“Finzione plasmata di retorica e di musica”: tale la poesia stessa per Dante, amico del misterioso musico Casella, ed amatore egli stesso di musica, fra la linearità ieratica ed intemporale del gregoriano e le nitide e severe arcate contrappuntistiche dell’incipiente Ars Nova.
Si può forse dire che, nel corso degli anni, Forlivesi sia rimasto, anche nella sua principale carriera di compositore (carriera dal respiro internazionale, che spazia dalla formazione presso l’Accademia di Santa Cecilia e l’IRCAM di Parigi ai numerosi riconoscimenti, come il Premio Yamaha, alle esecuzioni da parte di orchestre e pianisti di rilievo), fedele a quello stretto rapporto intercorrente fra “idee” e “strutture”- come a dire fra pensiero ed espressione, etimo interiore e sottilissima, tormentosa elaborazione tecnica – da lui teorizzato anni or sono in alcune pagine saggistiche.
Allo stesso modo che il poeta di Quasi come un niente alterava in modo sottile, larvato, come agendo dall’interno, le forme della tradizione lirica, quali la ballata, il sonetto, il madrigale (“d’intorno, il silenzio misura / la distanza fra noi, che come il cielo / nella nebbia ci guardiamo per scienza / misteriosa”), così, con impegno e consapevolezza ancor più vigili, il Forlivesi compositore rivisita e ripensa (sulla scia, almeno in partenza, della ineludibile lezione offerta dalla dodecafonia e dal serialismo) tutte le più svariate forme e possibilità della polifonia.
Eppure (come ricordava Berio a conclusione delle sue lectures americane) la musica traduce proprio il “Mistico” di Wittgenstein – l’ineffabile, l’indicibile, “ciò di cui non si può parlare”. Così, nella Mutter Morte (che ha avuto l’onore di una rigorosa prima esecuzione da parte della Tokyo Symphony Orchestra), le più diversificate campiture sonore (da certi crescendo quasi wagneriani alle masse strumentali tumultuose e policrome di un Webern fino, forse, alle sequenze stridenti, taglienti, tesissime, di uno Stockhausen o di certo Berio) a un dato momento si diradano e si assottigliano per far emergere il dilatato, protratto, esilissimo lamento di una sola voce, di un nudo e fragilissimo stame di note tenute ma gementi – simbolo sonoro, forse, proprio della Mutter Morte, della tragicamente ambigua ciclicità (quasi alchemica nel senso junghiano) di origine ed abisso, genesi e disfacimento, vita e morte.
Analogamente, la Passacaglia (genialmente rivisitata da Forlivesi, ancora sulle orme di Webern, con erudita varietà di soluzioni armoniche, timbriche, agogiche, contrappuntistiche, e splendiamente eseguita, a Chicago, da Amy Dissananayake, interprete squisita, finissima, e insieme tecnicamente armata) si disviluppa e si rinsalda intorno ad un motivo quasi minimalista, ad un grumo di note ossessivamente ribattuto – quasi un accenno di perpetuum mobile, che evoca l’eterno ritorno dell’uguale ma suggerisce, in pari tempo, una possibile apertura all’oltre, un aggancio all’imperitura persistenza del fondo puro dell’essere, una volta che siano stati, infine, infranti i vincoli stessi di quell’ossessiva iterazione. Si potrebbe ripetere ciò che Glenn Gould, in veste di musicologo rapsodico e rabdomantico, osservava a proposito della polifonia e del contrappunto bachiani: cioè che ogni singolo elemento, ogni minima frase, tema, motivo, accenno o spunto melodico, sembrano sempre e comunque attendere un’eco, una risposta, una corrispondenza, un compimento e un inveramento protesi nell’oltre, come a figurare musicalmente una temporalità dilatata ed aperta all’eterno, per un naturale ed essenziale senso del sacro. La musica, che, dice Eliot, come anche le arti della parola, della forma, del colore, vive “solo nel tempo”, nondimeno aspira ad emanciparsene, a redimersene, a svanire e congelarsi nel bianco deserto nivale e celeste di ciò che è oltre la mortalità, oltre la storia e l’umano.
Questo discorso musicale (alieno da ogni effimero effetto spettacolare, da ogni esteriore virtuosismo, germinato e sorto a stretto contatto con un retroterra di verità prime ed essenziali, asceso da una voragine di pathema autentico e vivo ma intellettualmente purificato, filtrato, sublimato, reso solida e malleabile materia d’arte) sembra assiduamente teso a trascendersi, a vincere se stesso, ad attingere il mentale e spirituale silenzio di una musica ficta, di una sonorità interiore e meditata, che potrebbe quasi (come quella dell’ultimo Bach) prescindere dalla concretezza della strumentazione, dal corpo dell’esecutore e dalle vibrazioni dell’aria, per librarsi nella sua rarefatta gloria di pura idea. La sostanza sonora, le stratificazioni e le concrezioni storiche e formali si aprono alla trascendenza, all’essere, al mistero – alla possibilità estrema e sconfinata dell’eterno.
Il dialogo (per così dire post-tonale) fra voce e silenzio, pienezza sonora e subitaneo deserto della pausa, nitore sapiente della forma predeterminata e calcolata ed apparente (ma ugualmente programmata) entropia dell’informe, dell’irregolare, del difforme, dell’imponderabile, del – secondo i canoni, relativi e parziali, dell’Occidente – “rumore”, si intreccia e si dipana in modo particolare nelle Nuove musiche per biwa (strumento tradizionale giapponese assimilabile al liuto), che saranno eseguite, in occasione dell'”Ottobre Giapponese”, da Yukio Tanaka, fra i massimi virtuosi dello strumento (Ravenna, Teatro Alighieri, Sala Arcangelo Corelli, 20 ottobre 2008, ore 21).
Se la tradizione occidentale – da Mozart fino al Debussy di Pagodes e a Ravel – ha in genere accolto le suggestioni dell’Oriente adattandole ai sistemi (fossero quello tonale, quello modale o quello esatonico) che le erano già in vario modo connaturati, Forlivesi invece immerge, fino a compenetrarvelo nelle intime fibre, il proprio pensiero musicale nelle sonorità (per noi) stridenti, stranianti, per così dire spaesanti, del biwa: che (a differenza, in questo, del liuto) sembra non tanto riecheggiare la voce umana (come per una ritrovata armonia fra creatura e strumento, natura ed arte), ma, semmai, farne emergere e risonare le armoniche più segrete, inquietanti, perturbanti, telluriche – finanche, all’apparenza, nodose ed impervie.
Anche la voce recitante, cui è affidata la lettura del testo (il Leopardi poeta della luna), dialoga e si misura (quasi come in una sorta di nudo recitativo sospeso sul silenzio indefinito, sulla pausa danzante e dilatata, franti, di tanto in tanto, dalla selvosa, materica secchezza, pur essa stessa tremula, vibrante, umana, di certe sonorità percussive) con la quiete, il vacuo, l’inane.
Dalle filosofie orientali (come, in fondo, da certa mistica dell’Occidente medievale) Forlivesi ha appreso che il Vuoto, il Silenzio, il Nulla, la stessa Morte possono celare la pienezza dell’essere, alludere a una sorta di Eden ulteriore, meraviglioso e segreto, da raggiungersi attraverso la spogliazione e lo svuotamento del Sé. Tanto il nirvana quanto la kenosis cristiana sono, in fondo, vie alla Grazia, sentieri tesi verso la contemplazione (senza più il velo ingannevole delle “vane forme” terrene) del nudo essere, della pura vita, della verità immersa nella piena luce del disvelamento.
Anche per questo, Schopenhauer poteva dire – sedotto anch’egli dall’Oriente – che la musica è “metafisica in suoni”, linguaggio ancor più disincarnato, libero e puro del pensiero stesso.
E si deve auspicare che anche il pubblico abbia – come dice un poeta latino – “aures purgatae”, orecchie pure, per poter recepire e far propria questa musica “totalmente altra”, incommensurabilmente “diversa”, venuta da lontano con un viaggio tortuoso e paziente, risorta dalla bocca dei secoli per dischiudere una delle tante voci che avvicinano l’uomo alle soglie dell’essere, alle dimore del vero, alle celate sorgenti della luce.
Come scriveva un antico poeta giapponese, “Afferrandosi a un sostegno, ci si sperde nel nulla; / Lasciandolo andare, si riconquista l’origine. / Da quando è cessata la musica, nessun’ombra ha toccato / La mia porta: di nuovo la luna del villaggio è sopra il fiume”.
Matteo Veronesi
http://www.alya.it/forlivesi/forlives.htm
http://www.ascig.it/ottobregiapponese/ottobregiapponese2008.html