Diego Conticello, Barocco amorale
(LietoColle – Collana Erato, 2010, € 13,00, SBN: 978-88-7848-592-1)
Barocco amorale: intervista a Diego Conticello
Alberto Carollo: Partiamo dal titolo di questa tua silloge, caro Diego. Conoscendoti so per certo ch’è un efficace quanto calzante biglietto da visita della tua poetica, ma cerchiamo di fornire qualche coordinata in più al lettore che ti voglia accostare. Il «Barocco» non allude solo alla tua formazione, alla tua provenienza geografica, ai tuoi studi su Lucio Piccolo. In quali accezioni qualifichi come «barocche» le tue composizioni? Per «amorale» alcuni commentatori rilevano che non sia da intendersi letteralmente, ma piuttosto un riferimento alla tematica amorosa come centralità del testo, peculiarmente anticonvenzionale e ri-codificata.
Vuoi fornirci qualche ulteriore precisazione al riguardo?
Diego Conticello: Le mie liriche sono «barocche» in primo luogo per la ricerca della parola rara, anticata, inusuale ai limiti del neologismo o addirittura della voluta storpiatura formale, del metaforismo che si vuole arrampicare sempre più in alto e, di conseguenza, in rischioso bilico sulla fragilissima fune dei pensieri e dello stupore.
E’ vero poi che l’aggettivo «amorale» è da intendersi come «amoroso», ma anche privo di catene eccessivamente moralizzanti che inibiscano ogni slancio di «amoralità» in tutta la sua pienezza.
AC: Il tuo è un canzoniere d’amore propriamente inteso: ricerca di un eterno femminino ma anche seduzione del corpo, sensualità e celebrazione della bellezza dell’amata. Altro motivo predominante è pure l’amore per la natura, per la tua terra d’origine, per una certa tipologia umana, per i tuoi sodali o modelli di riferimento. Quali altre nuances potremmo aggiungere? Secondo te come parla d’amore la tua poesia e come dovrebbe parlare d’amore la lirica contemporanea per non apparire frusta e di maniera?
DC: Certamente la sacralità dell’eros e della natura è talmente poderosa che non può contemplare nessun vitalizio con la religiosità degli antiquati rituali cattolici, che considero ormai privi di ogni suggestione o influenza, ma solo trite litanie superstiziose da cui liberarsi per riscoprire quella vera fedeltà che consiste nel rapporto festoso e totalizzante con la natura delle cose.
La mia poesia accoglie una visione viscerale dell’amore, in stretta armonia col vissuto, dunque prima di tutto parla di passione in modo autentico e mai distante. Nella poesia contemporanea (che poi è specchio della nostra realtà sociale) la parola viene giornalmente svilita per l’uso estremamente smodato di termini troppo comuni, cosiddetti «facili». Si assiste, ahimé in troppe letture, a banali tentativi di melenso romanticismo che neanche nei vecchi romanzi d’appendice trova ormai spazio. Poi la forzatissima operazione per cui leggiamo ancora testi in rima baciata fa il resto, dando la mazzata finale, imbrigliando la parola dentro universi limitatissimi che non le appartengono. Quindi prima di poter parlare d’amore è necessario saper parlare, saper scrivere (sbagliano coloro i quali pensano che abbisogni solo il talento, giova imparare ogni giorno, talvolta in maniera anche poco docile, lacerante).
AC: In una tua nota o Avvertenza in epigrafe alla raccolta scrivi: «La mia poesia è il tentativo di raccogliere l’acino migliore dal grappolo più buono». In effetti trovo che il tuo lavoro sulla parola sia il processo di un’elaborata selezione, di una volontà di pervenire ad un dettato minimale quanto ricercato, con una misura sempre brevilinea del verso. In quale direzione si muove la tua ricerca espressiva?
DC: Il mio è un tentativo (riuscito o meno spetta dirlo al lettore) di recuperare la centralità della parola, cercando di restituire significati anche nascosti, per così dire in via d’estinzione, talvolta con un simbolismo che possa caricare i termini di una «plurisensualità» che favorisca la massima apertura possibile del pensiero in quel determinato istante in cui la si legge. Ormai in poesia è stato detto tutto, del resto sono trascorsi tremila anni e più dalle prime manifestazioni del pensiero lirico, per cui la sola cosa che mi resta è la ricerca e la fede nelle assolute potenzialità della parola, non vedo altro nel mio orizzonte. Lo scheletro breve e privo di metrica mi aiuta a non sottostare a rigidi tradizionalismi che non mi appartengono, liberando la parola nella sua più sincera libertà.
AC: Da un punto di vista stilistico c’è in «Barocco amorale» un’attenzione quasi «spasmodica» al lessico. Da studioso di letteratura guardi con un occhio, consapevolmente, alla tradizione (Ramat nella sua prefazione parla di «Novecento aurorale») e con l’altro ti volgi al presente ed immediato futuro (del resto sei un poeta giovanissimo), sperimentando soluzioni volte a liberare la singola parola nella sua singolarità, addirittura coniando dei neologismi («pioggono», «ridace», «bluato», «sbercio» tra gli altri). Perché Diego Conticello avverte il bisogno di coniare nuove parole? Ritieni che l’italiano contemporaneo sia una lingua poco duttile dal punto di vista semantico o sono invece gli attuali parlanti ad aver abbassato il tono e la loro competenza linguistica?
DC: Tutt’altro. Ho troppa stima per la mia lingua natia per ritenerla abulica o superata. La lingua italiana è una miniera inesauribile di parole e, conseguentemente di significanti, di idee, tuttavia la si conosce ancora troppo poco e male. Il bisogno intimo è quello di ricercare originalità nella poesia e ormai, dal mio punto di vista, è possibile farlo quasi esclusivamente nell’ambito della parola. Peraltro sono rarissimi gli effettivi neologismi presenti nelle mie poesie, io parlerei piuttosto di «alterazioni di forme pre-esistenti». La vedo come una sorta di provocazione, affinché anche il lettore possa entrare in questoperverso ma fascinosissimo meccanismo e prendere in mano il vero «libro dei libri»: non la bibbia, ma il vocabolario, possibilmente anche quello etimologico, che permette di compiere il decisivo salto nel tempo verso le radici del senso, che oggi abbiamo purtroppo perduto.
AC: Lirica d’amore, abbiamo detto. Una domanda amorevolmente «cattiva»: il lettore distratto o il detrattore per partito preso potrebbero sostenere che un lucido controllo sulla resa formale «raffredda» in qualche modo la spontaneità, quel sentimento istintivo e immediato che la renderebbe più viscerale. So bene che il pathos non difetta alla tua parola, così come «l’emozione fugace che straripa dal crudo orizzonte giornaliero», ma cosa ti sentiresti di rispondere a queste possibili obiezioni?
DC: Quasi tutte le mie poesie nascono al massimo in 10 minuti: più sentimento istintivo di questo non saprei dove prenderlo! E’ chiaro che poi subentra una risistemazione formale, altrimenti saremmo ancora fermi all’odiosa insostenibilità del cuore/amore.
AC: La tua poesia è teatro di tensioni contrastanti, non dissimula quel «male di vivere» di montaliana memoria; anzi, si potrebbe affermare che varie tue composizioni creino perturbamento, se non disorientamento per un sagace uso della metafora, per l’utilizzo di volute disarmonie foniche: («Un salice teso / tira / a nodi corde / logore affilate, // ti sbercio / perduta desistere» p. 29; «Da queste grondaie / spanate / ho fatto veglia / allo sgorgo viola / di tre albe tristi» p. 61; «Chiama una lampada / accesa / a sondare / la linfa dei morti» p. 77). A volte la riflessione sulla condizione umana si raggruma in terrificanti istantanee, come in Ataviche lotte d’esistenza (p. 62), o si concentra in domande retoriche: «Quanto ancora / dovremo attendere / perché l’uomo capisca? / Quanto ancora, quanto / ancora?» (p. 53). Ritieni che la tua visione «cosmico-etica» sia improntata ad un pessimismo di fondo o ti senti più un concreto «realista» che registra le derive del paesaggio contemporaneo?
DC: Non posso rifuggire dall’amara constatazione sul sonno della società odierna, anelando al più presto quel definitivo risveglio della ragione che spinga finalmente l’uomo a staccarsi dal proprio retaggio animale, riappropriandosi di quelle vette del pensiero che purtroppo al giorno d’oggi scala solo di rado e con la lentezza di chi non possiede l’attrezzatura adatta nemmeno a sopravvivere e pertanto si trova sempre a fare i conti col baratro dell’iniquità. Spero solo di arrivare a vedere quantomeno un rampino e qualche corda solida che non lasci cadere gli «ultimi»!
AC: In «Barocco amorale» risalta con forza la dicotomia tra la Sicilia, tua terra d’origine, descritta «con le cosce fumanti / di sole, aperte», «il seno, notturno / soffio di zagara» e Padova, la città dove attualmente risiedi e stai completando il tuo percorso universitario: «città vecchia / adagiata / su opprimenti portici». Quanto è tenace il legame che ti lega alla Sicilia e come l’isola ha saputo nel tempo regalare alla nostra Letteratura opere di assoluto rilievo e d’imprescindibile importanza? Fai qualche nome.
DC: E’ come chiedere ad un neonato di staccarsi dal «seno» della madre. Crescendo gli resterà una qualche ancestrale reminiscenza e allora questa madre non vorrà lasciarlo andare, ma deve. Non c’è nessun abbraccio, per quanto amorevole, che non contenga inconsciamente il morso fatale di una regressione, di una «morte», necessariamente da fronteggiare, da oltrepassare!
Sarebbe troppo scontato parlare del meraviglioso estro naturalistico e rapsodico di Lucio Piccolo, ma dico Angelo Scandurra: un lirico puro, seducente nelle sue «incarnificazioni»terragne ed erotiche, che ricordano certa poesia ispano-americana (Neruda, Borges, Gòngora). Per la prosa non saprei, come direbbe Ignazio Buttitta «io faccio il poeta»! Due solamente, tra i più sviliti e dimenticati: Bufalino e Pizzuto.
AC: Alcuni critici ti hanno accostato all’Ungaretti dell’Allegria; altri ancora a Quasimodo e a Sandro Sinigaglia. «Non chiedetemi modelli» scrivi nell’Avvertenza ma io, da buon bastardello, ti vorrei comunque chiedere quali sono stati gli autori che hanno segnato in maniera indelebile la tua formazione di letterato e di poeta.
DC: Il primo amore d’ingenuo quattordicenne è stato Pablo Neruda, vero maestro nelle sue similitudini terra-donna: e il primo amore, si sa, non si scorda mai. Negli anni padovani è arrivato il Borges, sconosciuto come poeta, de L’oro delle tigri, che mi ha regalato l’uso insistito e inusitato della metafora continuata derivato, a sua volta, dagli antichi poemi scandinavi («Kenningard»). Poi la folgorazione quasi «elementale» per Lucio Piccolo, impagabile nei suoi scorci fisici e pittorico come nessuno, con una affine predisposizione all’immersione nell’abissale mare di quelle parole che qualcuno preferisce chiamare scarti, anticaglie.
AC: Com’è nato il sodalizio con Silvio Ramat, insigne cattedratico e altrettanto celebrato poeta e osservatore della scena culturale del XX Secolo, che ha scritto la prefazione al tuo libro?
DC: Quasi per caso. Ero in procinto, appena ventenne ma ormai troppo in ritardo, secondo i dettami di Giuseppe Tomasi, per riuscire a «smagarsi» dai bellissimi e pericolosi lacci che tende la mia isola, di trasferirmi a Padova quando, spulciando tra i nomi dei professori dell’ateneo, noto quel Ramat Silvio che al liceo leggevo nelle schede critiche sul Novecento. Una grande, inaspettata sorpresa! Come si fa, davvero poco ingenuamente, mi presentai con le bozze del mio inusuale volume di critica sulla poesia di Lucio Piccolo, costruito con delle fotografie che motivano i versi delle liriche (Lucio Piccolo. Poesia per immagini «Nel vento di Soave»). Deve averlo colpito molto se non ha esitato a scrivere, anche per quel libro, una postfazione allo studentello siciliano appena giunto in pianura padana. Soprattutto è stato lui ad indirizzarmi verso LietoColle.
La comune passione per la poesia, la sua estrema pacatezza hanno fatto il resto.
AC: In chiusura ci racconti brevemente della tua esperienza editoriale con LietoColle? È stata un’esperienza proficua per la tua attività?
DC: A posteriori credo di aver trovato il massimo che si possa pretendere. Certo niente si fa per niente oggigiorno, di questo un autore emergente, specie in poesia, deve essere preventivamente consapevole. Tuttavia il grande sforzo pubblicitario, la visibilità (sempre relativa al ristretto pubblico della poesia), l’affascinante veste editoriale con cui si presenta il libro, la cura maniacale dei dettagli, della grafica, della carta mi hanno ripagato pienamente. In soli sei mesi anche il riscontro critico,grazie alla loro vorticosa «motilità»,è stato proficuo. Cos’altro si può desiderare? Michelangelo Camelliti (l’editore)in breve tempo è diventato un intimo amico, mi ha accolto nella sua ‘casa’ come si farebbe con un figlio.
AC: Grazie Diego, auguriamo a «Barocco amorale» tanta fortuna ed a te lunga vita e prosperità (artistica ed umana).
DC: Grazie a te Alberto e grazie a tutti i potenziali lettori di poesia, sperando che crescano in numero e volontà.
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Diego Conticello. Nato a Catania nel 1984, vive e studia tra Padova e la Sicilia. Laureato in Linguaggi e tecniche di scrittura presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Padova, con una tesi sul poeta messinese Basilio Reale, è attualmente specializzando in Letteratura e Filologia moderna con un repertorio di poeti siciliani contemporanei (da Lucio Piccolo a Bartolo Cattafi, da Lucio Zinna a Nino De Vita, da Melo Freni ad Angelo Scandurra ed altri).
Nel 2004 ha condotto degli studi, con metodo concordanziale, sulle edizioni de L’esequie della luna di Lucio Piccolo, per la cattedra di Teoria della letteratura dell’Università di Catania. Fa parte del coordinamento tecnico del museo-laboratorio «Centro Lucio Piccolo di Calanovella» di Ficarra (Messina).
Nel 2009 è uscito, per i tipi di Cittaperta Edizioni, un suo saggio esegetico-biografico-figurativo dal titolo Lucio Piccolo. Poesia per immagini «Nel vento di Soave», scritto a quattro mani con Franco Valenti e con una postfazione del maestro Silvio Ramat.
Ha vinto alcuni premi di poesia inedita tra cui il «Roberto Bertelli» città di Pontedera e, più volte, il premio indetto dalla Fondazione Vitaliano Brancati «Parole e Segni» città di Catania.
Barocco amorale è la sua prima opera poetica di cui si sono già occupati numerosi critici, da Lucio Zinna ad Alfonso Lentini e ancora Angelo Scandurra, Maddalena Capalbi, Sebastiano Saglimbeni, Marzia Alunni, Fabio Michieli e altri.