Gianluca De Luca, istruttore FIDAL (Federazione Italiana di Atletica Leggera) a Portici (NA), ha appena dato alle stampe il volume L’allenamento della velocità. Il sistema di Charlie Francis (ed. Ateneapoli), che sta riscuotendo un significativo successo in tutta Italia. Nel libro (e nell’intervista rilasciata ad Atleticanet.it) si parla di velocità e di metodo, ma anche di doping e della natura dello sport, fino ad abbozzare quella che potrebbe forse chiamarsi una filosofia dell’atletica. Amico di vecchia data, con il quale abbiamo discusso spesso del pensiero libertario e della sociologia di Ivan Illich, l’abbiamo intervistato qui a proposito del concetto di sport del terzo millennio, dove il confine tra doping e trattamento sanitario sembra labile e dove la visione greca dell’atleta e di uno sport «puri» cede oggi il passo a una visione dell’uomo inquietantemente ibridato da sostanze e tecnologie. Mentre lo sport assume sempre più una connotazione da business industriale.
Filosofia dell’atletica: un’espressione eccessiva, o un proposito da coltivare?
Non so se filosofia sia parola opportuna da accostare ad atletica (immagino questo termine -nell’ambito sportivo- riferibile esclusivamente alle arti marziali) ma senza dubbio possiamo parlare di «etica dell’atletica», nonostante la cacofonia. Purtroppo questo tema, che io sappia, non è materia di studio, non solo in Italia ma in nessuna nazione. L’atletica resta comunque uno degli sport con un «costume» più fortemente radicato, a differenza di altri (più spiccatamente «capitalistici», calcio in primis) nei quali i codici comportamentali sono quanto mai «ballerini» a voler essere indulgenti.
Cito un passaggio della tua intervista ad Atleticanet.it: «il metodo di Charlie Francis è brillante, ma è soprattutto semplice. Le poche «regole» presenti nel testo hanno la dote di essere immediatamente comprensibili e soprattutto vengono subito avvertite come «vere» da chiunque le legga anche per la prima volta». Sembra un’affermazione più da epistemologo che da allenatore. Cosa vuol dire esattamente?
Debbo precisare la frase contestualizzandola: l’atletica italiana (ma in questo caso si parla solo di velocità, l’atletica è corse, salti e lanci) ha vissuto per decenni sulle intuizioni (non confermate) di un grande allenatore (Carlo Vittori, coach di Pietro Mennea). La non riproducibilità di certe teorie su altri atleti -i metodi di Vittori funzionarono su Mennea, non su altri- ha ingannato tanti per molto tempo. L’anomalia italiana è che tuttora l’allenamento è impostato su tesi e metodi ondivaghi, confermati e «sconfermati» a seconda delle convenienze dal supporto scientifico. Azzardo un paragone: in Italia si continua a studiare sui testi di Vittori quasi per atto di fede: i suoi testi sono La Bibbia della velocità. L’allenatore canadese (Francis) fece invece dell’approccio empirico il suo cardine. Faccio l’esempio più banale che mi sovviene: Francis vede un suo atleta ingrassato e decide di farlo dimagrire. L’allenatore italiano vede l’atleta ingrassato e decide di pesarlo. «Non ho bisogno -diceva Francis- della conferma scientifica per qualcosa che già vedo».
Sembra non si possa rinunciare a una propria «epistemologia dell’allenamento».
Se vogliamo azzardare un parallelo tra l’atletica e la filosofia, potremmo dire che quello che manca di filosofico alla nostra disciplina è proprio l’interpretazione epistemologica: spesso si assumono per scientifici dati empirici e viceversa, il tutto derivante, evidentemente, da ignoranza specifica dell’argomento. Dico evidentemente perché forse tra chi legge pochi sanno che l’atletica (quando ci riferiamo agli allenatori e a volte anche ai dirigenti) è perlopiù portata avanti da volontari. Gli allenatori professionisti sono una minoranza non significativa, dunque non c’è poi da meravigliarsi se i risultati (in Italia) mancano e se si confonde la realtà con l’interpretazione della stessa.
Scrivi che lo stile di allenamento di Francis potrebbe essere riassunto nella formula: «less is more!». Ovvero: non si allena meglio chi si allena di più (come si è spesso creduto e si continua a credere), ma chi sa capire quando è giunto il momento di fermarsi. Insomma: a tutto c’è un limite! Perché quest’idea quasi ovvia della «giusta misura» è così difficile da capire? Forse perché viviamo in un mondo che non fa che propagandare l’idea di una crescita economica infinita, con il modello ideale di un’accumulazione senza limiti?
Il tuo paragone è condivisibile: l’equivoco che si possa crescere all’infinito è ancora presente, soprattutto nella nostra nazione (che, come dicevo prima, sconta il ritardo di metodologie inadeguate). Mi chiedi della «giusta misura», e su questo non ho granché da aggiungere. Il «senso della misura» è dote di pochissimi. Ad avercelo tutti staremmo in un mondo ideale.
Vorrei richiamare la cosiddetta «finale più sporca della storia», quella in cui vinse Ben Johnson allenato da Charlie Francis, a causa della diffusione e dell’entità del doping. Come sta la situazione oggi, a tanti anni di distanza?
Non credo sia cambiata, se lo è allora è cambiata in peggio. L’atletica sta diventando uno sport con un giro di denaro sempre più consistente. Più capitalistico, per banalizzare. Per chi come me vede nel capitalismo un male endemico del mondo, è inevitabile fare l’equazione che anche l’atletica è più malata. Meno del calcio (più soldi significa più doping) ma in costante peggioramento.
Quand’è che una gara può dirsi invece «pulita»?
Quando non c’è nulla in palio, se non la medaglia. Le gare dei bambini sono pulite, quelle degli adolescenti non sempre.
Che cos’è il doping? Quali sono le caratteristiche di una sostanza dopante? In che maniera si può distinguere il doping da un trattamento farmacologico che per un atleta può considerarsi fisiologico?
Ho affrontato la questione diverse volte e ti confesso che ancora non ne sono venuto a capo. Per doping s’intende una sostanza o una pratica capace di incrementare le prestazioni sportive. Ma allora un allenamento migliore che cos’è, se non doping? E una dieta migliore non mi consentirà di ottenere risultati migliori? Restando al regolamento, esiste una lista di sostanze considerate dopanti, lista che ovviamente presta il fianco ad attacchi: se una sostanza dopante non è inserita nella lista si può assumere (mi spiego: non è in lista perché ancora non si sa che è dopante!) E quindi nella lista ci sono farmaci che un tempo non c’erano e perciò si potevano assumere (e chi l’ha fatto ne fu avvantaggiato). Insomma, si cerca di stabilire dei confini, ma chi cerca di aggirarli è molto più numeroso di chi deve controllarli. Per poi scoprire che a volte, chi è deputato ai controlli antidoping, è il primo a studiare prodotti che non siano rintracciabili. Esistono poi casi particolari di atleti che possono assumere farmaci considerati dopanti (dietro prescrizione medica ed autorizzazione) per curare una patologia. In questi casi credo che orientarsi tra giusto e sbagliato resta questione confinata esclusivamente alla propria sensibilità.
Perché non si riesce a proibire l’assunzione di qualunque sostanza dopante prima delle competizioni sportive?
Non si hanno i mezzi economici per controllare tutti gli atleti, ed inoltre come abbiamo visto non siamo affatto sicuri che un controllo riesca a rilevare l’assunzione di sostanze dopanti. Sulla scena poi si è già affacciato un nuovo tipo di doping: il doping genetico. Per quanto ne sappiamo ora, non è rilevabile in alcun modo.
Un’idea per riportare lo sport alla purezza dell’ideale della paideia, dove lo pratica agonistica è educazione del corpo e della mente e soprattutto lealtà, tanto che il termine «sportività» ne è quasi un sinonimo.
Sinceramente non credo che sarà possibile, almeno non a breve. Gli unici sport «virtuosi» sono quelli nei quali non c’è circolazione di denaro. Inoltre non sono completamente d’accordo nel reputare immuni (e quindi «pure») le Olimpiadi antiche. Gli stessi campioni d’Olimpia che assurgevano al ruolo di eroi dopo una vittoria, non erano mica alieni alle lusinghe del doping (un doping naturale, gli oppioidi erano già conosciuti). Probabilmente il desiderio di primeggiare è innato in molti, ed è sicuramente difficile mitigare gli istinti.
Ma cosa si dovrebbe intendere più precisamente per «purezza»? Ammesso che fosse realizzabile, un dispositivo tecnologico per il miglioramento delle prestazioni, impiantato chirurgicamente, sarebbe ammissibile? Un atleta che abbia subito un trapianto, un intervento e che ospiti dentro sé una tecnologia: andrebbe ammesso o escluso? In definitiva: poiché la tendenza è quella all’ibridazione dell’umano con la tecnologia, come immagini lo sport dei prossimi trent’anni?
La tua domanda è molto attuale (e di questo te ne chiederà conto il titolo del tuo blog) visto che proprio negli ultimi campionati del mondo un atleta sudafricano -Oscar Pistorius- ha gareggiato con impianti compositi al posto delle gambe. È opinione diffusa che quelle protesi gli dessero un considerevole vantaggio. Come è stata risolta la questione? Gli organismi internazionali lo hanno fatto partecipare -sulla scorta del fatto che avesse conseguito il «tempo minimo» per la partecipazione e che non ci fossero sufficienti «evidenze scientifiche» che le protesi fossero vantaggiose- ma hanno pregato affinché il bravo Pistorius rimanesse lontano dai gradini del podio. Tornando alla profezia che mi chiedi, lo sport mondiale è abbastanza «conservatore»: la tecnologia viene adoperata come sussidio esterno (telecamere, rilevamenti, materiali) ma è vista con scetticismo quando dev’essere applicata direttamente all’uomo. Insomma, credo che un «uomo bionico» avrebbe molte difficoltà ad essere accolto nell’ambiente. Non escludo però la possibilità che un giorno esisteranno delle gare -a latere- per atleti «potenziati tecnologicamente». Se così sarà, ho la sensazione (da lettore di Dick e Bradbury) che i posteri non vivranno un bel futuro.
Proprio il «caso Pistorius» potebbe essere la pietra dello scandalo, dando luogo a una nuova riflessione su questi temi?
Non è escluso, e colgo l’occasione per un’altra -banalissima- considerazione pseudo-epistemologica. Personalmente, da allenatore intendo, quando vedo una gara del bravo sudafricano ho immediatamente la percezione, basata sulla pratica e non confermata da alcun tipo di sperimentazione scientifica, che grazie a quelle protesi stia andando più forte di quanto potrebbe andare con gli arti biologici. Mi azzardo a dire che la stessa sensazione la hanno quasi tutti i colleghi allenatori. Nondimeno si pretende il «supporto scientifico» all’evidenza dei sensi (torniamo a Francis e la bilancia per l’atleta ingrassato). «O tempora o mores» dicevano i Romani. Nei nostri tempi è costume che la scienza abbia priorità sull’esperienza. Verranno tempi migliori…
Per fare sport oggi sembra che sia necessaria una laurea in ingegneria: non si vince senza vele al carbonio, o senza magliette di uno speciale tessuto superleggero. Quali sono oggi, nel 2011, il ruolo e l’impatto della tecnologia nella pratica sportiva?
Il doping è tecnologia, dunque l’impatto è fortissimo. Anche i materiali sono importanti, ma qui siamo di fronte ad un paradosso: tutti gli atleti d’elite hanno accesso al massimo delle possibilità offerte dalla tecnologia. Ammesso (e non concesso) che nell’ultima finale olimpica dei 100m tutti gli atleti fossero ugualmente dopati e avessero tutti (ammesso e concesso) le migliori scarpette ai piedi, privandoli della tecnologia possiamo ragionevolmente ipotizzare che avrebbe comunque vinto quello «naturalmente» più forte. Si potrebbe quindi giungere alla conclusione che, almeno ai livelli più alti, doping e tecnologia non spostano i valori in campo.
Non hai un po’ di nostalgia dell’arete greca, e dei maratoneti che correvano a piedi nudi? Possiamo (e dovremmo?) immaginare la possibilità di fare sport senza sponsor, senza ausilii, senza telecamere in mondovisione?
Non ho nostalgia delle immagini che mi rappresenti perché la dimensione sportiva che io vivo è molto «naturale». Quella di cui parli è la percezione degli spettatori, di chi lo sport non lo pratica e lo vede solo in televisione. Gli sponsor e le telecamere fanno parte del mondo di chi si abbona alla pay-tv e non muove un passo nemmeno per accompagnare i figli al campo, non del nostro. Io ogni giorno mi reco in pista e vedo un centinaio di persone che si allenano con passione e, soprattutto, si divertono a stare insieme. Lo sport è un momento sociale che ha pochi eguali: insegna il rispetto per gli altri, il rispetto per sé stessi, la gioia e la difficoltà di stare insieme.
Un ultimo consiglio ai bambini e ai ragazzi che vorrebbero iniziare a fare sport con la testa, oltre che con il corpo.
Vista l’età in cui ci si accosta allo sport, vorrei piuttosto dare qualche consiglio ai genitori: prima di tutto “intercettate” le inclinazioni naturali del bambino e non costringetelo a discipline che non sembrano attirarlo. Non abbiate riserve nel fargli cambiare sport anche ogni anno (più abilità motorie si acquisiscono nell’infanzia più potenzialità si avranno da adulti). Informatevi sull’ambiente che il bambino troverà: non sempre noi istruttori riusciamo ad essere dei buoni “educatori”, e non è detto quindi che il contesto che troverete sarà necessariamente “sano” e permeato da principi virtuosi. Infine, non abbiate l’ansia e l’aspettativa di ritrovarvi con un campione: è un privilegio che spetta a pochissimi. Ma poco male: lo sport, quando è pulito, forma prima una persona e poi un atleta.
G. De Luca, L’allenamento della velocità. Il sistema di Charlie Francis, ed. Ateneapoli, Napoli 2011, pp. 110, euro 18.