Il Pesa-Nervi, opera giovanile del drammaturgo, tradotta da Carmelo Claudio Pistillo, l’intervista
“La sfrontatezza e la frammentarietà delle frasi rappresentano una sfida anche per il traduttore più abile ed esperto, obbligato quasi sempre a una fedeltà letterale e ai molti grovigli lessicali. Artaud non consente forzature e semplificazioni. Il rischio è di banalizzarlo. La scrittura di Artaud è diseguale e piena d’inciampi”. Parole di Carmelo Claudio Pistillo, poeta e traduttore, molisano di nascita e milanese di adozione, laureato alla Statale, con alle spalle pubblicazioni dedicate al poeta francese Jean Arthur Rimbaud. Nel novembre scorso il primo testo tradotto di Antonin Artaud, l’opera da lui definita “embrionale”, Il Pesa-Nervi – Frammenti di un diario infernale, per le edizioni La Vita Felice di Milano. Non i suoi capolavori ma gli scritti che aiutano a decifrare e ad approfondire, anche attraverso un lavoro di traduzione e di ricerca spiccatamente linguistica, il percorso umano e artistico che precede il manifesto del Teatro della crudeltà o Il Teatro e il suo doppio.
È il periodo in cui si è già avvicinato al surrealismo condividendone la spinta irrazionale ma è deluso dal teatro da cui non arrivano ingaggi, pur avendo dimostrato qualità notevoli di attore, scenografo e costumista, lavorando con Lugné-Poe, direttore del Théâtre de L’Oeuvre e per Calderón de la Barca. Con Charles Dullin, fondatore del Théâtre de l’Atelier. Un paio di anni prima aveva proposto alla Nouvelle Revue Française la sua prima raccolta di scritti che però erano stati rifiutati per la loro incompiutezza. Deluso, si è rivolto al mondo del cinema, recitando nel film Surcouf, le roi des corsaire di Luitz-Morat e nel cortometraggio Fait divers, di Claude Autant-Lara, nel 1924.
Riesce a pubblicare alcune sceneggiature cinematografiche sulla rivista dei surrealisti La Revolution surréaliste e ne dirige l’Ufficio delle ricerche. Ma anche qui la sua determinazione a concepire il movimento in senso totalizzante, temendo qualsiasi vincolo politico che ne deteriori la componente innovativa che lui ama così profondamente, lo allontana da loro.
In questo contesto dà alla luce Il Pesa-Nervi, in collera con il mondo dei letterati ma pronto a fondare, di lì a poco il Teatro Alfred Jarry, insieme allo sceneggiatore Roger Vitrac e allo scrittore Robert Aron. Altro fiasco dal punto di vista economico, che lo costringe a chiudere i battenti, per mancanza di fondi, nel 1930.
Come mai la scelta di tradurre quest’opera e che differenza c’è tra questo scritto e gli altri lavori della maturità?
“La scelta di tradurre Artaud non è stata mia ma dell’editore. Si è trattato di una committenza che mi ha inizialmente sorpreso perché mai avrei pensato di tradurre questo autore, frequentato in anni lontani. Artaud è un poeta che si è diviso fra teoria ed esecuzione scenica, tra cinema e teatro, tra follia e ragione, ma è soprattutto ricordato soprattutto per le sue vicende manicomiali e come personaggio che ha avuto, suo malgrado, il sopravvento sull’artista. Avendo letto molto di lui, posso dire che le differenze sono vistose. Pur con qualche imprecisione, nei testi teorici Artaud mostra di essere lucido e assolutamente dentro la materia teatrale. Un trascinatore, uno sciamano. Il Pesa-Nervi e i Frammenti sono invece testi giovanili ed embrionali, intrisi di passione e spesso ripetitivi. E in parte grezzi, non rifiniti. Non è né vera poesia né prosa poetica. Si tratta di due testi ingiustamente trascurati e finalmente riportati alla luce con la prima traduzione in assoluto fatta da un poeta”.
Sempre da un punto di vista linguistico, quali sono le principali caratteristiche della scrittura di Artaud e quali le difficoltà nella traduzione? Ad esempio, ci sono alcuni termini francesi da lui utilizzati che tradotti in italiano non rendono in pieno il loro significato?
“Ci sono due parole, per esempio, che hanno intralciato la traduzione: esprit e facilité. Esprit ha il duplice significato di spirito e mente e non sempre è chiara l’intenzione espressiva di Artaud. Il sostantivo facilitè è usatissimo in Francia anche per indicare il carattere di una persona. Parola ricorrente nell’opera di Artaud e non sempre di semplice restituzione e resa in italiano. Uno dei rischi maggiori è stato quello di ricercare una maggiore precisione, quando Artaud, probabilmente, voleva rimanere nel vago. Tanto è vero che in una delle sue invettive e dei suoi allarmi linguistici presenti proprio nel Pesa-Nervi, dice: Tutte le persone che fuggono dal vago per definire quel che accade nel loro pensiero, sono schifose. Artaud contesta i maestri della loro lingua, la stirpe dei letterati. Il suo sfogo è tellurico, a suo modo, anch’esso schifoso e irriguardoso”.
La tua traduzione è preceduta da una lettera che tu scrivi ad Artaud stesso. Anche in questo caso ti chiedo il perché di questa tua scelta
“Una parte consistente dell’opera di Artaud è rappresentata dalle lettere o da testi direttamente dettati. Sono parole pronunciate durante attacchi di ira e di rabbia, di rimorsi e di rivendicazioni e accuse al mondo. Mi riferisco soprattutto a Succubi e supplizi, un testo definito giustamente incandescente e ai Quaderni di Rodez, invasi tragicamente dalla follia. Ebbene, attraversare questo vocabolario infiammato, mi ha lasciato addosso qualche segno e turbamento. Scrivere una lettera a un morto, mi è parso un modo per allinearmi sullo stesso confine per dimostrargli comunque la mia amicizia.
Non nascondo di essere stato tentato più volte di non scrivere quella lettera, ma la complicità con chi ha pagato col dolore e l’isolamento la sua avventura terrena, sono state ragioni prevalenti. Scrivere una lettera a un morto non ha nulla di macabro, anzi, restituisce luce alla sua storia. Significa lavorare per lui, rilanciarlo nel presente e farcelo sentire vivo. Nel saggio poi mancava il riferimento alle pagine dedicate da Artaud a un suo terzo alter ego dopo Eliogabalo e van Gogh, il pittore Paolo Uccello, insieme a cui Artaud ha visto la luce d’una lingua nell’ombra fosforescente dei denti. Non mi piaceva l’idea di aggiungere un pezzo al saggio. Ho preferito congedarmi da Artaud con quella fenditura, uno spiraglio per continuare a osservarlo e stargli vicino, magari incontrarlo di nuovo, forse in sogno, forse nella realtà sotto forma di presagio e ombra”.
Cosa pensi del rapporto tra Artaud e il testo, così conflittuale ma così ineludibile per un drammaturgo? Lui credeva in un teatro depurato dal testo drammaturgico convenzionale e capace di coinvolgere in modo immediato e pervasivo i sensi dello spettatore (Il teatro e il suo doppio, 1938)
“Quella di Artaud è un’idea pressoché impraticabile, salvo compiere un triplice omicidio: sopprimere autore, regista e attore. Lo spettatore è attratto sia dall’immagine che dalla parola. Dalla danza, naturalmente. Dalla ritualità, pure. Tutto questo contribuisce al risveglio dei sensi e alla gioia degli occhi. Ci sono due grandi artiste che hanno saputo rinunciare più recentemente alla tradizione in senso stretto come Pina Bausch ed Emma Dante. Apparentemente, però, solo apparentemente. Entrambe sono intrise di tradizione teatrale che hanno saputo trasfigurare a volte senza testo. Ma il loro teatro è come se parlasse. La regia, nel loro caso, ha la forma del destino. Penso anche a Tadeusz Kantor, a Jerzy Grotowski, penso al Living e a Carmelo Bene, tutti a loro modo hanno ereditato qualcosa della lezione di Artaud, trascurando un fatto decisivo, il teatro di Artaud è solo di Artaud”.
Il Teatro della crudeltà di Artaud si pone in modo disturbante nei confronti dello spettatore. In che misura i suoi testi sono riusciti ad esserlo altrettanto, soprattutto in relazione a quanto detto sopra?
“L’unico testo compiuto di Artaud è stato I Cenci. L’unico suo allestimento con i crismi del teatro della crudeltà, almeno nelle sue intenzioni, è stato questo. Non andò bene perché estraneo anni luce dalle mode e consuetudini sceniche di quel tempo. I suoi testi davvero disturbanti sono le poesie, così come le ha pronunciate, facendo oscillare la voce tra 300 e 1200 hertz, durante la registrazione radiofonica del novembre 1947. Il testo in questione è Per farla finita con il giudizio di Dio. La trasmissione non andò mai in onda per ordine della censura. Quattro mesi dopo Artaud fu trovato morto ai piedi del suo letto”.
Qualche considerazione tra la follia di Artaud e il suo linguaggio
“Il linguaggio di Artaud, soprattutto nella parte centrale della sua vita, non è altro che la trascrizione della sua pazzia. Perduto alla letteratura, aveva detto il magister Jacques Lacan. Forse si sbagliava, forse no. Voglio dire che l’opera maggiore di Artaud, a parte la sua visione teatrale, va ricercata nelle fessure delle lettere, negli spazi bianchi e nelle parole non dette. Tutte le lettere sono sovrastate da una grande ombra. È quella, secondo me, da prendere in considerazione. Intendo dire che la lingua della sua follia va letta e pronunciata come se ci trovassimo davanti a un’opera d’arte con una platea in attesa di ascoltarla o vederla”.
Un’ulteriore opera di Artaud che ti piacerebbe tradurre e perché
“Nel 2014 ho pubblicato un mio testo teatrale dal titolo Passione van Gogh, un libro dalla lunga e faticosa gestazione: ideato negli Ottanta, scritto in pochi giorni nel 1997 e pubblicato quasi vent’anni dopo. Ebbene, misurarmi con Van Gogh, il suicidato della società, sarebbe una bella sfida, ma l’ottima traduzione esistente è un’involontaria esortazione a non pensarci nemmeno. Forse anche I Cenci, l’unico testo teatrale compiuto pubblicato e rappresentato in vita da Artaud. Lascerei perdere la poesia, pressoché intraducibile, soprattutto Per farla finita con il giudizio di Dio, pervaso di blasfemia e un linguaggio con cui non ho alcuna confidenza. Resterei imprigionato nelle sue maglie che non consentono fughe”.
Quali sono state le principali fonti, le ricerche bibliografiche e i dizionari più idonei per tradurre Artaud in modo congruo?
“Credo che la lettura dei brevi testi di Jacques Derrida e di Maurice Blanchot siano un’ottima guida. Interessanti e utili sono anche i testi di Umberto Artioli e Francesco Bartoli contenuti in Teatro e corpo glorioso. Do per scontato quanto ha scritto Pasquale Di Palmo, forse il maggiore conoscitore di Artaud in Italia. Mi sento di suggerire anche le belle pagine scritte da un poeta e psichiatra di valore come Marco Ercolani sulla rivista Doppio Zero, Artaud, l’arte e la morte. Tuttavia la bibliografia è sterminata. Un buon dizionario come quello classico della Garzanti è più che sufficiente. Il resto lo fa il talento e l’esperienza del traduttore”.
Tu hai tradotto anche le poesie di Rimbaud, anche lui un autore maledetto. Che approccio hai avuto rispetto ai due autori, essendo l’uno poeta e l’altro anche drammaturgo, saggista e attore?
“Artaud nasce come poeta e muore come poeta. Il teatro e il cinema stanno nel mezzo. Diciamo che con Rimbaud ho avuto una lunga frequentazione, meno con Artaud, un ospite inatteso. Entrambi mi hanno fatto disperare seppure in modo diverso. Rimbaud ha restituito in poesia la sua adolescenza e giovinezza in versi, andando poeticamente lontano, per poi sacrificare la sua vocazione e assumere un altro volto, o, se si preferisce, l’atra faccia dell’io. Je est un autre, ha scritto. In Rimbaud ho dovuto inseguire il suo vero volto, mentre Artaud mi è venuto incontro con gli occhi di un visionario che cerca quelli di un amico. Come ho detto prima è stato l’ospite inatteso”.
a cura di Anna Cavallo
Cover: Antonin Artaud nel 1926 – Fonte Wikipedia