Caccia all’anatra
di
Grazia Deledda
tempo di lettura: 7 minuti
Il vecchio guardacaccia aveva ricorso al classico trucco dei mariti che si ritengono traditi; aveva detto alla sua nipotina Betta che, dovendo recarsi al paese per affari, sarebbe ritornato solo verso sera.
— E se per caso capita qui il signorino sii, come sempre, servizievole e obbediente: ma niente confidenze, mi raccomando; né a lui né al suo autista: non è gente che fa per te. Sta con Dio.
E con Dio, ma un Dio sospettoso e cupamente iracondo, egli adesso se ne stava fra i giunchi e le pietre verdi e viscide della riva dello stagno che i suoi antichi padroni avevano scavato artificialmente per completare la tenuta da caccia sotto la vecchia villa gentilizia che adesso era quasi ridotta a una bicocca.
Egli la vedeva, dal suo nascondiglio, grigia e screpolata, con le loggie che si sfasciavano, il tetto ricoperto di erbe e i cornicioni sdentati, dove le cornacchie trovavano i loro rifugi. Anche il parco era diventato tutta una cosa col bosco di lecci barbuti intorno: solo si salvava la casetta sua, del guardacaccia, bianca e marrone, accovacciata come un cane fedele a fianco del cancello chiuso: un filo di fumo saliva dal comignolo, su fino al cielo lattiginoso di febbraio, e bastava quel segno di vita per rallegrare il luogo melanconico. Ma il cuore del vecchio non si rallegrava. Ogni tanto gli sembrava di sentire la tromba dell’automobile del suo giovine ultimo signore, e provava un senso, se non di spavento, di panico, simile a quello dei volatili acquatici che popolavano lo stagno e si alzano pesanti a volo cercando di salvarsi; poiché anche lui dal tempo dei tempi, e adesso più che mai, forse per un istinto ancora più naturale di mescolanza, quasi di parentela con la selvaggina da lui coltivata e custodita, sentiva un oscuro pericolo al contatto dei padroni, signorotti che a loro volta conservavano tutto il loro carattere di dominio primordiale, e, quando poi erano a loro volta dominati dal freddo furore della caccia, partecipavano al selvaggio carattere degli animali da preda. C’era stato un periodo, dopo la morte dell’ultimo signore, in cui il vecchio aveva creduto, non senza però un certo rimpianto e la nostalgia delle ère chiuse per sempre, che la sua vita oramai poteva considerarsi come quella di un servo pensionato. La tenuta era sempre sotto la sua tutela, ma affidata a miti cacciatori di città, che non gli prodigavano rimbrotti e insulti: finché un giorno, con uno di questi, bonaccione e buontempone, era venuto, così per svago e curiosità, l’ultimo erede, esile e biondiccio, che reggeva il fucile da caccia con lo spavaldo e innocuo divertimento dei ragazzi che maneggiano quello portato dalla Befana.
Ma fu una bella giornata che rinnovò quasi i fasti sonori delle battute da caccia quando gli amici dei signori arrivavano a cavallo, con le ondate tumultuose dei cani frementi, e le trombe squillavano come ai tempi di Carlo Magno.
Vi fu un banchetto; stridettero gli schidioni feudali della cucina linda della piccola Betta, e la tavola fu imbandita sotto gli elci che avevano i fiori del colore dorato delle pernici.
E Betta, anch’essa svolazzante nelle vesti ancora corte, coi capelli iridati come le penne delle folaghe e gli occhi pieni della luce cangiante e liquida della foresta e dello stagno, versava il vino nei bicchieri stemmati ancora cerchiati da qualche filo di polvere delle credenze di quercia della villa, e volgeva il viso di profilo per nascondere nella bocca serrata un sorriso di beffa e di compiacenza per le paroline dei galanti cacciatori.
E il signorino era tornato altre volte, solo, per conto suo.
Il vecchio era da mezzo secolo al servizio dei signori, che lo avevano sempre maltrattato, non per voluta cattiveria, ma perché questo era il loro carattere. Le loro donne, a volte, si servivano delle donne del guardacaccia, ma sempre con la stessa indifferente lontananza dei padroni dai servi buoni e passivi: eppure egli non li odiava, e la fedeltà gli scorreva nel sangue come la linfa pura nell’acqua di sorgente. Inoltre era religioso come un eremita, del quale possedeva qualche sfumatura: una religione soffusa di credenze, se non superstiziose, certamente mitiche: conosceva gli alberi, le erbe, le fiere, gli uccelli, i cani, e ne sentiva le voci, le passioni, i dolori e le gioie. Tutto si animava, per lui, anche l’acque ferme e le pietre sepolte dalla vegetazione palustre: e il sole, la luna, gli astri, tutti gli elementi, gli rivelavano meglio che a un poeta, la loro natura divina.
Ma non amava, quasi non capiva, l’uomo. Gli si era mostrato sempre sotto un aspetto bestiale: padroni, servi, ladri di caccia, tutti lo avevano deluso e spaurito. Almeno con gli animali si sa come combattere: o almeno lui lo sapeva; e non lo stupivano le arti della volpe, e neppure la crudeltà necessaria del lupo: ma l’uomo, l’essere più vicino a Dio, egli non sapeva da qual parte prenderlo: persino i suoi figli lo avevano depredato, abbandonato e tradito: e adesso anche la nipotina, che egli aveva allevato, orfana ed ultima, come una cerbiatta alla quale è stata uccisa la madre…
Anche lei, adesso, trovava tutti i mezzi per incontrarsi col signorino, pur sapendo che egli la cercava solo per istinto di maschio. — Signore, buon Dio, — pregava il vecchio, piegato fra i giunchi, giunco pure lui in mezzo all’acquitrino della sua mala passione, — ci sarebbe, sì, il mezzo di salvarsi: andarsene, portarla via, lontano: ma dove si va, alla mia età? E mandarla via sola è ancora peggio. Possiamo forse correre alla ventura, come il cieco e la ragazza col piattino? Del resto la colpa è sua, di lui, del brigante vestito da cavaliere: egli sa bene quello che fa e che vuole, e ci considera né più né meno come questi palmipedi in tempo di caccia. Ma io ti darò una lezione, maledetto: una lezione che ti insegnerà come tirare il colpo anche con la mano sinistra.
La tromba dell’automobile, intanto, non si faceva sentire; ma le orecchie del guardacaccia erano tanto buone ancora da distinguere il fruscìo; e uno ne sentì, ad un tratto, lontano strisciante, minaccioso nel suo silenzio appunto come quello del passo del brigante che tesse i suoi agguati.
La tromba non risonava, no, per non dare l’allarme; eppure un’anatra si levò dai cespugli della riva, seguita dai suoi anatroccoli: erano tutti d’argento, con solo la cima delle ali orlata dei colori dell’iride: e i becchi a cucchiaio, gialli e lucidi come d’avorio.
— Ecco, — pensa il vecchio, — persino loro sentono il pericolo, e quella stupida no: è più stupida delle anatre.
Passò qualche momento: una incertezza quasi paurosa lo fermava nel suo covo, come fosse lui la vittima destinata al colpo del cacciatore: aveva sperato che questi, prima di ogni cosa, anche per salvare le apparenze, fosse sceso allo stagno per tirare qualche colpo; ma il tempo passava, e le cose intorno pareva partecipassero, immobili alla sua angosciosa attesa. Anche l’anatra, con la sua nidiata, si era di nuovo nascosta fra i cespugli.
Egli si drizzò, alto, col busto e la testa eretta come quella di un serpente: e gli occhi verdognoli ne avevano la luce velenosa: ma d’un colpo tornò a ripiegarsi, quasi stendendosi a terra. Aveva veduto il signorino, col suo vestito grigio stretto da una cintura di cuoio e il cappello verde con una penna di fagiano, affacciarsi alla porta della casetta, da vero padrone: poi sentì un lungo fruscìo nel sentiero che scendeva allo stagno. Scendeva, il giovine cacciatore; e il sole, liberatosi dal velo dei vapori mattutini, adesso faceva parer belle anche l’acqua stagnante e le erbe marce dell’acquitrino. Un fulgore di bontà brillò anche nella coscienza del vecchio. — No, — egli disse a sé stesso, — non bisogna commettere il male. Dio non vuole. Piuttosto ce ne andremo, io e la disgraziata; sì, mendicheremo se Dio vuole così; ma il male non si deve commettere.
Il fruscìo si avvicinava, e con esso una lieve vibrazione di voci e di risate sommesse. Egli riaprì gli occhi, e questa volta erano velati di sangue. Betta accompagnava il cacciatore; vestita di grigio anche lei, morbida e tremebonda come le anatre fra i cespugli.
Stette dritta alle spalle del giovane, mentre egli issava il fucile e chiudeva un occhio per pigliar meglio la mira. Ma era uno scherzo; poiché i volatili si erano tutti nascosti, e un silenzio, una immobilità come di morte dominavano intorno.
Il colpo vero, giusto e sicuro, lo tirò il vecchio: mirava alla mano destra del cacciatore; e la mano fu trapassata: ma un repentino movimento della ragazza l’aveva portata in avanti, e la palla andò a smarrirsi nel fianco di lei.
Fine.
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TITOLO: Caccia all'anatra
AUTORE: Grazia Deleddda
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: {Novelle} 6 / Grazia Deledda - Nuoro : Ilisso, \ 1996 - 278 p. - 18 cm. - Bibliotheca Sarda. Fa parte di: Novelle / Grazia Deledda ; a cura di Giovanna Cerina
SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)