Andavamo a scuola in via Orazio, ma anche in piazza S. Alessandro, in via Goito, in via Commenda, in via Lulli…
Le leggi antiebraiche del 1938 colpirono tutte le scuole milanesi. Del resto, da sempre gli studenti dei diversi istituti avevano rapporti tra di loro (ad esempio, disputavano accese partite di calcio), passavano da un liceo all’altro in caso di insuccessi scolastici, o perché insoddisfatti dei loro insegnanti, per cambiamento di domicilio, e così via. Appartenevano alle stesse società sportive, circoli culturali, comunità religiose. Tutti erano inquadrati nelle stesse organizzazioni di regime.
Non ha molto senso fare la storia di una scuola, se non in quanto in essa si rispecchia una situazione molto più generale, che è quella che cerchiamo di ricostruire mettendo insieme le tessere di un mosaico: la scuola milanese all’epoca delle leggi razziste antiebraiche.
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2018: quest’anno ricorrono molti anniversari, che proverò ad unire seguendo un unico filo nel mio intervento. 1848, 1918, 1938… Nel 1848 il re di Sardegna Carlo Alberto dovette concedere ai suoi sudditi lo Statuto albertino che sarà poi la legge fondamentale del Regno d’Italia. In questo Statuto si leggeva (art. 24) che tutti i sudditi hanno eguali diritti civili e politici, e sono ammissibili a tutte le cariche civili e militari. Per gli italiani ebrei era la fine di ogni discriminazione, o – come è stato detto, in modo suggestivo, ma improprio – la fine del ghetto. Nei decenni successivi assistiamo all’ascesa degli ebrei nella comunità nazionale. Nelle scuole si costituiva un’identità condivisa degli italiani, indipendentemente dalle loro fedi religiose o idee filosofiche.
I Licei classici, dove all’epoca si formava la classe dirigente, erano il luogo in cui prima di tutto si costituiva questa identità nazionale, nutrita di cultura classica, ma aperta alla scienza e al pensiero moderno. Significativa è la crescente presenza nei Licei classici di studenti di famiglia ebraica, segno della loro progressiva integrazione. Spesso sono gli elementi più dinamici della scuola: ad esempio, in una scuola quasi totalmente maschile, le prime ragazze che appaiono alla fine del XIX secolo spesso appartengono a minoranze religiose, come quella ebraica (ad esempio, al Parini, Andreina Costa, figlia di Anna Kuliscioff, o le Moreschi, figlie del preside Nicola Moreschi). Parte essenziale della formazione liceale erano gli ideali del Risorgimento, le figure dei Mazzini e dei Garibaldi, conosciute anche attraverso antologie, adottate obbligatoriamente in tutte le sezioni e scuole, come ad esempio quella curata da Carducci.
E veniamo così alla seconda data, il 1918, un secolo fa. Tra il 4 novembre, dopo l’armistizio di Villa Giusti tra Italia e Austria, e l’11 novembre, armistizio di Compiègne tra Francia e Germania, finisce la Prima Guerra mondiale. Il 4 novembre, anniversario della vittoria? La Grande Guerra per l’Italia significò l’inizio di un periodo convulso, che apriva molte possibilità di emancipazione, ma culminò nella dittatura fascista, per l’Europa la fine della sua centralità nel mondo e l’inizio di una lunga decadenza, per l’umanità la dimostrazione che i grandi progressi scientifici e tecnici potevano tradursi in una nuova e più feroce barbarie.
Eppure, molti parteciparono alla guerra credendo che essa avrebbe potuto ristabilire il diritto tra i popoli, affermare il principio dell’autodeterminazione delle nazioni, creare le condizioni per una pace perpetua… Forti di una fede che veniva dagli ideali risorgimentali molti furono gli studenti o ex-studenti dei Licei milanesi che parteciparono alla guerra, che partirono volontari, che vi lasciarono la vita. Tra di loro, molti erano ragazzi ebrei, che non vedevano nella partecipazione al conflitto tanto il segno della loro piena integrazione nella comunità nazionale, quanto una naturale e doverosa conseguenza del loro essere italiani.
Nell’atrio del Manzoni ogni giorno passate davanti ad una lapide in cui sono incisi sessantuno nomi di studenti caduti nella Grande Guerra (più quelli di due docenti) – a cui se ne aggiunge uno caduto molto più tardi in Etiopia. Provate a leggere i nomi: almeno due di loro, Marcello Morpurgo, tenente, medaglia d’argento, caduto nel terribile 1917, e Mario Nacamù, Tenente medico degli Alpini, medaglia di bronzo, sono di famiglia ebraica (una percentuale alta, considerato che gli ebrei erano comunque una esigua minoranza nella società e nella scuola). Chi al Parini si reca in Aula Magna, passa davanti ad un’analoga lapide, con una settantina di nomi, tra i quali se ne riconoscono almeno tre ebrei, Guido Donati, Achille Jona e Roberto Sarfatti. Non solo, chi entra in Aula Magna, si troverà nell’aula dedicata proprio a Sarfatti, il più giovane volontario italiano, morto a soli diciassette anni, medaglia d’oro (era figlio di una nota intellettuale, molto vicina a Mussolini, Margherita Sarfatti). Analoghe osservazioni possono essere fatte per gli altri istituti superiori milanesi.
La lapide dei caduti del Manzoni viene inaugurata con una solenne cerimonia il 4 novembre del 1919; quella del Parini in occasione del compleanno del re il 12 novembre del 1920: siamo ancora in epoca prefascista. In entrambe appare la patria vittoriosa in figura di donna dolente per i figli morti. Non compare nessun simbolo religioso, ma entrambe esprimono una sorta di religione civile, che accomuna in un unico abbraccio tutti i cittadini, indipendentemente da fedi religiose o dottrine filosofiche: atei, agnostici e credenti, ebrei e cristiani…
Questa forma di religione civile si era sviluppata già in quel mondo alla rovescia che erano stati gli anni di guerra, in cui ogni giorno giungeva notizia di nuove morti, ma non dei vecchi, come ci si aspetterebbe, ma dei giovani, non dei padri, ma dei figli. Era testimoniata da “monumenti di carta”, piccoli opuscoli fatti stampare dalle famiglie, con contributi di firme più o meno illustri, in memoria dei figli caduti – per esempio, per citare due caduti del Parini, per l’ebreo socialista Guido Donati e il cattolico conservatore Carlo Floriani sono rimasti due libretti in memoriam del tutto simili. I simboli delle rispettive appartenenze religiose non compaiono o, se ci sono, lo fanno con estrema discrezione. Con il regime fascista molte cose cambieranno e si incrineranno: questa religione civile si trasformerà in un culto di regime, in cui alla dolente pietas per i giovani morti per la patria si sostituirà l’enfatica esaltazione del sacrificio per la potenza della nazione.
Il 1938 rappresenta il momento della rottura: il decreto 1390 esclude dalla scuola docenti e studenti ebrei, ed è solo l’inizio di una progressiva perdita di diritti che ha lo scopo di escludere dalla comunità nazionale gli italiani ebrei. Di solito, quando se ne parla, si ricordano gli studenti cacciati dalle scuole: almeno sei furono gli esclusi dal Beccaria , sessantatré dal Parini , sessantacinque dal Manzoni , quarantasette dal Berchet , diciannove dal Carducci.
Pensiamo, però, a come poterono vivere questa esclusione, subita direttamente o indirettamente, quanti appartenevano alla generazione precedente: i professori esclusi e i padri e le madri degli studenti cacciati, uomini e donne che (in modi diversi) avevano vissuto personalmente, e non attraverso la retorica e le cerimonie di regime, l’esperienza della guerra. Dal Manzoni non fu cacciato alcun professore; tre dovettero lasciare invece il Parini, due dei quali avevano sostenuto con passione la guerra, anche se non avevano combattuto, Giorgio Bonfiglioli e Ugo Guido Mondolfo (che era stato anche al Berchet).
Ma piuttosto che elencarvi dei nomi, è utile che vi racconti una storia, quella, tra i tanti, di Gino Corinaldi. Nato nel 1895, studente del Manzoni dagli undici anni all’esame di licenza, laureato in lettere, uomo di grande cultura, è uno di quei docenti stimati dai propri allievi e nello stesso tempo amati: era sempre pronto a comprenderli e difenderli anche nei confronti del preside, come risulta dalle testimonianze di suoi ex-studenti, conservate presso il CDEC. Dal gennaio del 1915 al 1920 è sotto le armi, arruolato nei granatieri (di corporatura molto robusta era chiamato dai suoi allievi Polifemo). Mandato al fronte, viene ferito e riceve numerose onorificenze.
Come molti giovani interventisti e combattenti, aderisce tra i primi al fascismo, in cui vede la strada per il rinnovamento della nazione dopo l’esperienza della guerra. Cerca di coniugare insieme il fascismo e il sionismo, quel movimento che voleva dare una patria agli ebrei, e che durante la guerra aveva ottenuto dagli inglesi la promessa della creazione di un “focolare nazionale ebraico” in Palestina. Egli era però persuaso che la Palestina avrebbe offerto una patria agli ebrei dell’Europa dell’Est, sempre minacciati dall’antisemitismo, non a quelli italiani, che avrebbero scelto di rimanere fedeli alla patria per cui avevano versato il sangue nella Grande Guerra.
Scoprirà presto il suo tragico errore: sarà il fascismo a cacciarlo prima dalla scuola nel 1938, ad arrestarlo poi nel novembre del 1943, per consegnarlo infine ai tedeschi che lo deporteranno ad Auschwitz dove arriverà nel dicembre dello stesso anno e dove morirà in data ignota, come il fratello Emilio, anche lui ex-manzoniano e combattente nella Grande Guerra.
I fratelli Corinaldi non saranno i soli a vivere questa tragica esperienza di tradimento: su ventidue ex-manzoniani che patirono l’esperienza della deportazione, tra donne e uomini, giovani e vecchi, ben sei erano reduci dalla Grande Guerra, “traditi” dalla patria che avevano servito mettendo in pericolo la loro vita sul campo di battaglia. Tutti e sei morirono nei lager nazisti. Tra di loro, ricordiamo Alberto Segre, padre di Liliana, un “ragazzo del ‘99”, la generazione più giovane arruolata alla fine del conflitto.
Vorrei ricordare, a questo punto, due padri di manzoniani ebrei cacciati nel 1938: quelli di Renato Cavalieri e di Edoarda (Dada) Flack. Renato e Dada furono compagni di scuola in prima ginnasio al Manzoni nel 1937-38, esclusi perché ebrei nel settembre del 1938, profughi in Svizzera. Si sposarono dopo la guerra (sono stati spesso ospiti al Manzoni, e a loro va il nostro ricordo affettuoso e riconoscente, oggi che hanno ormai più di novant’anni).
Come si legge nell’intervista contenuta in questo libro, il padre di Renato, Rinaldo, era stato mutilato in guerra e aveva ricevuto diverse decorazioni. Nonostante ciò, dopo il 1943 dovette espatriare clandestinamente in Svizzera con la famiglia per sfuggire alla deportazione. Significative sono le parole di Dada, contenute nel libro che presentiamo oggi: “Mio padre, Renzo Flack, a 18 anni era partito volontario per la guerra del ’15 -’18. Il fatto di essere radiato dall’esercito in seguito alle leggi razziali fu per lui un’umiliazione peggiore di ogni altra. Anche quando eravamo in Svizzera come rifugiati, guai se qualcuno parlava male dell’Italia o dell’esercito italiano! Era arrabbiato per come l’Italia si era comportata, non la riconosceva come Italia. La sua Italia era un’altra, e lui la difendeva”.
Persone che avevano messo in pericolo la propria vita e avevano subito ferite e mutilazioni per l’Italia, si sentivano ora dire (anzi si sentivano imporre per legge) che quella non era, non doveva essere la loro patria.
Ma le dittature non sono solo crudeli, sono stupide: e ce lo prova un documento d’archivio conservato al Parini, di cui discuteremo oggi pomeriggio. La stessa mano che aveva elencato gli studenti ebrei da cacciare, separandoli dagli ariani, separa in un altro elenco i caduti ariani da quelli ebrei (presumendo che a questi ultimi non potessero essere intestate aule, come era stato fino ad allora fatto). Nemmeno nella morte per la patria gli ariani e gli ebrei potevano essere uguali!
Gianguido Piazza
Il volume è stato digitalizzato dagli studenti del liceo Manzoni di Milano e pubblicato online nella mediateca di Pagina Tre.