere nere, e da quella notte la regina incominciò a dimagrare, e a doventar malinconica. In pochi giorni si ridusse che pareva una vecchia.

Il re era disperato e ordinò che quelle cornacchie fossero uccise. Era sicuro che dovevano essere cinque maghe invidiose della sua felicità. Ma appena una delle guardie saliva sul tetto per eseguire l’ordine del re, le cinque cornacchie volavano in alto e di lassù si mettevano a gracidare:

Fai fai
Vive non ci piglierai.

Intanto la regina languiva sempre; s’era ridotta sulle cigne. Non apriva gli occhi altro che quando le cinque principesse andavano a passeggiare, perché allora le cornacchie volavano dietro alla minore di loro.

Il re non sapeva quel che fare. Adunò tutti i savi del regno; gli chiesero un po’ di tempo prima di dare il loro parere. Finalmente uno di essi, a nome di tutti, disse:

— Maestà, qui c’è una malìa; bisogna cercare di uccidere le cornacchie.

— E il mezzo? — domandò il re impazientito.

I savi si guardarono in faccia. Il mezzo non lo sapevano davvero.

Il re cadde in una cupa malinconia; non poteva veder soffrire la regina in quel modo, preferiva la morte.

Pensa e ripensa credé alla fine d’aver trovato il mezzo di distruggere le cornacchie. Fece avvelenare tanti polli, e quando furon morti li fece gettare sul tetto. Le cornacchie li avrebbero mangiati e sarebbero crepate.

Ma il re aveva fatto male i calcoli. Le cornacchie invece di precipitarsi sui polli, volarono in alto, e di lassù gracidavano:

Fai fai
Vive non ci piglierai
E morte non ci avrai.

Il re era disperato e la regina languiva sempre.

Pensa e ripensa credé d’aver trovato un altro mezzo. Vedendo che le cornacchie seguivan sempre la minore delle sue figliole, stabilì di allontanarla di casa. Gli piangeva l’anima di separarsene, ma delle figliole gliene rimanevano altre quattro, e se moriva la regina sarebbe morto anche lui.

Una notte mentre la principessina dormiva, la fece prendere e portare in un bosco, e lì la lasciarono sola.

Quando aprì gli occhi era sempre notte, una notte nera nera. A trovarsi sola, senza le sorelle, le si rizzarono i capelli dalla paura, e si messe a piangere come una vite tagliata. La luna ebbe pietà delle sue grida e comparve sull’orizzonte e sempre più le si avvicinava e il suo disco prendeva aspetto umano.

La luce della luna avvolgeva tutta la principessina. A un tratto le parve di vedere che la luna le facesse cenno di seguirla, e si messe a camminare. La luna alla fine si fermò davanti a una casina piccina piccina, e mandò tutti i suoi raggi dentro una finestrina larga quanto il palmo della mano.

Era la casina delle fate.

Vedendo tutto quel chiarore, le fate crederono che fosse giorno; si alzarono e vennero fuori dell’uscio colla calza in mano. Erano due donnine piccine piccine, con un gran scuffione in capo.

La principessina ebbe paura anche di loro e voleva fuggire, ma esse, con una vocina che pareva un filo, le dissero:

— Non ti faremo nulla di male, e se tu vuoi rimanere con noi, faremo morire le cornacchie e la tua mamma guarirà.

La principessa sentendosi dire in quel modo non fiatò più. Le voleva tanto bene alla sua mamma che per lei avrebbe fatto qualunque cosa.

Le fate la condussero in una camerina e le dissero di andare a letto e dormire, perché doveva essere stanca. La principessina obbedì e si addormentò. Nell’aprir gli occhi vide la luna sul letto che la guardava.

— Ti voglio regalare un po’ del mio chiarore — disse la luna — e i tuoi capelli crescendo saranno d’argento. Sei tanto povera che almeno tu abbia quella ricchezza — e la luna dopo quella fermatina seguitò la sua passeggiata notturna.

La mattina le fate vedendola, chinarono cinque volte la testa davanti a lei, e poi le dissero:

— Buon giorno Chioma d’argento.

Chioma d’argento si guardò intorno meravigliata. Nella notte i capelli le erano cresciuti tanto da coprirla tutta, e avevano davvero il bianco lucente dell’argento.

Chioma d’argento qua, Chioma d’argento là, le fate non si saziavano di guardarla, di ammirarla, e fra di loro dicevano:

— Prima si voleva farla far da serva, ma ora sarebbe un peccato. — Avevano paura che l’aria la sciupasse e il sole abbronzasse quelle carni di latte e sangue. Ogni giorno la colmavano di regali. Le avevano fatto un vestito di broccato celeste che era una bellezza, l’avevano condotta nel loro palazzo sotterraneo, tutto di cristallo di rocca e d’oro, ma Chioma d’argento era sempre malinconica. Chiamava le sorelle, la mamma e nulla valeva a rasserenarla.

Un giorno era in giardino che guardava tre funghi giganteschi, nati la notte, quando vide innalzarsi in aria due palle diafane e iridescenti come bolle di sapone. In una vedeva la sua mamma sana e robusta, in un’altra le sue quattro sorelle livide come tanti morticini.

Chioma d’argento si mise a piangere e pianse per delle ore di seguito. Tornarono le fate e la trovarono cogli occhi rossi.

— Che hai Chioma d’argento?

— È inutile che ve lo dica; da questo male non saprete mai guarirmi — e seguitò a piangere.

Le fate tennero consiglio. Chioma d’argento non doveva piangere; si sarebbe sciupata gli occhi, e volevano che crescesse sempre più bella per sposare il figliolo di un re che loro proteggevano.

Dopo tanto pensare decisero di addormentarla e rinchiuderla nella più bella stanza del loro palazzo di cristallo di rocca e d’oro. Quando avrebbe avuto diciotto anni, l’avrebbero destata.

Una volta che Chioma d’argento si faceva vestire dalle fate, una di loro le conficcò nel cuore uno spillo d’oro. Cascò in terra come morta, e le fate le composero un letto tutto di fiori e costì l’adagiarono. Tutti i giorni cambiavano i fiori e stavano a custodirla come se fosse un tesoro.

Per tornare un passo addietro, appena Chioma d’argento fu portata nel bosco, le cinque cornacchie sparirono di sul tetto, e la regina ritornò sana e fresca come una rosa.

Il re era felicissimo, e ordinò grandi feste in tutto il regno.

Ma prima che i suoi ordini fossero eseguiti, si ammalò la maggiore delle principesse e morì. Dopo morta doventò nera come un tizzo spento. Nessuno seppe dire di che male era morta. Il giorno dipoi si ammalò la seconda e morì pure. Anche lei dopo morta doventò tutta nera.

In pochi giorni il re e la regina rimasero senza punte figliole.

La regina si struggeva in pianto. Che le faceva la salute, ora che non aveva più figliole? Voleva morire anche lei.

Il re non aveva più pace: mandò nel bosco a ricercare la minore delle figliole, ma le guardie tornarono senza averla trovata. C’erano tanti lupi in quel bosco, probabilmente se l’erano mangiata.

Passa del tempo.

Una notte il re vide in sogno una cornacchia che si posava sulla corona del letto e di lassù gracidava:

Chioma d’argento, Chioma d’argento
Dorme rinchiusa nel monumento.

— Chi è Chioma d’argento? — domandò il re. E la cornacchia a gracidare:

Per te ormai sarebbe morta,
Ma le fate l’hanno accolta.

Il re capì tutto e si destò. La cornacchia non c’era più. Ora voleva ritrovare la figliola a ogni costo, ma chi gli avrebbe detto dove stavano le fate?

Passa dell’altro tempo. Il re non sapeva che fare.

Un giorno che era seduto in giardino tutto malinconico, vede un giovane che si ferma a guardarlo. Il re gli domanda chi era e che cosa voleva. Glielo disse subito. Era povero e voleva far fortuna.

— Trovami la casa delle fate e riconducimi Chioma d’argento, e la tua fortuna è fatta.

Il giovane non si sgomentò e promesse al re di dargli presto notizie di sé e andò via.

Sapeva che nella Valle della Luce ci stava il Nano dal cavallo che indovinava tutto, e ci va.

Dopo un viaggio lungo, ma lungo, arriva alla Valle della Luce e trova il Nano dal cavallo, e gli espone lo scopo del viaggio.

Il Nano interroga il cavallo, ma il cavallo rispondeva sempre battendo colla zampa cinque volte il terreno, e alzando il muso in aria.

Il giovane non capiva; il Nano glielo spiegò: doveva camminare cinque notti di seguito, sempre dietro alla luna. Così sarebbe giunto alla casa delle fate. Poi doveva passare cinque grotte, sfondare cinque porte d’oro, e là avrebbe trovato Chioma d’argento.

Il giovane non sapeva come doveva fare a sfondar le porte. Il Nano gli dette cinque noci; ne doveva stiacciare una quando giungeva davanti alla prima porta e le altre dopo.

Camminò cinque notti dietro alla luna e arrivò alla casina piccina piccina delle fate. Ma era sgomento perché non sapeva dov’era il palazzo. Glielo insegnò la luna. C’era una buca larga sotto un castagno; questa buca conduceva in una grotta di pietra, la grotta metteva in un corridoio lungo lungo. In fondo al corridoio c’era la prima porta di bronzo del palazzo. Il giovane buttò in terra la noce e la porta si spalancò come per incanto, e rimase aperta.

C’era una seconda grotta di marmo, un altro corridoio lungo lungo, e in fondo una porta d’acciaio. Spaccò la seconda noce, la porta si spalancò e rimase aperta. C’era una terza grotta di alabastro, un corridoio lungo lungo, e in fondo una porta d’argento. Spaccò la terza noce, la porta si spalancò al solito e rimase aperta. C’era una quarta grotta di ametista, un corridoio lungo lungo e in fondo una porta di platino. Spaccò la quarta noce, la porta si spalancò al solito e rimase aperta. C’era una quinta grotta tutta di corallo, un corridoio lungo lungo e in fondo una porta d’oro. Spaccò l’ultima noce, la porta si spalancò e il giovane rimase abbagliato trovandosi nel palazzo di cristallo di rocca, scintillante come se fosse di diamante.

Passò per cinque sale una più bella dell’altra e giunse alla camera dov’era distesa Chioma d’argento sul letto di fiori, colla corona di regina in testa, e i capelli che toccavano terra.

La guardò. Non aveva mai visto una bellezza simile. Le toccò una mano: era fredda come il marmo. Fece per prenderla in collo e portarla via, e allora s’accorse dello spillo che Chioma d’argento aveva conficcato nel cuore. Glielo levò e la principessa aprì gli occhi e si alzò dal suo letto di fiori guardando in faccia il suo liberatore. Pareva che si destasse da un lungo sonno.

Il giovane le disse che il re e la regina desideravano di rivederla, e Chioma d’argento dopo essersi specchiata lo seguì e rifecero insieme tutto il cammino che egli aveva fatto solo.

Quando arrivarono alla buca che metteva alla prima grotta, trovarono il cavallo del Nano.

Chioma d’argento gli salì in groppa insieme col giovane, e il cavallo corri corri li menò nel cortile del palazzo reale, e sparì.

Il re e la regina appena videro la figlia così bella e grande, piansero dalla gioia. Il re non aveva coraggio di accostarsi a lei dal rimorso, ma Chioma d’argento gli buttò le braccia al collo e la pace fu fatta.

Non sapendo come meglio ricompensare il giovane, il re gli offrì la figlia in isposa, e furono ordinate gran feste, per celebrare le nozze. Chioma d’argento volle che alle nozze assistessero anche le due fate.

Ma queste, arrabbiate della fuga di Chioma d’argento, ruppero pentole, vasi e brocche, buttaron via la calza, si strapparono la cuffia e giurarono che il mondo è pieno d’ingrati.

Il giorno stesso delle nozze furono trovate le cinque cornacchie morte nel pozzo. Le fate avevano tenuto parola. I savi le esaminarono e riconobbero in esse cinque streghe malefiche.

Tutti mangiarono, bevvero e si divertirono, e io rimasi con un palmo di naso.

Fine.


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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Chioma d’argento
AUTORE: Emma Perodi
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Giornale per i bambini / diretto da Ferdinando Martini ; [poi] da C. Collodi. – Roma : [Tipografia del Senato], 1881-1883.
SOGGETTO: JUV038000 FICTION PER RAGAZZI / Brevi Racconti