Angelo De Gubernatis scrisse questa recensione per il romanzo Capelli biondi di Salvatore Farina, pubblicata su “Rivista Europea” nel 1875:

«”Per fare il bene non basta volerlo ma bisogna anche essere degni di farlo.” Questa grande verità morale che si trova sopra l’ultima facciata del volume, è dimostrata, in parte, dai fatti che si svolgono in esso. Un conte ch’è arrivato presso i quarant’anni, scapestrato, scioperato e dissoluto, ma che, infine ha un po’ di cuore e tanto ingegno che basti per comprendere come le dolcezze che si provano operando il bene sono superiori a tutte le ebbrezze, a tutte le voluttà nauseabonde de’ sensi, in un giorno di noia, fa un’azione buona; vede da un parrucchiere una giovinetta bella, graziosa, pudica, che consente di vendere per 20 lire i propri bellissimi capelli biondi, per comprare le ultime medicine a sua madre moribonda; il conte se ne commuove, trae fuori dal portafogli cento lire, e le scambia contro una sola ciocca di capelli alla fanciulla riconoscente. La madre muore; il conte continua ad annoiarsi; il giorno di San Corrado riceve un mazzettino di violette legato con una ciocchettina di capelli biondi; si risovviene, e, tanto per provare qualche cosa di diverso si risolve a pigliar sotto la sua protezione la fanciulla; le trova una casetta con giardino, una seconda mamma nella sorella del suo vecchio cameriere. Grazietta è felice, Grazietta si occupa di fiori e d’uccelli e canta, e cresce, splendida e pura. Il conte si compiace dell’opera sua; vede spesso Grazietta; si sente presso di lei diventare buono ed ingenuo, ama la poesia, ama la natura, ama la vita. Ma il conte ha dei compagni oziosi e viziati che lo deridono; e Grazietta ha una sorella (e qui forse, se volessimo indicare un difetto nell’invenzione, il Farina ci sembra aver ricorso ad uno de’ soliti effetti falsi del romanzo parigino alla Dumas figlio), una sorella di primo letto, la quale, senza che Grazietta lo sappia, fa la prostituta. Noi credevamo da prima che fosse proprio necessario all’intreccio del romanzo che Agnese fosse veramente la sorella di Grazietta; ma andando avanti ci siamo accorti del contrario; Agnese non fa proprio nulla per la sua sorella, fuor che toglierle lo sposo e precipitarla così alla tomba; questo avrebbe potuto fare ogni altra cortigiana, e l’idillio di Grazietta avrebbe guadagnato a rimanere intatto. Non è la sorella di Grazietta che distrae il conte, ma la cortigiana; la sorella, la protettrice di Grazietta, non avrebbe dovuto e potuto far altro che secondare la virtuosa inclinazione del conte, e rallegrarsi ch’ei pensasse a sposarla. Quella sorella cortigiana, invece, che toglie l’amico, il protettore, lo sposo, la vita alla sorellina che ama e protegge stuona un poco ed offende. Il romanzo non avrebbe perduto nulla se la parte d’Agnese fosse stata sostenuta da un’altra qualsiasi delle numerose cortigiane amate e poi abbandonate dal conte; il quale, in vero, dopo aver lasciato ed anzi fatto morire più presto col suo abbandono quell’amorosa Grazietta ch’ei volea salvare dai baci immondi de’ suoi compagni nella dissolutezza, abbandona pure la cortigiana Agnese, l’abbandona quando essa dice d’amarlo, quando si sente madre d’un figlio del conte, quando, in qualche modo, acquista un po’ di nobiltà, quando va a rifugiarsi in una valle subalpina, perchè nessuno possa dire o sapere che il figlio del conte è nato da una cortigiana. E quando essa si accorge veramente che il conte non l’ama più, gli raccomanda per l’ultima volta il figlio, e si precipita in un abisso alpestre e vi muore. Il conte Corrado compreso d’orrore e di pietà, raccoglie il figlio, si ritrae dalla società, ed ora vive beneficando in un villaggio alpino. Il conte avrebbe voluto far del bene a Grazietta, ma per non aver avuto la forza di troncare le sue vecchie abitudini, di rinunciare ai suoi vizii antichi, appena toccò quel fiore gentile, lo fece appassire più presto; essa voleva tutto l’amore di Corrado; il conte ne diede soltanto un briciolo, e Grazietta morì. Agnese avrebbe voluto far del bene a Grazietta; ma era troppo cortigiana per rinunciare a’ suoi capricci; e fu cagione principale della morte di Grazietta. Il conte amava Agnese, ma non abbastanza, per dedicarsi tutto a lei, per vincere le chiacchiere del mondo, per salvarla; non comprese quanto la cortigiana fosse capace d’amore, e la lasciò morire. La prostituzione uccide l’amore, spegne l’energia del bene; la tesi morale del Farina è sicura; i mezzi con cui la svolse ci parvero non tutti eccellenti; soverchiamente lunga e però pericolosa la introduzione, che può stancare il lettore prima ch’egli possa pigliare interesse all’intreccio che incomincia solo alla pagina 47; i volgari bisticci di Aniceto non possono interessare punto il lettore, ed il Farina poteva sacrificarli senza scrupolo; in un’opera d’arte come la sua, simili mezzucci d’effetto da salotto o caffè ci sembrano meno convenienti; dove invece il Farina si lascia trasportare dall’affetto, dove egli si ricorda d’essere poeta, non ci importa se in rima od in prosa, dove egli ci delinea con tocchi così delicati quel vecchio servitore Antonio, quella madama Valentina, co’ suoi canerini, quella Grazietta con tutte le sue grazie, il Farina si rivela un grande e delizioso artista. Ed anche parecchie scene ove Corrado è solo con sè stesso e torna sul suo passato, e si esamina e si ascolta, sono tracciate dalla mano d’un maestro. Il Farina s’inalza sempre quando fa l’arte propria, quando seconda le sue naturali inspirazioni alte e gentili; dov’egli vuol concedere qualche cosa a’ suoi critici per i quali ha pure scritto la prefazione, o al gusto di alcuni lettori, non osiam dire lettrici, che amano il puzzo del sigaro, e si mette a comporre qualche mezza pagina per essi, o quasi per essi, e ci pensa, corre rischio di mettere del mosaico in un bel quadro. Ed un bel quadro forma veramente questa malinconica storia di capelli biondi; quel che vi è forse di troppo può facilmente esser tolto via; ma il fondo del quadro ci pare eccellente.» A.D.G.

Io credo che sia certo che il “buonismo” tardottocentesco del quale fa sfoggio il Farina, teso costantemente a innestare lo sgorgar di lacrime di commozione fin dalla prima riga con inossidabili e monolitiche linee-guida che si guardino bene dallo sconfinare dai valori medio-borghesi dell’epoca, non possa che far sobbalzare o, al meglio, sorridere benignamente il lettore di oggi. La “consapevolezza di genere” (gender-conscious) consolidatasi ormai quasi a ogni livello fin dalla fine del XX secolo ci porta a rapportarci con spirito documentaristico d’epoca con questo tipo di narrazione, ricca di personaggi femminili scialbi che trovano una loro collocazione solo nel pervasivo paternalismo che permea ogni pagina. Ma non solo nella nostra epoca; Farina era già visto come un “pezzo da museo” agli inizi del ’900. Trovo in un articolo di Ettore Janni sul “Corriere della Sera” del 22 giugno 1910 questa riflessione:

«Perché se si potessero fare divisioni nuove – ma non più arbitrarie – dei periodi storici e letterari, i romanzi del Farina, i migliori, dovrebbero essere detti contemporanei dell’epoca della buona cucina casalinga e del lento vivere fra le domestiche pareti: spetterebbe poi ai geologi stabilire se quest’epoca coincide con la miocenica o la pleistocenica…»

Certo è che i romanzi di Farina negli anni ’70 del XIX secolo erano tra i più letti. Ma mentre lui scriveva Il Tesoro di Donnina, Amore bendato e Capelli biondi, Verga scriveva Eva, Eros e Tigre reale. Esisteva un pubblico che l’editoria italiana stava scoprendo (e costruendo) e Farina che vedeva nel verismo “la scuola avversaria” (vedi La mia giornata. Dall’alba al meriggio) è un notevole interprete di questa fase. I suoi testi più noti raggiungono sempre almeno la terza edizione. E lui stesso viene designato dalla sua casa editrice per curare la collana “Scelta di buoni romanzi stranieri”. Il suo “reale quotidiano” resta in quella fase della storia letteraria il più tenace contrappositore alla “degenerazione naturalistico-verista”.

Sinossi a cura di Paolo Alberti

NOTA: Il testo è presente in formato immagine su Google books.
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Dall’incipit del libro:

«…. Un Santo buon figliuolo, che ha saputo collocarsi per benino nel calendario; un Santo a cui piacciono la baldoria, le mascherine, il veglione, le cene dopo il veglione e il resto dopo cena; un Santo che gongola tutto se per poco il suo giorno esce dalla sessagesima per entrare nella settimana grassa! Mi par di vederlo: stamattina è sceso dalla sua nicchia ed è andato a ringraziare Sant’Ambrogio, a cui deve se oggi gli è rimasto un cantuccio del mondo cattolico dove sottrarsi alla predica ed al digiuno. Sant’Ambrogio gli ha stretta la mano e gli ha risposto che tra Santi….»
Vedendo che nessuno ride, Aniceto interrompe la sua ghiotta eresia, crolla le spalle, vuota d’un fiato un lungo bicchiere di sciampagna e si lascia andare sulla poltroncina, dicendo in un’ottava più bassa: «Viva San Corrado!…»
‒ Evviva! risponde una voce femminina, poi tutto tace.
L’ampia sala è piena di luce; un’idra di bronzo, che pende dalla vôlta, cava da cinque teste altrettante lingue di gas che bisbigliano confuse parole; quattro grossi ceppi abbracciati nell’ampio camino, si dibattono, sfavillano, barcollano con un rotto gridìo come fanciulli che prolunghino un giuoco.

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