(voce di Luca Grandelis)

Riceviamo e volentieri pubblichiamo una recensione di Lorenza Ronzano.

A volte i racconti lasciano una traccia così grossolana nella mente del lettore da tarpargli la fantasia. Non la solleticano, la sfregiano. Sono racconti sbrigativi ed efficienti come il segno di Zorro sulla guancia del malcapitato, racconti che tirano dritto come un troncone autostradale verso la meta prevista: non una curva, piazzole di sosta ogni due chilometri, il paesaggio attorno come lo sfondo di un videogame. Certo, sono costruiti bene. C’è tutto un ponteggio retorico a sostenerli: stan su a furia di buon senso, chiarezza espositiva e semplici consequenzialità. E pare che queste impalcature retoriche attraggano a sé, omologandolo, ogni disturbo narrativo, e che neutralizzino ogni ambiguità del pensiero. Insomma, funzionano come un buco nero, in cui l’estro creativo va a spegnersi, e la letteratura a farsi fottere. Questo, per fortuna, non si può dire dei racconti di Candida. Questi della raccolta Bamboccioni voodoo (Historica, 2012), infatti, possiedono tutti il lusso della divagazione e dell’inessenzialità.

Ma che cosa intendo per inessenzialità? Si ascolti bene quel che sto per dire: dico che tutti questi racconti hanno il pelo di presentare al lettore tutto ciò che di superfluo ed effimero c’è al mondo, senza muovere un dito per nobilitarlo. Candida non si schifa davanti all’inutilità, alla bruttezza, alla banalità della vita. Anzi, le ascolta, ne prende atto. I suoi racconti assomigliano piuttosto alla registrazione del «rumore» che la vita emette in una determinata circostanza, che non al tentativo tutto umano di spiegare e comprendere quel rumore. Bene, signor Minzoni, è proprio questo il pagamento che mi prendo io: la soddisfazione di vedere come ogni volta sia tutto inutile, effimero, il soffio su un fiammifero (p.175).

Ecco che cosa dice Satana al «bamboccione» Oliviero Minzoni, nel finale di Hobson. Parole pacate, di contenuta soddisfazione, che costringono l’uomo a pensare, a prendere coscienza. Oliviero, come tutti gli altri «bamboccioni» della raccolta, ha smesso di pensare per sé, spacciando la propria pigrizia mentale per civico asservimento ai doveri sociali. È questo che succede anche all’inetto ingegner Russo, che comincia a decomporsi, colpevole d’aver mollato la propria vita a metà, come in una partita al videopoker cominciata male. Che sia l’intervento di Satana o un’improvvisa putrefazione della carne, l’elemento orrorifico arriva sempre a scrollare la coscienza dei «bamboccioni», foss’anche solo nell’unico modo possibile di farlo, e cioè togliendoli di mezzo con una malattia fulminante.

Sembra che nel cuore della vita, e all’intento di ogni racconto, ci sia una specie di beffa entropica che faccia andare tutto a pezzi. E se un uomo si azzarda a tentennare di fronte alla propria esistenza (Lui s’è preso la laurea tardi, a ventinove anni, e non perché non studiasse, ma perché forse aveva sbagliato facoltà, p. 21), di certo la natura non ci pensa due volte a dare una svolta al suo destino, con quelle sue tipiche manovre assurde, ma pur sempre verosimili: Il pover’uomo ha preso i sacchetti e ha ringraziato e, aprendo la bocca per dirmi «grazie» un dente gli si è staccato dalla gengiva ed è cascato nel sacchetto con la roba dentro, p. 20. Certo, ci sono storie meglio riuscite, più godibili, addirittura belle, come quella del fabbricatore di croci in La luce della speranza, e altre meno. Per esempio, una storia come quella di Decoder Sky, o come quella del racconto Bamboccione voodoo, chi l’ha mai sentita? Voglio dire, sono storie ai limiti della comunicazione, perché rasentano l’originalità totale. A questo riguardo non so come esprimermi: è vero, l’autore potrebbe essere biasimato, perché a tutti gli effetti in alcuni brani, pur di star dietro alla sua immaginazione, va a inerpicarsi su per terreni sconnessi, faticosi, a tratti entusiastici, a tratti monotoni. L’autore non si fa alcun problema a mostrarci i suoi personaggi nelle loro piccole, insignificanti vite provinciali, e non è minimamente imbarazzato nel protrarre per pagine e pagine il resoconto minuzioso e accidentale di una persona mediocre.

C’è questa prosa piana, quasi asettica, solo a tratti interrotta da raptus psicotici, simile a quegli attici uniformi e privi di vegetazione, che uno dice: «Beh, se si tratta di un attico […]», ma poi quando lo vede rimane deluso. E invece no, male! – dico io – non si dovrebbe rimanere delusi, e nemmeno annoiati, perché per l’intanto la realtà assume sempre più spesso e volentieri queste forme di vasta e spianata orizzontalità. Oh, sì, spesso quelle anime belle dei lettori si aspettano che una storia nasca apposta per loro, per intrattenerli, e divertirli. O per istruirli, farli sentire migliori. Com’è già che diceva quella vecchia volpe di Cicerone? Ma sì, come no […]la parola scritta deve movÄ“re, delectare, docÄ“re […] Ma questa – penso in definitiva – è la peggiore aspettativa, è la peggiore disposizione d’animo con cui ci si possa accostare ad un libro, come se il libro fosse il mondo precipitato in un «esempio», filtrato dalla saggezza dello scrittore.

A queste considerazioni mi viene in mente che allora i diversi gradienti di noia o di coinvolgimento emotivo che si possono provare leggendo questi racconti siano soltanto gli effetti collaterali di un’aspettativa sbagliata nei loro confronti. Perché Candida, a quanto ne risulta, non vuole dare il buon esempio, né suscitare questa o quell’altra emozione, né tantomeno andare incontro ai gusti dei lettori per sollazzarli. Non che lo dica a chiare lettere, ma intanto in un brano di Per un abbraccio a Stephen King si leggono queste cose:

Oh please, leave me alone with that shit. We both love Michael Jackson. So let’s listen to Michael Jackson».

«Va bene, ma da quando ho avuto quell’allucinazione a Sioux Falls […]» – dice Marino, ma poi interrompe questa divagazione e nonostante la musica a tutto volume spaccatimpani va avanti diritto per le vie tortuose dei suoi ragionamenti. D’altra parte come scrittore italiano ha imparato a parlare a se stesso e solo a se stesso proprio da otto in pagella. (p. 87)

Candida non va a strangolare il mondo fino a fargli sputare quel briciolo di verità, per secernergli attorno la perla di una trama gradevole, saggia e commovente. Candida ha il coraggio di annoiare, di instupidire e rendere mediocre. Interpretati in questo modo allora i suoi racconti – dai migliori ai peggiori, dai più tradizionali ai più eversivi – potrebbero tutti dirsi estremamente intransigenti, e molto seri. Perché l’autore non cede mai alla tentazione di considerare la letteratura un recinto protetto di begli ideali. Come dire, ma la letteratura cos’è, un animale in estinzione, che va trattata coi guanti? Ma no! E checcazzo, la letteratura è giovane e sana, e ha uno stomaco forte, e allora ben venga che una buona volta si mangi questo maiale tutto intero, senza scartare nulla!

Ma ora basta coi discorsi seri. Sempre in Per un abbraccio a Stephen King c’è un pezzo esilarante. Nel racconto ci sono due fidanzatini, Nancy e Marino, che stanno attraversando una cosa come mezza America per andare a trovare Stephen King, quando non si sa nemmeno se Stephen King sia a casa o no. Una roba da pazzi. Tanto più che c’è pure una tempesta di neve. Naturalmente è lui, il «bamboccione», che vuole andare. E lei è incazzata nera, è lì che lo riempie di insulti:

«You’ve got to be more mature. There is something wrong with your head! Horror is bullshit for children. It’s […]I don’t know, Marino […]It’s just junk food.»

«Lo so lo so. Ma Stephen King è il più grande scrittore degli ultimi novecento anni […]»

«Oh, c’mon, Marino […]»

E a questo punto Marino non ce la fa più, e sbotta:

«It’s true. That’s what I think. It’s […]That’s […]MA NON LO CAPISCI CHE IO NON LAVORO?!», sbotta Marino con la carne del viso e le vene nel collo viola in mezzo secondo. (pp.71-2)

Qui Marino sfugge a quella piattezza morale tipica dei bamboccioni, e acquisisce per un attimo lo spessore reale di un’ammissione, sconfinando nella voce stessa dell’autore. Qualche riga dopo, quando Nancy gli fa:

«You are a Peter Pan, Marino. That’s what you are. You’ve got to grow up, man»

lui per tutta risposta le dice:

«Io VIVO CON CENTOCINQUANTA EURO AL MESE!»

Qui fa morire perché davvero non sembra Marino a parlare, ma l’autore stesso. Sembra che Candida, preso da un raptus, non riesca più a tenere la finzione narrativa e sbuchi fuori dal libro come un pop-up in 3D!