E’ di queste ore la confessione del presidente del “Premio Grinzane Cavour”, Giuliano Soria. Ha ammesso di aver usato parte dei soldi pubblici destinati al premio per sue iniziative private. Non ho letto tutto l’articolo; forse lo faceva da anni, ma in realtà non è importante.
Non so se vi è mai capitato di chiedere a un qualsiasi Ente pubblico un sostegno per una vostra iniziativa culturale. Se lo avete fatto, in tutta serenità, dubito che l’esperienza sia stata positiva. Nella migliore delle ipotesi, vi siete scontrati con una mole grottesca di scartoffie (del tutto inutile, come la cronaca ci insegna). Nella peggiore, avete ricevuto richieste più o meno velate di mazzette o altri favori (appalti a ditte “raccomandate”, assunzioni, pubblicità per questo o quell’assessore, ecc.).
Per fortuna le richieste indecenti sono rare, ma il quadro generale non è confortante. Ne è riprova l’intervento di alcuni giorni fa dello scrittore Baricco, che ha auspicato l’abolizione del finanziamento pubblico ai teatri. Al dibattito hanno partecipato in molti. E’ sempre un buon segno quando intorno all’argomento cultura c’è vivacità, anche quando vengono dette cose prevedibili. Nella polemica Baricco però ho sentito una affermazione interessante, che mi ha indotto a riflettere, benché tutto sommato non fosse sorprendente: l’Italia spende (o spreca) nella cultura quasi niente. Siamo lontanissimi dagli altri paesi europei, e proprio su un altro ordine di grandezza nei confronti dei più civili.
A leggere degli intrallazzi nostrani, nel constatare che sono frequenti e sostanzialmente noti a tutti, e che si perpetuano per decenni senza che nessuno se ne assuma la responsabilità (vedrete che anche i fatti di questi giorni si risolveranno a tarallucci e vino), viene effettivamente voglia di fare piazza pulita. Ma la notizia che spendiamo già quasi niente deve farci capire che non risolveremmo un gran problema. Se decidessimo di tagliare, il solito giro di “privilegiati” troverebbe un altro modo per prendersi i soldi (impariamo la lezione dal finanziamento pubblico ai partiti, abolito pochi anni fa con un referendum, oggi è più grasso e scandaloso che mai).
Serve qualcosa di più razionale e quindi più utile: una piccola rivoluzione. Che riassumerei in pochi punti:
1) tagliamo bandi e concorsi e potenziamo il 5 per mille (facciamolo diventare un 1-2 per cento, allineandoci ai migliori paesi europei). Cioè diamo ai cittadini il diretto controllo delle proprie tasse. Decidano i cittadini quali sono le iniziative meritorie. A volte verranno premiate iniziative grossolane? Poco, pochissimo male, rispetto agli sprechi di oggi. Inoltre, si possono introdurre alcuni aggiustamenti; ad esempio andrebbero proibite le campagne pubblicitarie delle super-onlus (che spendono milioni in spot pubblicitari). Ma di fatto il 5 per mille già così sta funzionando. Ha anche il vantaggio, non secondario, di far sentire i cittadini più vicini e in qualche modo coinvolti nei progetti che sostengono con le loro tasse;
2) trasparenza nell’erogazione dei fondi. Oggi ogni politico, dall’assessore di paese al Ministro, ha un suo budget con il quale spesso non fa cultura, ma si compra il consenso, o fa favori agli amici. Ogni ente deve invece pubblicare sul proprio sito Internet, in un’area apposita e ben visibile, uno ad uno i progetti finanziati. Con l’importo, le modalità di versamento, il nome di chi ha deciso e di chi ha beneficiato, gli obiettivi prefissati e quelli effettivamente raggiunti. Ovviamente, chi giudica il raggiungimento degli obiettivi non dovrà essere né il beneficiario, né l’ente erogatore, ma una struttura terza;
3) un taglio netto ai finanziamenti diretti per le imprese culturali profit. Si trasformino i fondi in agevolazioni fiscali. Così, fra l’altro, queste imprese non dovranno elemosinare dalla politica, di anno in anno, il rinnovo dei finanziamenti;
4) si riaffermi il criterio che non sempre la cultura è associata a un bene che si compra. Oggi una iniziativa totalmente gratuita è paradossalmente molto meno aiutata di una che fa profitti. Colpa degli sprechi e delle ruberie degli anni passati. Si stabiliscano allora dei criteri oggettivi, si mandino in galera per direttissima i disonesti, ma sostenere solo le iniziative che fanno pagare il biglietto significa ridurre la cultura a merce;
5) si liberalizzino i micro-pagamenti. Oggi il sistema bancario e delle carte di credito di fatto li blocca, imponendo costi di transizione (quello che si paga per spostare il danaro da un conto a un altro) che non hanno più motivo di esistere. Sono ormai tecnicamente possibili micro-pagamenti (anche di pochi centesimi) a costi sostanzialmente nulli; mentre l’obsoleto sistema delle carte di credito ha costi di transizione che facilmente superano l’euro (per non parlare del fatto che è accessibile solo a chi ha un conto in banca e, ovviamente, una carta di credito). I micro-pagamenti sarebbero una vera rivoluzione per la cultura: i siti culturali, i gruppi musicali emergenti, ecc. che già oggi hanno migliaia e talvolta decine di migliaia di utenti, potrebbero raggiungere l’indipendenza economica grazie a piccole donazioni spontanee, o vendendo i propri contenuti;
6) ultimo punto, ma in realtà il più importante: si riducano i tempi dei processi. Che i disonesti rispondano delle proprie azioni. Loro e i politici con i quali si accordano (viva le intercettazioni).
Se l’opinione pubblica saprà che il sostegno alla cultura è cosa pulita, lo sosterrà.