Paolo Ruffili, Affari di cuore, «Collezione di poesia», Giulio Einaudi Editore, Torino 2011, pp. 140 – ISBN: 9788806207755

 

«Dell’erotismo innanzitutto si può dire, che esso è l’approvazione della vita fin dentro la morte» (Gorge Bataille, L’erotismo, 1957)

 

Che l’amore sia tiranno dell’uomo, padrone indiscusso del suo desiderio e delle sue pulsioni e che artatamente affligga l’umanità nell’illusione perpetrata di un’impossibile interezza come sosteneva Shopenauer, che sia il mito di Eros, della bellezza, della tensione all’assoluto, un semidio pulsante nelle vene, nelle faglie della terra, nelle aperture celesti come leggiamo nel Simposio di Platone, esso vive deflagrante nei versi dell’ultimo lavoro di Paolo Ruffilli. Le illusioni del reale immaginato, anche se fallaci, servono a vivere e l’eros, pur nella costante dicotomia tra l’io e la totalità, può essere agito anche in un solo attimo: «amerò finalmente/ solo per amare»; « […]e non voler niente altro, se non essere te/ dentro di te/ nel cuore del tuo cuore/ diventato parte/ del tuo stesso odore». In questa dichiarata gratuità dell’assolutezza nell’amplesso percepisco una possibile chiave di lettura di Affari di cuore. La mitologia dell’amore si libera dagli ancestrali legami del pensiero convenzionale e s’impronta sulle lenzuola di un linguaggio, spartito musicale combaciante alle variazioni ritmiche del corpo. « […] È l’amore/ la sola chiave/ che aprendo i cuori/ dilata i pori/ e le fessure/ fino a farne falle/ passi e gole/ mentre annoda/ le figure».

Il verso di Ruffilli segue l’andamento verso un ancestrale pre-natale, una morte per mare, una crocifissione con risorgenza, un pensiero odorato di pelle, del bagnato dei corpi, del bacio che canta e esplode nel contatto dell’amore profumato da arancia matura. «è come ritrovare/ un’altra vita/ che pensavi/ di avere/ ormai perduta». «Non voglio più baciare con la bocca che hai baciato».

È coraggioso e veramente complesso parlar d’amore senza che esso non sia insidiato da luoghi comuni, stereotipi, perbenismi e romanticherie, nella sua essenza più profonda di fusione del pensiero corporeo e del corpo pensante e mentre «È un segno che s’incide/ e resta addosso/ che prende/ autonomo possesso/ dentro il cuore/ alla sola/ sua maniera,/ e non importa/ che poi duri un’ora/ o la vita intera» è anche pensiero che «non cessa/ di amare nel difetto/ quando smette/ di ascoltare/ il suo rumore». L’amore è ancoraggio all’incertezza della vita, alla sua caducità, pena, supplizio e forza da ascoltare, rubare dagli occhi, vivere nell’assenza che mirabilmente si misura in questi versi: «Voglio/ che in mia assenza/ ti parlino/ le cose/ che ti ho dato/ e, se io non posso/ che restino con te/ a raccolta/ per farti toccare lì/ il vuoto/ senza una risposta/ che mi lasci/ addosso, tu,/ e che io provo/ senza sosta/ del tutto inaspettato/ dopo essere stato/ così con te/ ogni volta». Che snoderanno nel testo un originale vocabolario «di battaglia» a significare l’intimità segreta dell’agito amoroso: arma, battaglia, sconfitta, trionfante, lama, carneficina, prigioniero, ferito. Nella sua prorompenza esso s’impossessa «Non mi accontento di niente nel mio volere solo l’assoluto» di un altrove onirico, sacrale e leopardianamente infinito come « […] crocifisso, risorto, divina offerta, sacra sindone» per connotare «l’infinito quotidiano/ lasciato in sorte/ al corpo dell’amore».

È di rilievo notare come, rispetto alla precedente produzione letteraria, Ruffilli, in Affari di cuore ribalti il rapporto che dalla coscienza soggettiva del limite si apriva ad ipotesi di azzurri luminosi di speranza, di finestre aperte al cielo, di intense Pietà, per accogliere l’altrove nei corpi dell’amore: «ti voglio in tutta la tua carne […]/ alla divina offerta consacrata/ […] dell’amore/ e alla sua carneficina» fino a «Il sacro vi si infanga/ e si bestemmia,/ salvato/ nel suo essere violato».

Sofferenti, felici, smarriti, innamorati, spaesati, vibranti, intensi, pagani, sacrali […] questa volta si firmano «terra» i cieli di Affari di cuore.