– Sai che non ho mai pienamente com-preso la critica ufficiale che ti vede poeta alirico e civile, ho invece sempre colto la musica dei tuoi versi spezzati secondo l’andamento del pensiero che accompagna il respRuffilli-Garofaloiro e il silenzio che si fa parola. Perché ‘alirico’ quindi?

Mah, non saprei. Forse, rispetto a una lirica tradizionale e classica, nel segno dell’imitazione di quel passo e di quella melodia […] come se la «lira» non suonasse accordi diversi. I miei sono in linea con il ritmo sincopato della modernità. E molti, anche e perfino tra i critici, non si sono accorti che il ritmo di oggi non è quello di ieri e che la musica è diventata atonale, perché la nostra voce si è frantumata insieme alla nostra coscienza. Qualcuno, in modo più calzante, ha parlato di ‘neolirico’, nell’ottica appunto di quell’evoluzione musicale che si è compiuta rispetto al passato. Alfredo Giuliani, per le mie poesie, ha fatto riferimento al cool jazz.

– Leopardi abita il tuo ultimo testo con una prepotenza che si fa voce e raccoglie l’eredità dell’indefinito. È «un affare di cuore» quello che esonda e giunge alla deriva […] quella della parola che si rinomina consentendo alla più grande tradizione di farsi viva nei tuoi versi […]

Leopardi, nella mia esperienza, è il trapasso nella modernità. Già quando diceva ai suoi contemporanei che non si poteva continuare a scrivere poesie come facevano i greci e i romani: l’infiltrazione dell’intelligenza dentro i sentimenti imponeva ormai altri ritmi e altri modi rispetto al passato. La sua pratica della mescolanza (dei generi, dei livelli, degli stimoli) mi ha insegnato molto, come già era accaduto a Nietzsche, che conosceva a memoria le Operette morali e le considerava la svolta della filosofia e una nuova lirica del pensiero. Pensiero che, per me, resta dominante e, come ha detto qualche critico, «implacabile», perché non cessa di cercare le ragioni di ogni sentimento e di ogni emozione, proprio perché per me la realtà conta se viene pensata o ri-pensata. In una prospettiva anche ‘linguistica’, cioè da linguista che sa quale evento fondamentale nella ricerca della così detta verità sia la rinominazione. Perché, appunto, la verità non è nelle cose ma nel linguaggio. Ecco, allora, la predominanza in questo libro (non meno che in altri, del resto) della Parola. E la parola per me vive sempre nella sua duplice di natura: di parte oscura che emerge, esonda dal profondo, e di parte chiara scavata per illuminarla (o comunque tentare) con la ragione.

 

– Nel momento in cui gli opposti coincidono e si fanno unico insieme, in quell’attimo in cui non sono ancora congiunti possiamo dire che è presente la noia-meditativa così come Leopardi la intendeva?

«Or che cosa è la noia? Niun male né dolore particolare ma la semplice vita sentita, provata, conosciuta, pienamente presente all’individuo e occupantelo» dice Leopardi nello Zibaldone, assenza cioè contemporaneamente di dolore e di piacere (gli opposti si elidono): insomma, riuscendo a tenere fuori insoddisfazione ed ansia, una condizione ideale per riflettere e per conoscere. Non è dunque indifferenza nei confronti della vita e del mondo, ma paradossalmente uno stimolo per cercare di saperne di più relativamente alla vita e al mondo. È in una di queste situazioni che Leopardi si rende conto «della vanità della vita e della pazzia degli uomini che si combattono continuamente per piaceri che non li dilettano» e si rende conto pure «che gli uomini si allontanano dalla felicità quanto più la cercano». Ma, lasciando parlare ancora Leopardi: «La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani. Non che io creda che dall’esame di tale sentimento nascano quelle conseguenze che molti filosofi hanno stimato di raccorne, ma nondimeno il non potere essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole maravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana. Perciò la noia è poco nota agli uomini di nessun momento, e pochissimo o nulla agli altri animali».

 

– Natura morta viene a connotare molteplici tue tematiche: 1. la caducità delle cose colte un attimo prima della loro decadenza; 2. la fotografia della memoria che fissa come in camera oscura la vita; 3. un’offerta sacrale alla morte come nella cultura classica (tu stesso in musa celeste individui nell’oggetto il senso del metafisico).

Sì. E, forse, tutte e tre le voci sono riassumibili nella scoperta di quanta morte la vita abbia bisogno per fiorire. Detto non già con sofferenza e neppure con tristezza, ma appunto in una di quelle pause meditative della noia leopardiana, nella considerazione insomma e nella rivelazione del mistero ma anche del prodigio che si compie nella «camera oscura» della vita.

 

– Custodisco e spesso rimando al cuore il pensiero di te come mi sono «immaginata»: cammini in una strada che non so individuare in mezzo al traffico, clacson, radio impazzite e voci, tante voci, ai lati quasi come marciapiedi si aprono voragini d’acqua e sopra immensi cieli, il disvelamento degli opposti è forse dove non scorgo bene […] in fondo alla via.

Mi ritrovo in questa tua immaginazione, essendo per indole decisamente vicino alla misura metropolitana e alla sua caotica e rumorosa vita quotidiana, e per indole decisamente estraneo a qualsiasi isolamento edenico e naturista, comunque consapevole di quegli abissi di cielo e di acqua che così bene disegni come marciapiedi della mia città invisibile.

 

Grazie di avermi permesso di parlarti con il cuore, parlare con un poeta oltre che amico è una necessità e un ritrovamento sempre più raro.

 

Patrizia Garofalo