Un giorno io e un altro prigioniero ci trovavamo vicini ai carretti per il trasporto dei bambini. Dovevamo farne salire a bordo alcuni, fino a completare un carico. Una SS si avvicinò, indicò con il dito un bimbo di un paio di mesi e disse al mio compagno di lanciarlo sul carretto. Per rendere l’ordine più chiaro, mimò il gesto con le braccia, disegnando un volo molto ampio.

Lanciarlo? chiese il mio compagno, sbigottito. Il tedesco insisté. Gli puntò contro il fucile, urlò, e a lui non rimase che eseguire. In un istante che durò un’eternità, la SS sollevò la sua arma, prese la mira e sparò al piccolo mentre era in aria, come fosse al poligono di tiro. Lo centrò in pieno. Un suo collega, che osservava la scena da vicino, imprecò. Meno male, pensai, c’è ancora qualcuno che ha nel cuore un po’ di umanità. Ma presto quello che aveva brontolato si calmò, si mise una mano in tasca e prese dei marchi. Accennò a un sorriso sforzato, strinse la mano all’altro e gli consegnò il denaro. Impiegai un po’ per capire. Su quel tiro avevano scommesso, ecco spiegata la delusione del perdente.

Lo vidi fare più volte. Ogni volta eravamo noi a dover portare i bambini ai loro carnefici. Noi a lanciarli in aria, sotto la minaccia delle armi, con le SS che si esercitavano a colpirli mentre erano in volo.

Questo brano è tratto da «Sono stato un numero», di Roberto Riccardi, uscito il 15 gennaio e pubblicato da Giuntina, Casa editrice fondata da Daniel Vogelmann (il padre Schulim è l’unico ebreo catturato in Italia che risulti essere stato salvato da Schindler). Il libro narra la storia di Alberto Sed, che nel 1944 ad Auschwitz divenne A-5491. Solo un numero, in cambio di un’identità e un’umanità violate, fatte a pezzi, cancellate. Alberto (15 anni) fu catturato per una soffiata (la vita di un ebreo valeva allora cinquemila lire, tremila se donna, mille se bambino) insieme alla madre Enrica (39) e alle sorelle Angelica (17), Fatina (13) ed Emma (8) a Roma, in un magazzino in cui la famiglia si era nascosta. Dopo un breve periodo nel centro di raccolta di Fossoli, fu messo a forza su un treno piombato e condotto a Birkenau, il campo peggiore del comprensorio di Auschwitz. La madre e la piccola Emma furono uccise il giorno stesso dell’arrivo: la prima selezione le giudicò inabili al lavoro e le destinò al gas. Gli altri superarono la prova, ma qualche mese più tardi Angelica fu sbranata dai cani, aizzati contro di lei dalle SS per un sadico divertimento o per noia. Era domenica, nei lager non si lavorava e non si torturava, bisognava trovare un modo per passare il tempo.
Fatina, costretta ad assistere alla scena, sottoposta nel lager ai crudeli esperimenti del dottor Mengele, tornò a casa segnata da cicatrici profonde. Le torture dell’angelo della morte le avevano salvato la vita: a 13 anni se non l’avessero scelta per gli esperimenti l’avrebbero uccisa. Ma la sua esistenza fu irrimediabilmente segnata. Non si è mai ripresa fino alla sua morte, avvenuta molti anni dopo.

Alberto è sopravvissuto a numerose selezioni, alle torture e agli stenti. Nel lager dovette adattarsi a lavori faticosi e a mansioni terribili, come sistemare i bambini che arrivavano al campo sui carretti che li portavano al crematorio. Fu in quei giorni che vide lanciare i bambini in aria, su ordine delle SS, che si divertivano a fare il tiro a segno. Per un periodo, Sed accettò di fare il pugile: incontri che avvenivano la domenica, un momento di svago per gli aguzzini, per i quali riceveva in premio qualche buccia di patate o di mele. Quando i tedeschi, pressati dall’Armata Rossa che avanzava, ripiegarono dai lager polacchi verso il centro della Germania, il prigioniero affrontò la terribile prova delle marce della morte: chilometri a piedi nella neve, indosso solo la povera tuta a righe e un paio di zoccoli. Chi crollava veniva subito finito con un colpo di pistola alla nuca. Scampò all’ultimo appuntamento col destino quando gli Alleati bombardarono il campo di Dora, dove era stato portato. Un tenente della Marina italiana, prigioniero di guerra, lo trasse in salvo nascondendolo sotto la carcassa di un aereo abbattuto.

Alberto oggi ha ottant’anni, tre figlie, sette nipoti e tre pronipoti. Ha una famiglia numerosa e felice, che riunisce ogni venerdì sera in casa propria per la cena che per tradizione dà avvio alla festa ebraica settimanale. La moglie Renata cucina i carciofi alla giudìa, una delle figlie è specializzata nei dolci e nel pane del sabato. Ma i suoi traumi A-5491 li porta con sé: non può prendere in braccio i pronipoti Giulia e Benjamin, di nemmeno due anni: se solo prova a sollevare un bambino, sente ancora la voce della SS che gli grida: lancialo!

Sono stato un numeroRoberto Riccardi
SONO STATO UN NUMERO.
Alberto Sed racconta
La Giuntina. Pagg. 168, € 15,00

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