Ugo Santamaria
Viveva molti secoli fa, in un paese lontano, un uomo saggio e virtuoso che si chiamava Eraldo. Negli anni giovanili avrebbe desiderato viaggiare per conoscere il mondo e gli uomini, ma rimasto vedovo con tre figliuoli dovette rinunziare alle sue aspirazioni per dedicarsi interamente alla famiglia.
Era una casa ricca, una casa felice. Tutti, padroni e domestici e amici di casa, erano contenti ed allegri. Quel giorno, un erede era nato — un figlio maschio; e mamma e bambino stavano benone.
Abito in una vecchia casa che pare la bottega d'un rigattiere. Una casa che ha preso, chi sa da quanti anni, la polvere.
Quando don Fiorenzo fu in fondo alla chiesa, si voltò, disse a bassa voce: — Signore, ve li consegno a Voi! —; e segnatosi con la solita rapidità, uscì.
Sul casotto dell’«Imbarco» ai piedi delle colline, non giungeva ancora il sole. Grandi alberi l’ombreggiavano. Di là dal fiume che balenava immobile, schiarito dall’alba, si drizzavano case luminose, i sobborghi isolati, e su esse pareva già alto mattino.
Eravamo giunti alla vetta più alta del monte. Il mio vecchio compagno soprastette alquanto, così per ripigliare fiato e rinfrancare gli spiriti a parlare.
Voi avrete molto probabilmente inteso parlare di Hapley, non già di W. T. Hapley il figlio; ma del celebre Hapley del Periplaneta Haplia, Hapley l’entomologo. Se è così, voi conoscerete almeno la grande questione che si sollevò fra Hapley e il prof. Pawkins.
Stammi un po' a sentire.
Sai che in campagna, vicino alla strada maestra, c'è una villa: devi averla veduta anche tu, certo, una volta o l'altra. Dinanzi alla villa c'è un giardinetto, con tanti fiori e una bella cancellata dipinta.
S'è liberato nel sonno, non sa come; forse come quando s'affonda nell'acqua, che si ha la sensazione che poi il corpo riverrà sú da sé, e sú invece riviene solamente la sensazione, ombra galleggiante del corpo rimasto giú.