Ha preso luce in questi giorni un interessante libro che affronta aspetti burocratici che accadono di frequente nel mondo del lavoro e di cui nessuno parla. Si tratta di una biografia in cui diversi lettori si potranno forse identificare, ovvero potrebbero trovare elementi e spunto per riflessioni inerenti al proprio mondo lavorativo: attuale o passato.
Sviluppato come un racconto, racchiude un percorso individuale che certamente sarà accaduto anche ad altri, magari con accadimenti ed esperienze consimili, comuni a tanti ambienti di lavoro.
Focalizza in pratica paradossi e ottusità che coesistono con la burocrazia, visitandoli però dall’interno e spesso con l’adeguata irridente ironia legata al farsesco e al paradosso.
L’ambiente narrato individua una istituzione facente parte della p.a. (per alcuni facilmente riconoscibile), ma i fatti potrebbero risultare comuni anche a quelle grandi realtà private che magari s’ispirano a principi e regole rigide che si basano su dogmi, che non ammettono errori, contestazioni o ancor meno dubbi e discussioni.
Leggendo non si avrà modo di annoiarsi, atteso che vengono poste in luce tante zone d’ombra che caratterizzano tanti dei “mostri sacri” comunemente presi a paragone e, inopportunamente, spesso pure ad esempio.
Per rendere un’idea del contenuto, si riporta di seguito l’efficace postfazione di Angelo Maria Giardi che riesce a mettere in luce le diffuse peculiarità delle tante storie, tipiche nei contesti palesemente poco incoerenti, sempre più vintage e inadeguati ai tempi.
Il libro, scorrevole e facile nella lettura, intenderebbe anche costituire un documento d’inchiesta ed è stato autoprodotto da Francesco Salvio con Youcanprint. E’ un poket che compone di 140 pagine è ha il modico costo di 14,5 euro.
Per chi è rimasto incuriosito e vuole andare avanti, troverà modo anche di divertirsi.
Quindi, buona lettura.
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Postfazione di Angelo Maria Giardi
In questo racconto lungo, in cui non si possono non ravvedere i tanti dettagli di una vicenda autobiografica, vi sono due canoni di lettura: uno che segue pedissequamente gli avvenimenti con il rischio di perdersi (e di annoiarsi) dietro le ricostruzioni dei singoli passaggi, l’altro di ricercarvi la chiave più controversa e sofferta del rapporto tra un impiegato e la sua organizzazione burocratico-gerarchica.
Nulla di nuovo si dirà, da Gogol a Cechov, da Kafka a Fantozzi. La storia dell’individuo che soccombe più o meno tragicamente, surrealisticamente o comicamente, davanti alle tante vessazioni di una vita di lavoro nelle strutture organizzative d’ogni tempo. La macchina che stritola, che annienta, che deve reprimere ogni pur mi- nima devianza.
Dove sta allora l’originalità di questo racconto? Sta nel rapporto di odio-amore verso l’istituzione, sta nella attrazione e nella repulsione dei suoi canoni. Sta nella meravigliata sorpresa di tanti incomprensibili comportamenti a danno del protagonista. Ma anche a danno di sé stessa. Sta nella pazienza e nella delusione. Ma sta anche nella difficoltà a rinnovarsi, nella più facile accettazione di strumenti organizzativi e gestionali vecchi, nel rifugiarsi nella sempre comoda gerarchia, dove il grado prevale sulla ragionevolezza, dove il comando non deve essere messo in discussione, sventolando la paura dell’anarchia.
Sono democratiche le organizzazioni? No, non lo sono. E sarebbe meno ambiguo se non ci si rifugiasse dietro pre- tese affermazioni di principi di libertà espressiva e comportamentale, cui non seguono i fatti. Chi ci guadagna da questa incapacità di promuovere rinnovamento? Di incanalare le risorse in un contesto di maggiore dinamica pro- positiva, di capacità di integrare la critica, di assorbire visioni sul momento distoniche e più complesse da reindirizzare? Nessuno ci guadagna. Le organizzazioni sono pigre, prima che autoritarie? Spengono gli entusiasmi e sprecano risorse. Appiattiscono, sviliscono, puniscono. E dicono di farlo in nome del merito. Contraddizione assoluta o vuota propaganda?
Ma come si misurano gli effetti, se non si calcola la ricchezza umana e professionale distrutta? Post hoc, ergo propter hoc. Tutto a posteriore si tiene e dei danni prodotti non si dà conto. E questo è tanto più paradossale, quando si parla di primarie istituzioni, di centri di eccellenza. Viene da chiedersi, se esistano davvero i centri di eccellenza e a quali costi professionali e umani eventualmente si realizzino. O sono più semplicemente espressione di po- sizioni di rendita?
Salvio è entusiasta per esservi entrato a farne parte, vuole dare il suo contributo, si adatta, con certi suoi rifiuti manifesta il desiderio di essere messo alla prova su terreni più difficili, ci sta a essere giudicato negativamente, se la prova fallisce. Subisce. Ma vuole contribuire, per sé stesso, certo (le ambizioni individuali sono più che legittime), ma soprattutto per l’organizzazione (lui, il più piccolo degli ingranaggi, comunque necessario in qualsiasi sistema).
È un ingenuo, un velleitario? Forse. Non capisce quali sono i muri da abbattere. L’accidia, le convenzioni, le convenienze, gli opportunismi, la scienza del precedente e del chi me lo fa fare, nei colleghi e nei superiori. Si batte, perde, si rialza, si batte ancora. E ancora perde. E se ne va. Ma non gli basta.
Da pensionato riesuma il passato, trova carte che gli ricordano la sua vicenda, riapre casi e ferite che hanno lasciato il segno nella sua carne impiegatizia, non si rassegna. Ma non deve farne una fissazione. E deve rimanere lucido. Non deve essere l’impiegato di Cechov, che muore, fisicamente e metaforicamente. Deve ottenere un successo, uno solo, dietro il riconoscimento di un errore di calcolo. Non una vendetta, un risultato.
L’organizzazione perfetta, il centro di eccellenza che sbaglia. L’organizzazione autoreferenziale che deve ammettere un suo deficit. Ecco l’ossimoro di cui va alla ricerca Salvio.
Mostrare la falla, piccola, di una pratica sbagliata, la determinazione della sua pensione. Pur sempre una falla. Una magagna, una défaillance.
Nessuno è infallibile. La lotta non finisce e il significato va al di là della ostinazione personale.
Se sbagli anche una volta, devi mettere nel conto l’errore. E devi prevederlo nella tua cultura aziendale e nei tuoi processi gestionali e produttivi. È cosa che può generare effetti positivi, ben maggiori del piccolo incidente: il granello che cambia la macchina della pigrizia istituzionale, della gerarchia fine a stessa, del potere che finisce per essere ottuso, perché vessatorio. O viceversa. Poco cambia.
In tutte le innovazioni che si vogliono introdurre nella gestione delle organizzazioni, della governance, della inclusione delle differenze, il tempo da dedicare alla virtù della critica è difficilmente contemplato, perché è più fa- cile ricorrere a espressioni che dal più popolaresco “Io so io…”del Marchese del Grillo al più nobile “aprez moi le deluge”del Re Sole, si arricchisce di quella di Trilussa, che si adatta meglio al mondo descritto da Salvio. Finché so forte, è forte la Nazzione. S’indebbolisce, se mi indeb- bolisco.
Il che si realizza, se anche i casi individuali si risolvono senza ricorrere alla muscolatura del potere. Che’ la vera ricchezza è il capitale umano. Organizzazioni di eccellenza o meno.