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Riceviamo e volentieri pubblichiamo tre segnalazioni librarie relative a opere di Enrico Francot.
I Sinistri Nazi-scic
Un romanzo giallo all’inverso: non si sa chi sia la vittima: sullo sfondo, un’Italia che tra gli anni Ottanta e l’oggi scivola dallo scic alla democrazia negata… al canto dei Grilli…
Per dare un’identità e restituire dignità a un morto sconosciuto dal volto sfigurato dai tacchi a spillo nella discoteca di un palazzo di una principessa romana molto scic, Paolo Lindenbaum, il personaggio conduttore della trama del romanzo, intraprende un drammatico percorso di eventi e di riflessioni che – nel 2016 – lo porteranno ad accostare taluni accadimenti contemporanei a manifestazioni di stampo nazista.
Si convincerà – leitmotiv di tutta la trama – che gli ambienti politicamente corretti occidentali sono pervasi da una forma simile al Nazismo degli anni Trenta in Germania. Le analogie vanno dalla fede quasi religiosa in un pensiero unico dominante all’ingerenza senza scrupoli in paesi terzi – vedi invasioni dell’Occidente in Afghanistan, Iraq, Libia e Siria. Poi c’è la loro cecità nei confronti dei crimini commessi nel mondo dalle classi dominanti e del ferreo controllo che esse esercitano sulle fonti di energia, sul commercio, sui flussi di denaro, sui grandi gruppi finanziari. Né basta: i Nazi-scic sostengono e frequentano salotti gremiti di dame onniscienti e di frotte di teste d’uovo, loro cicisbei. Infine bollano di villani, populisti, fascisti e via insultando quanti si permettono di dissentire. Loro complici gli appaiono la stampa uniformata – i mainstream media – e gli intellettuali dei salotti scic. Chiama questa cultura cultura da Nazi-scic.
Deus ex machina dell’intera vicenda spicca Franz Otto, uomo cacciato dal giornalismo negli anni caldi della vicenda P2 in Italia, proprio perché non aveva creduto che la P2 fosse un’organizzazione di malavitosi più malavitosi di altri. In fondo, a suo modo di vedere, si trattava di una lotta tra due sette segrete: tra P2 e PCI.
Alla ricerca di Paolo Lindenbaum si affianca il carabiniere Eleuterio Imperatore, discendente di una famiglia di greci sfuggiti decenni addietro a un’ennesima strage ad opera dei Turchi. Eleuterio teme che il morto possa essere suo nonno Atanasio Polemistés. Al rammarico per la perdita del suo avo si aggiunge il dolore per aver perso il padre Cesare, scomparso nel 2000 mentre, con l’aiuto di Atanasio Polemistés, tentava di tracciare uno schema della rete dei collegamenti malavitosi tra banditi ucraini ed esponenti del PCI.
Nelle spire della trama, Paolo Lindenbaum – oramai sessantenne e reduce da un’infinita serie di fallimenti amorosi – rincontrerà Lyuba, l’unico grande amore della sua vita, conosciuta nel 1989 a Kiev, quando lei aveva soltanto diciott’anni. Lyuba è figlia di un diplomatico italiano e di una donna russa, discendente di un ramo cadetto dei Romanov.
Le indagini di Paolo ed Eleuterio suscitano preoccupazioni tra i duri della vecchia Sinistra italiana di allora e dei loro eredi a perseguitare, fino al rischio di un’eliminazione fisica, i personaggi principali del romanzo. Ciò perché i Sinistri ritengono che il morto sconosciuto possa essere l’autore di un saggio storico che nega la diversità morale del PCI e dei suoi successori e che Paolo e Lyuba possano venire in possesso di documenti compromettenti per il partito erede del cittadino sovietico Palmito Togliatti e renderli di pubblico dominio.
Paolo Lindenbaum scopre che la madre del suo grande amore Lyuba, Tatiana, è caduta proprio vittima della malavita rampante in Ucraina negli anni della dichiarazione della sua indipendenza in un incidente in cui le è stata anche rapita la figlia Oksana – che lei mai ha smesso di cercare.
Lentamente si apprende che il morto sconosciuto non è Atanasio Polemistés, nonno di Eleuterio, e ostinato cacciatore dei responsabili dell’uccisione della madre di Lyuba e del rapimento di sua figlia, nonché della scomparsa di Cesare, padre di Eleuterio. Il morto è un suo sosia, un uomo scampato a un campo di concentramento nazista, povero, solo e disperato. Grazie alle ostinate decennali ricerche di Atanasio (Polemistés in greco antico vuol dire guerriero) Lyuba ritroverà la sua bambina, il rapporto tra lei e Paolo Lindenbaum si ricostituirà e verranno neutralizzati gli emissari dei Sinistri vecchi e nuovi che li perseguitano. È allora che Atanasio Polemistés dovrà scomparire di nuovo e per sempre vivere nascosto nella villa in cui si è barricato tra le colline intorno a Zoagli il suo amico Franz Otto.
Altri personaggi del romanzo sono la madre di Paolo, scampata all’Olocausto perché trasferita dal padre dalla Germania in Inghilterra quando aveva tre anni, nel 1933; Claudio Della Seta fotoreporter impegnato a Varsavia negli anni 80, in Ucraina negli anni 90 e in Georgia durante la terribile guerra che vi fu nel primo decennio del secondo millennio; il padre di Lyuba, Lodovico Colleoni, attivo a Kiev in un ufficio distaccato, una specie di consolato, ai tempi dell’unione sovietica, e poi diplomatico a Varsavia, ai tempi della P2, a Kiev negli anni caldi della dichiarazione d’indipendenza dell’Ucraina e, infine, a Tbilisi negli anni della guerra feroce tra la Georgia e la Russia.
Il racconto parrebbe avere un suo lieto fine. Ma è un lieto fine che lascia la bocca amara e l’animo intristito. Un vero colpo di scena.
Da “I Sinistri Nazi-scic”
Paolo Lindenbaum fissava la sala vuota davanti a sé e le sedie rovesciate dalla fretta con cui tutti erano fuggiti dopo aver ascoltato la sua conferenza. La principessa Clotilde Mistai Ferretti era seduta con lui dietro un lungo tavolo sul palco.
“Dovrebbe scendere a divertirsi con gli altri, professore”.
Seppur infastidito dal tono matriarcale, Paolo volse gli occhi alla dama dalle labbra a canotto e dalla pelle tirata allo spasimo da un chirurgo estetico, un’immagine inquietante da marmoreo monumento funebre. Avrebbe dovuto avere una pettorina di bronzo con la scritta “memento mori”.
Di fronte a una così palese evocazione di thanatos senza eros Paolo ebbe un brivido di disgusto. Quella bella a ogni costo doveva avere un’ottantina d’anni. Da giovane poteva essere stata molto desiderabile, seduttiva lancia occhiate da maliarda. Ora però i pigmenti celesti dell’iride avevano perso i contorni nitidi, erano slabbrati, da vecchia. L’espressione era arrogante, i seni aggettanti contro ogni legge di natura. Un nastro rosso di velluto alto tre dita spiccava sotto il mento. È impossibile intervenire sulle grinze del collo, malignò Paolo. I capelli castani erano folti. La lunghezza e l’ampiezza delle loro onde non potevano che essere il risultato di sapienti mani di parrucchiere. Parrucca o estensioni?
Lei parlò di nuovo, oracolare: “Giù in discoteca ballano, sniffano e scopano. Dovrebbe raggiungerli, Lindenbaum, e darsi da fare anziché stare qui a rimuginare sull’insuccesso della sua lezioncina”. Il tono era sprezzante: rifletteva il suo pensiero di quanto incapace di attrarre una qualsiasi femmina fosse quel tipo lungo, magro e allampanato, dal volto con i tratti marcati, mento forte, zigomi aggettanti, naso quasi attaccato alla fronte alta su occhi nerissimi, inquietanti. E poi i capelli! Disordinati, le ciocche ognuna per conto suo a partire da una specie di tonsura di incipiente calvizie. Insomma le pareva decisamente bruttino secondo i suoi gusti che preferivano, nel viso di un uomo, lineamenti giovanili, meglio se anche un po’ effemminati, e pettinatura morbida, meglio se mossa.
Paolo percepì il suo scherno. Conosceva la pericolosità delle donne altezzose anche se oramai non era più esposto al rischio dei loro morsi, scarnificato che era già stato per il suo persistente essere “scorretto” – politicamente, e non solo.
I più spaventevoli latrati a suo indirizzo risalivano alla prima gioventù. Ma allora le più iraconde erano “ragazze” e c’era un po’ di tolleranza nei suoi confronti: lui era piacente e le ringhiate per le sue impertinenze si smorzavano in gnaulii da gatte in calore di fronte ai progetti che le damigelle avevano su di lui. Col passare degli anni la loro pazienza si era esaurita di pari passo con il suo disinteresse per la loro avvenenza, belle o bruttine che fossero, e per non volerle al suo fianco in un progetto di vita. I lunghi anni di sua esistenza raminga per tanti paesi avevano obliterato in loro quasi ogni ricordo di lui. Le poche che ne avevano serbato memoria non avevano accettato riavvicinamenti o per reminiscenza delle sue irriverenze o per rancore per la sua indisponibilità a farne compagne durature.
Tra le poche nuove frequentazioni si era diffusa in fretta la sua cattiva reputazione. Il pianeta di chi è nel giusto è piccolo, i suoi abitanti si tengono aggiornati su chi lasciare fuori o espellere perché rozzo e villano. Del resto Paolo non era tipo da lasciarsi intimorire e censurarsi sul proprio sentire.
La sua scarnificazione-ghettizzazione aveva avuto un’impennata nel 1994. Gli erano incisi nello spirito sgradevoli ricordi di quell’anno e dei successivi quando aveva espresso riserve sulla condotta di magistratura e giornali e intellettuali sull’operato dei governi di Silvio Berlusconi, Romani Prodi e Massimo d’Alema.
“Mi sta a sentire? La smetta con la sua villania”, si irritò la principessa. Paolo taceva.
Che lui approvasse taluni provvedimenti di Berlusconi o criticasse l’operato D’Alema e Prodi veniva espulso, quasi fisicamente, dai pochi ambienti con pretese culturali che frequentava. Le donne erano furiose, con le bave alla bocca, contro Berlusconi e lo coprivano di insulti perché, sostanzialmente, non scic.
“Lei sembra un demente”, gridò la principessa al suo silenzio, “… ma risponda, imbecille!”.
Il turpiloquio usato dal 1994 in poi dalle italiche dame dei salotti contro Berlusconi era identico a quello impiegato, ai suoi giorni, per oltraggiare Donald Trump, candidato alla presidenza degli Stati Uniti e reo anche lui di non appartenere ai circoli delle sofonisbe – così Carlo Emilio Gadda definiva le affascinate dalla virilità di Benito Mussolini –, delle sofonisbe sacerdotesse del saper vivere.
“L’ho invitata a parlare nel mio palazzo e lei si atteggia come uno dei grandi maleducati che hanno infangato il buon nome dell’Italia con la loro cafoneria! Oltre ad avere una visione distorta della Storia, non sarà anche Berlusconiano?”.
Madri, madrine, mogli e concubine di uomini o fiacchi o che le usavano per la propria scalata sociale, erano loro le vestali – non virginee di sicuro – del tempio delle regole del politicamente corretto. Tra le colonne svettanti al cielo di quei luoghi di culto erano le depositarie delle verità assolute del come ci si inchina di fronte alle gonne e ai bikini e di come si impugnano coltelli e forchette – ben affilati e acuminate – ai deschi imbanditi per agapi ben condite con invidie al cianuro.
“Lei non è soltanto un mediocre professore non di ruolo, ignora persino le regole basilari di come ci si comporta con le signore!”.
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Lothar svela la Menzogna
Milioni di esseri umani sono in fuga da bombe e miseria. Di chi la colpa? Quali le menzogne?
Lothar Koha, il personaggio del romanzo, vive tra il reale e l’immaginario, come le persone e i fantasmi tra cui si muove. Vuole sparire dal mondo tra le Dolomiti del Comelico dove si è rifugiato e dove si tingono di rosa le montagne all’alba e al tramonto.
Vi è comparso, perfetto sconosciuto nel bar del luogo, una mattina di vento e tempesta di pioggia. Per poi scomparire, quattro anni dopo, convinto (e giudicato un po’ matto visto che non è nessuno), di essere al centro di un’indagine di servizi segreti europei e americani per quanto ha detto e scritto nell’ultimo mezzo secolo della propria esistenza. Non a torto ché, come rivela la trama, si aggirano personaggi che davvero sembrano volerlo pedinare per boschi e nel suo stesso appartamento.
Ma non è soltanto questo il tormento del suo soggiorno nel remoto villaggio a 1400 metri sul livello del mare.
Non gli basta essere fuggito dal frastuono delle grandi città. Vuole sparire del tutto perché è tormentato dall’idea di non essere mai esistito. Tutti coloro che ha conosciuto in ottanta anni di vita o li ha persi di vista irreversibilmente o l’hanno dimenticato o sono morti.
A che gli è servito vivere nel deserto delle ombre scomparse senza lasciare traccia, se non nella sua confusa memoria? I figli sono remoti dai suoi valori, dalla sua cultura. Hanno sposato individui a lui invisi per profilo umano e cultura di provenienza. Gli eccidi, le violenze e i bombardamenti da parte del regime di Zelensky, aizzato dagli Stati Uniti, dalla Nato e dall’Unione Europea, hanno scomposto – drammaticamente – tutte le tessere del mosaico delle proprie convinzioni maturate nel corso della sua avventurosa e sempre mutevole vita! Ora, alla fine dei suoi giorni, a contatto con il mondo intorno a lui mentre la guerra in Ucraina infuria e tutto l’Occidente è sommerso da notizie fasulle, con metodi da regime totalitario, Lothar si rende conto di vivere in una realtà vera, di essere esistito eccome!
Pur prossimo alla morte, Lothar si rende conto– con gioia che gli ridà voglia di vivere – di aver colto relazioni incestuose tra chiacchiere di imbonitori e fatti criminali cui ha assistito, relazioni che agli altri erano rimaste e continuano a rimanere oscure o ignorate. Finalmente si domanda: che siano stati gli altri a non essere esistiti perché non avevano compreso quelle relazioni nel mondo in cui erano vissuti e vivevano? E vivono ancora!
Ora però deve ancora una volta dileguarsi. Sollecitati da non si sa bene quale ambasciata straniera, i carabinieri gli stanno addosso. Dove fuggirà ora? Ma è sparito davvero? E se sì, dove si è rifugiato?
Da “Lothar svela la Menzogna”
Nessuno sapeva da dove fosse spuntato il vecchio Lothar Koha nel 2018. Nessuno seppe mai e saprà mai dove scomparve, quattro anni dopo.
Era scomparso non soltanto da Danta di Cadore, provincia di Belluno, dove era vissuto per quasi quattro anni. Aveva lasciato senza notizie anche i suoi quattro sedicenti figli: una a Roma dove era nato, due a Milano dove, prima di Danta, era vissuto per quarant’anni. Per il quarto, nel varesotto, lui era già scomparso venti e più anni prima grazie alla strega sua madre.
Nel 2022 Lothar Koha era proprio svanito nel nulla.
Era morto? Si era suicidato? Il più fantasioso dubbio era che fosse stato prelevato da agenti nazisti francesi o inglesi o americani o russi, agenti di servizi segretissimi, e sbattuto in una cella sotterranea, in una qualche prigione, tipo Guantánamo, per mai più uscirne.
“Figurarsi se i servizi segreti si occupano di una nullità come Lothar!”, rispondevano ridendo quelli cui veniva proposta una simile ipotesi: “Simpatico quanto si vuole ma era veramente nessuno. Magari era qualcuno qui a Danta ma nessuno, proprio nessuno, a livello internazionale. Figurarsi!”.
“Nessuno come Ulisse, nel senso di Odisseo?”, aveva obiettato qualcuno con una reputazione di uomo colto da difendere: “Magari lui credeva di prendere in giro i Polifemi degli Zero zero 7 inglesi o Zero zero 2 francesi o Zero zero SS tedeschi e invece qualche barbafinta d’Oltralpe l’ha preso sul serio, ritenuto pericoloso per il popolo germanico o gallico o americano e sbattuto dentro”.
“Piuttosto l’avranno rinchiuso in una casa di lusso per vecchi fuori di testa… soldi ne aveva per non finire in un manicomio!”, aveva suggerito una cui era stato sempre antipatico: “Delirava!”.
Era un’ipotesi non tanto delirante, questa.
Negli ultimi anni, prima che giungesse a Danta, in molti pensavano che a delirare fosse proprio Lothar.
A pensarlo era stata certamente, quattro anni prima, in un caldo giugno del 2018, Cristina Garaud, genitori e cultura d’origine francese ma nata e cresciuta in Italia, a Milano, nei salotti milanesi. Era l’illuminata lettrice di una stimatissima casa editrice meneghina.
“Onzo, Onzo!” ripeteva sdegnata la donna, praticamente sdraiata parallela alla sua ciclopica scrivania, le lunghe cosce negligentemente distese su una sedia al fianco, la camicetta slacciata per metà sui seni spinti su fin sotto il mento da un miracoloso push up, mezzo capezzolo della tetta sinistra in vista: “Vuoi ambientare questo libro a Onzo? Queste trecento e passa pagine, questo mattone in una località chiamata Onzo? Onzo è in provincia di Savona, ci abita un mio ex… un postaccio! È lontano dal mare, quasi mille metri… un freddo!”, aveva smorfiato non si sa se per l’ex o per il borgo tra i monti, poche centinaia di abitanti. Era infastidita che più non si può la biondona mesciata con un’età indefinita tra i trenta e quaranta.
Lothar era rimasto sconcertato. Lui a Onzo c’era stato una volta, tanti anni prima, e gli era parso pittoresco, un comune diffuso sparso tra i duecento e i novecento metri sul livello del mare, nell’alta valle Arroscia, sul versante meridionale del monte Castell’Ermo.
Aveva scosso i pochi capelli bianchi che incorniciavano, un po’ lunghi, il suo volto dai tratti regolari, con i segni dell’età, borse sotto gli occhi, pieghe agli angoli della bocca per il labbro superiore un po’ rivolto all’insù. A Lothar aveva dato un sorriso da antica statua etrusca: non da espressione amara, semmai ironica, serenamente distaccata.
Non aveva però voglia di entrare in diatribe con la donna che aveva di fronte.
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La Divinità Nemica: Saggio romanzato sul processo d’individuazione maschile
In un vortice di allucinate divinità dei miti della Grecia e del Mahabharata indiano, un vecchio saggio e un giovane fuori di testa si lanciano, tra realtà e follia, alla ricerca di un dio del Maschio per sottarsi all’archetipica divinità ostile all’uomo: la Grande Madre antica di millenni. L’autore è uno psicanalista post-junghiano – molto post.
Come nei remoti poemi epici, dove divinità intervengono in vicende umane, o tra membri di una famiglia religiosa d’oggi che si sentono affiancati da santi in paradiso, così i due protagonisti del romanzo interagiscono con antiche figure di dèi alla ricerca di un dio che li protegga da una divinità nemica distruttrice delle qualità nobili del maschio.
Dei due protagonisti, uno, il vecchio Avraham Rosso, tale di cognome e di capigliatura, è convinto che gli dèi intervengano nelle umane vicende ancora oggi come facevano nelle vite di popoli remoti, oggi, definiti sprezzantemente pagani o primitivi. Per loro sono dèi vivi e presenti, invocati ogni giorno e sempre prima di un’impresa. Non sono come i pupazzi di un cartone animato o le figure costruite al computer in storie contemporanee di grande successo, in film e romanzi. Non offrono effetti visivi speciali in 3D, roba da videogiochi. Sono dèi veri ed eterni. Avraham è stato studioso e docente di lingue antiche ma ora si dedica a vecchi oggetti. È una specie di rutamat (robivecchi in Milanese).
Sopravvissuto da bambino alla Shoah per bontà altrui e piagato, come molti uomini, da ferite infertegli in quanto padre cui sono stati sottratti i figli, è un misantropo gentile dai tanti passati mestieri. Ha una sua dotta follia lucida e ha messo in piedi un proprio personalissimo modo per entrare in contatto con il proprio inconscio non attraverso i sogni, come avviene agli altri mortali, bensì da sveglio.
Lo fa con decine di specchi alle pareti e sul soffitto, mossi da un fantastico sistema di pannelli e carrucole nel soggiorno del suo appartamento in Città Studi a Milano. Il sistema gli permette di nascondere tutto all’arrivo dei rarissimi estranei che lo visitano. Ancor più allucinante è il rimbalzare di immagini riflesse in uno spazio che si è costruito sotto l’alloggio. In quell’antro il gioco di specchi è ancora più forsennato tra oggetti i più disparati e di ogni dimensione, raccolti in giro per il mondo grazie al suo hobby di rigattiere.
Egli vede nel potente costellarsi a livello di massa di quella divinità nemica – di cui ipotizza l’esistenza – l’origine dell’indebolimento culturale dell’Occidente e della sua incapacità di difendere i valori che hanno dato al mondo il senso della dignità individuale. Il riacquistato potere di quella divinità, per lui arcaica ma eterna, intralcerebbe il progresso della cultura occidentale. Ci riuscirebbe grazie a metodi seduttivi – la bellezza muliebre –, violenti – il terrorismo di ogni matrice –, ideologici – il politicamente corretto.
Avraham ha un’intensa discontinua intesa sessuale con Santa, ambigua e carnalissima donna molto più giovane di lui che appare e scompare dalla sua vita senza, peraltro, creargli disturbi affettivi.
L’altro uomo del racconto, Moise Schwarz, salottiero quarantenne milanese, è tormentato dalla dissennata convinzione di vivere da quattromila anni rimanendo sempre se stesso. Gli sarebbe stata concessa – la sua scoordinata mente ha dimenticato da chi – la facoltà di poter tornare indietro nel tempo a proprio piacimento e di collocarsi su un altro binario della propria esistenza del momento. Può così imboccare il nuovo percorso mai vissuto e modificare l’esito delle proprie azioni ogni volta che lo desideri. La memoria delle sue gesta lo inchioda a ricordi che ne fanno un crudo impasto di violenza gratuita e sesso sfrenato, maschio primitivo.
Moise niente sa di eventi storici antichi e correnti né dello sviluppo del pensiero umano nei millenni trascorsi.
All’inizio del racconto, Milano 1999, anno di una memorabile eclissi solare visibile nella città meneghina, Avraham è impegnato nella traduzione di un testo in Greco classico. L’ha avuto in gioventù da un Armeno incontrato al Gezira Sporting Club del Cairo. Esso è stato compilato raccogliendo probabilmente remote versioni orali. Vi si narra di tre misteriose divinità che si manifestano a un giovane, Archeo, quattro millenni addietro nella preistorica Ellade, presso una fonte in Tessaglia, non lontana dal fiume Titarisios. La zona è abitata ai tempi da genti devote alla Grande Madre e dedite ai culti di lei. Le divinità assegnano ad Archeo un compito che dovrà assolvere prima di potere morire. Avraham non riesce a decifrare nel testo che sta traducendo quale sia la condizione imposta dagli dèi ad Archeo.
Negli stessi giorni, in quella che ritiene essere la sua ultima incarnazione, Moise Schwarz si guadagna da vivere come ghost writer. Ha per madre – severa e invadente – la figlia di una donna scampata alla pulizia etnica degli Italiani in Istria dopo la seconda guerra mondiale. Occasionale amante di Moise è Francesca, mero oggetto dei suoi appetiti sessuali, come tutte le donne che ha frequentato.
Avraham e Moise s’incontrano perché un editore con velleità di anticonformismo, Dino Ermete, ha affidato a Moise l’incarico di occuparsi di talune esternazioni eterodosse di Avraham che ha conosciuto una sera in una cena tra amici. Le sue feroci provocazioni – molto politicamente scorrette – avevano lasciato tutti allibiti, molti addirittura sdegnati.
Dino Ermete si era convinto che da una biografia del vecchio eccentrico potesse uscire un libello di redditizia tiratura. Incarica Moise di scriverla e con fatica convince Avraham a parlare di sé. Entrambi accettano, Moise per soldi, Avraham per gioco.
I due prendono a vedersi ogni giorno. Avraham espone all’altro le proprie scandalizzanti argomentazioni su uomini, donne, politica, amicizia, paternità e via elencando, la sua Weltanschauung insomma, Moise registra, interloquisce, prende appunti, elabora i testi.
Senza trascurare la traduzione del testo greco, Avraham coinvolge Moise nella propria ricerca sul profilo della divinità nemica del maschio. Per lui – e ne convince Moise – essa obnubila i cervelli, crea assassini movimenti di massa e riesce così a spingere popoli interi in stragi sanguinarie. Userebbe di tutto per imbrattare di sangue e d’ignominia vasti capitoli della Storia. Ne insozzerebbe le tante pagine pregne di nobili imprese e di miracoli d’intelletto e di poesia.
A darle forza sono, ripete Avraham a Moise, i miti che ispira, intesi come verità indiscutibili. E poiché al centro di ogni mito c’è un dio che lo tiene in vita ed esige per sé culti, i due si convincono che le barbarie millenarie di cui si sono macchiati interi popoli e tanti individui altro non siano che riti non di una divinità nemica ma di una dea cui danno il nome di Divinità Nemica.
Nella danza di Avraham e Moise, una specie di folie à deux, s’inseriscono, a farne quadriglia, due personaggi con due nomi riconducibili al Mahabharata, l’epos induista. Essi sono Ulupi, neurologa indù di bellezza statuaria e cultura e saggezza profonda, e Kshatriya, nome che significa guerriero. Kshatriya è un ingegnere balistico anche lui di straordinaria avvenenza.
Con una metamorfosi inspiegabile, data la sua incapacità di amare, Moise si innamora perdutamente di Ulupi. Anche Ulupi lo ama, ma in un modo misterioso. Ulupi e Kshatriya si affiancano in casi estremi a Moise e Avraham e li salvano in situazioni in cui rischiano la vita. Lo fanno come in poemi omerici o indù, pur restando, nella realtà quotidiana, vicini di casa del rigattiere, in carne e ossa.
I destini di Avraham e Moise e i miti di antichi dèi si incrociano in un vortice di eventi tra riflessi e riflessioni, tra fantasmi e allucinazioni, le une e gli altri sempre però ancorate alla realtà quotidiana dei due protagonisti in un turbinio inquietante dove è via via più difficile separare realtà da illusione. Senza che però la trama perda di mordente.
Non tarderà a manifestarsi, nel racconto, l’ira delle grandi dèe evocate da Avraham con i nomi assunti nei millenni dalla Divinità Nemica: Potnia, Inanna, Isthar, Iside, Lilith, Maria di Nazareth. Tutte molto potenti, tra loro alcune madri di tutti gli dèi, fattrici di tutto ciò che esiste nel mondo. Si salveranno i due dalla loro vindice furia assassina?
Alla fine del libro Avraham ha risolto il mistero del testo greco e andrà a cena dai suoi vicini di casa Ulupi e Kshatriya dove vedrà in televisione l’attacco islamico alle Torri Gemelle di New York.
Moise scenderà nell’antro. Entrerà in contatto con il Dio del Maschio, protettore dall’onnipotenza della Divinità Nemica. Veramente? O sarà preda di un’altra crisi psicotica? Dove finirà?
Le vicende si snodano, tra quattromila anni fa e l’11 settembre 2001.
Da “La Divinità Nemica”
Nella notte dell’11 agosto 1999 la luna si levò tardi sui tetti di Milano, ben prima che il cielo si rischiarasse d’aurora. Di lì a poche ore avrebbe oscurato il sole. Al primo sorgere era piena e possente. Il suo arrogante pallore invase prepotente il buio della volta senza stelle. La sua gelida luce svegliò Moise Schwarz e Avraham Rosso nei loro appartamenti, distanti pochi chilometri tra loro.
Pur remoti spiritualmente avevano in quegli istanti due cose in comune.
Entrambi nulla sapevano dell’imminente eclissi. In quel periodo non leggevano i giornali né accendevano la televisione che avevano preannunciato l’evento a profusione. Perso tra altri remoti pianeti, Avraham non se ne sarebbe neanche accorto. Moise non avrebbe mai immaginato che in coincidenza con quell’evento astrale avrebbe ucciso un altro uomo, dopo tanti altri che aveva ammazzato. Gli avrebbe tolto la vita staccandogli di netto la testa.
Entrambi si destarono con accanto il corpo nudo di una bella donna. Null’altro avevano in comune.
Moise reagì alla vista della donna con rabbia. Avraham la sfiorò con un sorriso.
Moise, al ricordo di avere fatto sesso con una semisconosciuta, si maledisse per essere di nuovo ricorso al coito con una femmina per sfuggire al mistero e alla miseria della propria vita. Si percepì verdebile, gli occhi iniettati di sangue. Né la sua rabbia era frutto del tormento di un’anima forte. Anima? Puah! Lui ne negava l’esistenza. “Cos’è quella roba là?”, chiedeva sardonico a chi gliene parlava. Ben altra fonte aveva la sua collera. Era chiusa nella buia caverna dell’ostinato rancore dei caratteri fiacchi. L’umida cupola dell’immensa grotta distillava gocce battenti al suolo. Il loro suono era come il ticchettio di un ostinato orologio a pendolo. Gli perforava il cervello.
Avraham pensò alla sua compagna di letto con la gratitudine del vecchio per la generosità della donna concessasi. Prese ogni precauzione per non strapparla alle braccia del sonno. Subito si precipitò al suo tavolo da lavoro, una lastra di marmo grande come un letto a due piazze. Si mise a leggere un testo in greco antico.
Con altrettanta attenzione a non svegliare la femmina si mosse Moise. Ben diversa era la ragione. Già la detestava. Prima di liberarsi di lei avrebbe dovuto affrontare la fatica di piegarsi alle sue pressanti esigenze per chissà quanti giorni.
La lingua era gonfia e ruvida, intonata con il gusto di marcio nella bocca. Si chiese come nella notte avesse potuto sopportare il suo fiato. Lei, nel letto estivo, si era congiunta a lui tra baci appassionati. Doveva essere stata presa da repentine onde di voglia di essere penetrata. Gli era parso strano.
Diceva di chiamarsi Francesca e di essere sua vecchia amica. Vecchia? Non era possibile. Era più che sicuro di trovarsi a Milano da pochi mesi. Era scampato a una rissa a coltellate in un monastero medioevale.
Non capiva perché l’avesse puntato così ostinata: non era ricco né socialmente rampante.
Aprì l’anta di un vecchio armadio al lato del letto con grande cautela per evitare il suo consueto cigolio sinistro. Aveva bisogno di un paio di pantaloni leggeri. Gli occorrevano per la giornata che già prima dell’aurora si annunciava torrida. A tastoni ne tirò fuori uno che non metteva da tempo.
L’anta guaì appena. Era pesante nonostante Moise ne avesse fatto rimuovere l’ampio specchio trovato quando aveva preso in affitto l’alloggio. La grande orbita quadrata del guardaroba era cieca, di legno scuro.
Il rapporto con gli specchi rendeva profondamente diversi Moise e Avraham ma, modificandosi, avrebbe modificato la vita di entrambi. Moise ne aveva terrore.
Per Avraham, invece, gli specchi erano parte essenziale della sua vita. Ne aveva a decine intorno a sé. Faceva il rigattiere per passione, oltre che per arrotondare una propria esigua pensione messa insieme per miracolo in una vita disordinata dai cento mestieri, e gli articoli preferiti del suo commercio erano gli specchi.
Nel grande soggiorno ce n’erano appesi dappertutto e di ogni tipo, pure di colorati e di deformanti. Erano fissati alle pareti, alle ante delle credenze, alle porte. Ce n’erano di incollati negli angoli tra i muri e tra i muri e il soffitto, sullo stesso soffitto. Il vano era una scatola di specchi.
Il suo era tutto un mondo fantastico di riflessi. Ci si muoveva come alla ricerca di un mistero da svelare. Non sapeva bene quale, ma era sicuro che avrebbe trovato qualcosa che gli avrebbe dato pace dopo una vita caotica, vittima di menzogne, squassato da una grave malattia della mente. In pochissimi sapevano della sua mania. Quando arrivava qualcuno, li copriva per non suscitare imbarazzo negli ospiti.
Tra gli specchi ondeggiava una selva di pannelli, alcuni di stoffa, altri di lastre di materiali vari che chissà dove aveva scovato. Erano a tinta unita o a colori variegati o raffiguravano episodi della mitologia induista o greca, o scene umane: cacce, coppie o gruppi flirtanti o copulanti, eroi in torneo o in lotta contro mostri, o personaggi seduti, ritti in piedi, sdraiati, o paesaggi con creature fiabesche. Un occhio esperto avrebbe riconosciuto alcuni pezzi come preziosi arazzi.
Acquisto
L’autore, Enrico Francot
Scrittore e psicanalista, l’autore, ottantun anni, ha lavorato ed esplorato ed è vissuto in molti paesi di Asia, Africa, Nord e Sud America, nonché in Europa prima e dopo i tempi della Cortina di Ferro.
Enrico Francot è uno scrittore giudicato misantropo e rabbioso dai pochi che lo frequentano e ne hanno letto i libri, ritenuti complicati e ostici. Il suo stile e il lessico ne tradiscono gli ottant’anni ben portati, la consuetudine a passare disinvoltamente da una lingua europea all’altra, con evidenti influenze anglosassoni ma senza superflui anglicismi.
Nato in Italia ha incominciato presto le sue permanenze all’estero per studio e lavoro: da adolescente in Gran Bretagna e Austria. A 18 si è diplomato dopo un anno da senior in una High School a New York. Poi ha conseguito la maturità classica a Roma. Già orfano di madre, la morte del padre a venti anni lo induce a cercare lavoro per pagarsi e concludere gli studi universitari. È soprattutto l’ottima conoscenza dell’Inglese – ma anche del Tedesco appreso nell’infanzia dalla madre ebrea – a consentirgli di muoversi alla dipendenza di grandi gruppi industriali di ingegneria tra Medio Oriente, paesi dell’Est Europa, paesi africani emergenti e Sudamerica.
Rientrato a Roma, dopo brevi parentesi in Francia e Gran Bretagna, approda nel 1970 alla redazione esteri dell’Ansa e da qui, come giornalista professionista, ne diventa corrispondente presso le sedi di Bonn e Bruxelles.
Seguono anni via via come redattore, caporedattore, condirettore e direttore responsabile di varie testate del gruppo Corriere della Sera (Il Mondo e Capital), a Il Globo, a Successo e Gente Money, fino al 1988. Poi opera la scelta di continuare a scrivere come giornalista indipendente, ma frequentando per quattro anni il Carl Gustav Jung Institut di Zurigo e diplomandosi in Psicologia Analitica.
Milano è diventata ormai la sua città. Vi ha esercitato per anni l’attività di analista postjunghiano in studio privato prima a Zurigo per un breve periodo e poi per oltre venti anni a Milano, sempre distante culturalmente dalle varie scuole e dagli ordini professionali.
Negli ultimi trent’anni si è intensificata l’attività di scrittore avendo come orientamento una visione eterodossa, quando non capovolta, del comune sentire, incurante del fatto che tutti gli editori, tranne uno ne hanno rifiutato manoscritti. Alcuni suoi libri sono stati firmati con uno pseudonimo.
Instancabile curioso di genti e culture, a contatto per professione con il potere, ne è sempre rimasto distante, mantenendo nel tempo un’indipendenza di opinione e giudizio che non ha fatto di lui quello che viene definito un uomo di successo. Ha così alimentato l’opinione di chi lo descrive di difficile carattere e nettamente uomo solitario, spesso in polemica con il mondo femminile militante estremista e non meno tenero con quello maschile. In quest’ultimo dichiara di aver trovato un solo uomo in sintonia con il suo spirito, conosciuto a Baghdad nel 1967 e ancora affettuosamente vicino.