(voce di Luca Grandelis)

Pop filosofia, a cura di Simone Regazzoni, il nuovo melangolo, Genova 2010.
Prologo di Simone Regazzoni e saggi di Jadel Andreetto, Simone Regazzoni, Girolamo De Michele, Francesco Vitale, Peter Szendy, Lorenzo Fabbri, Tommaso Ariemma, Giulio Itzcovich, Laura Odello, Francesca R. Recchia Luciani.

D. La novità, è stato detto, è tale solo nella misura in cui è in relazione all’esistenza di una grandezza passata. E l’asserto potrebbe valere per ogni avanguardia che non si esaurisca nel gesto arbitrario e provocatorio. Forse, vale anche per una avanguardia filosofica come la pop filosofia, che opera un trattamento della novità trasvalutando le tradizionali categorie del pensiero attraverso l’istituzione di un pensiero che si realizzi per contaminazione. Che la pop filosofia che lei pratica non prescinda dai maestri del passato è evidente, sebbene l’obiettivo non fosse quello di legittimarsi o di delegare una reggenza ad altro ma di incrociarsi con la popular culture, ambito che, come lei afferma, è divenuto indispensabile per una filosofia che non sia solo autoreferenziale. L’innovazione allora sta nella maniera di assumere la tradizione filosofica, nel farla interagire con le cose con le quali la cultura di massa quotidianamente si confronta. Che stima ha lei del senso comune, come si figura il lettore non specialista alle prese con i suoi libri, di non facilissima lettura? Se, come lei stesso scrive, la pop filosofia è crossover in senso lato, dunque anche per il fatto che essa giunga «a un pubblico che di norma non legge filosofia»?

R. Lei giustamente afferma che l’innovazione è al fondo, nietzschianamente, una trasvalutazione della tradizione filosofica. Partiamo daqui, e proviamo a vedere quale tipo di torsione assuma, nel campo della pop filosofia, la trasvalutazione. Direi che la pop filosofia – per la libertà che si prende in rapporto alla tradizione in termini di montaggio concettuale, genere e registri di scrittura (nessun genere e nessun registro sono esclusi a priori) – è un buon modo per pervertire l’eredità filosofica, in tutti i sensi di questa parola con cui credo potremmo tradurre liberamente l’idea heideggeriana di Verwindung o radicalizzare quella derridiana di decostruzione. Non si tratta di legittimare il pop con i grandi nomi: ma solo di mettere in chiaro che nella pop filosofia non è in gioco una liquidazione a buon mercato della filosofia, bensì la sua radicale perversione. Uso il termine di «perversione» per segnalare che, al fondo, si tratta di godere in modi non canonizzati, e impresentabili nell’ambito della buona famiglia accademica, del corpus filosofico un po’ come Quentin Tarantino gode del corpus cinematografico. Rispetto a un’idea «alta» dell’amore per il sapere – che ha sempre più, in Italia, i tratti del kitsch filosofico inconsapevole – questa perversione è anche una degradazione quale effetto della inevitabile contaminazione tra alto e basso. Ora, come interagisce questa Cosa perversa e degradata con il senso comune del lettore non-specialista? Semplificando un po’ diciamo che, da un lato, si tratta di sollecitare il senso comune del lettore non specialista mediamente colto che si interessa di filosofia, ma ne ha un’immagine midcult à la Mancuso-Marzano. Dall’altro – e per me è qui l’aspetto più interessante, e la sfida della pop filosofia – si tratta di arrivare a un pubblico più giovane, immerso nel mondo della cultura di massa, e che proprio a partire dalla cultura di massa arriva alla pop filosofia. La pop filosofia sta alla filosofia come i romanzi di genere stanno ai romanzi«letterari». Da qui l’esigenza di non presentare i libri pop-filosofici in modo midcult, ma radicalmente pop: essi devono essere in tutto e per tutto oggetti di cultura di massa, a loro modo commerciali, a partire dai titoli. Al limite possono giocare con i tanto vituperati «gadget», vale a dire con oggetti particolari che unisco il loro essere quasi inutili e la capacità di attirare l’attenzione e generare il desiderio per come si presentano. In termini lacaniani potremmo dire: oggetti a. In questo senso il mio libretto su Lost è anche un gadget legato alla serie. In Spagna è stato presentato in molte librerie insieme ai mille gadget ispirati alla serie e non nel settore riservato alla filosofia. Alcuni mi hanno detto: «ma così c’è il rischio che venga perso il suo valore filosofico». In realtà io ero felicissimo di questo divenire-gadget del mio libro. Secondo una delle sue etimologie la parola «gadget» deriverebbe dal vero francese «engager» «impegnare». Pervertendo la vecchia e nobile nozione filosofica di «engagement» cara a Sartre, potremmo dire che una certa gadgettizzazione della filosofia è oggi una forma perversa di impegno. Inoltre, perché la strategia pop filosofica sia efficace – e non sempre lo è, occorre riconoscerlo: Pop filosofia è un esperimento che giudico non riuscito: non ha saputo trovare la giusta formula – occorre lavorare molto sulla scrittura e sulla scelta dei temi. Perché è indubbio che la pop filosofia deve saper cogliere mode culturali della cultura di massa e onde da cavalcare.

D. Nel leggere Pop filosofia è percepibile la sostanziale divergenza tra la prospettiva, o più propriamente detto la pratica popfilosofica della transazione semantica, del tramare con le opere della finzione, e la tendenza da parte dei filosofi a scendere nelle piazze. Ritiene una conquista la partecipazione degli intellettuali a festival o a contesti che mescolano codici e segni disparati?

R. Prima la risposta, secca: sì, ben vengano i festival e le piazze in cui si parla di filosofia. Però sarebbe auspicabile che la filosofia trovasse nuove posture per stare in piazza e nuovi linguaggi. La riproposizione in piazza della lectio è debole. Ci vorrebbe una vera filosofia di strada, che avesse il coraggio di recuperare generi di strada come ad esempio la diatriba cinico-stoica (linguaggio basso, violenza verbale ecc.), contaminandoli con la cultura pop. Cosa che l’accademico nostrano, oggi, non è in grado di fare per diversi motivi, tra cui la paura di dover decostruire la propria figura sociale che coincide con quella dell’intellettuale, e quindi di perdere credito. Sulla scena internazionale c’è un solo filosofo che ha saputo attaccare l’immagine dell’accademico-intellettuale senza perdere forza e credibilità, e anzi imponendosi come uno dei pensatori più interessanti in circolazione: è Slavoj Žižek. Il vero problema è proprio la figura dell’intellettuale da lei evocata: credo che il filosofo abbia una vitale necessità, oggi, di non-essere un intellettuale, o meglio, non fare l’intellettuale, di non recitare il comodo ruolo sociale dell’intellettuale. Oggi gli intellettuali sono guardiani del sapere umanistico di cui si limitano a ripetere le formule come se fossero esorcismicontro la radicale trasformazione in atto del mondo. Il filosofo, prendendo atto che quel modello di sapere è definitivamente chiuso, come ricordava Sloterdijk in Regole per il parco umano, deve muoversi nel non-sapere, là dove un sapere non è ancora o non è più costituito, là dove ci sono discorsi non-legittimati, non-canonizzati o addirittura additati come pericolosi. Quando parlo di fughe di pensiero intendo proprio la fuoriuscita del pensiero dall’orizzonte del sapere dato in cui invece si muove l’intellettuale. E’ l’unico modo per rispondere in modo non reattivo alla trasformazione radicale in corso. Altrimenti si finisce per diventare tutti dei piccoli Antonio Scurati. In questo senso piuttosto che un intellettuale il filosofo dovrebbe pensarsi come una sorta di idiota speciale, cioè qualcuno che ci sa fare con il proprio non-sapere comeJerry Lewis ne Il mattatore di Hollywood.

D. Uscire dalla purezza, dall’aseità del milieu accademico, scendere dalle cattedre: ma non sussiste la possibilità che l’atteggiamento popfilosofico si trasformi esso stesso, in virtù del carattere intrinseco dello sguardo filosofico (il quale, di per sé, se non per definizione, spesso tende ad atteggiarsi a legislatore), in una forma di snobismo di ritorno, nell’eventuale rivendicazionea sé della competenza a illuminare il senso comune, a educarlo all’autocoscienza, alla presa d’atto della complessità della vita? Nella fattispecie, esplicitando tratti significativi che nelle opere pop altrimenti potrebbero passare inosservati dal comune fruitore, implicitamente ritenuto incapace di una ricezione intelligente? O, detto diversamente: il senso comune ha, o ha avuto, una reale esigenza di fare assegnamento sulla filosofia per non vivere inconsapevolmente? In breve, il dialogizzare del leopardiano «pastore errante» è solo una metafora occasionale?

R. La questione del filosofo-legislatore intreccia perfettamente quella dell’intellettuale-legislatore di cui occorre, senza troppa nostalgia, liberarsi. Il rischio che lei paventa è ben presente: lo si ritrova in alcuni filosofi accademici che scrivono libri adatti al vasto pubblico che vorrebbero illuminare. E’ una postura paternalistico-pedagogica per cui non nutro il minimo interesse, per questo tendo a sottolineare il momento ludico e legato al godimento della pop filosofia. Detto questo, occorre precisare che la lettura e l’interazione-contaminazione della filosofia con la cultura di massa è solo uno dei possibili usi di questa cultura, non certo il disvelamento della sua profonda verità che il fruitore, da solo, non saprebbe comprendere. Ad esempio: nella Filosofia di Lost scrivevo che il mio testo era una specie di spin-off filosofico della serie, non certo la sua Vera interpretazione. Trovo sospetta l’idea di aiutare qualcuno a vivere«più consapevolmente»: è ancora parte del paradigma dell’intellettuale legislatore che dall’alto della sua cultura giudica le masse. Piuttosto diciamo che la filosofia mette in circolazione armi concettuali: ciascuno è libero di farne l’uso che crede, o di non farne uso. Si tratta di aumentare il «traffico» dei concetti facendo in modo che non siano gli accademici gli unici a controllarne la circolazione. Certo, c’è una polizia accademica che è prontadenunciare questo traffico come pericoloso. Penso, ad esempio, a un indimenticabile articolo di Nicla Vassallo sul Sole24ore intitolato «Sopravvivere al pop pensiero» o a una rticolo pubblicato su «Repubblica» da Maurizio Ferraris:«Critica della ragione pop». Perché due ordinari si sono sentiti in dovere di intervenire contro la pop filosofia? Per una ragione molto semplice: traffico filosofico extra-accademico è sempre più pericoloso perché mostra tutti i limiti, soprattutto oggi in Italia, di un’accademia che non è più in grado di produrre filosofia.

D. Questo concentrarsi e interrelarsi del discorso filosofico su mode, perlomeno a una vista superficiale, effimere come quelle che caratterizzano la società contemporanea non rischia di distogliere l’attenzione dai problemi finora da molti ritenuti essenziali, dalle grandi domande del pensiero, e in particolare dalla domanda metafisica fondamentale, perché esiste l’essere, e non il nulla? La moda, il contemporaneo, alleati e fratelli della morte secondo Leopardi, non rischiano di essere mere ipostasi di un nulla definitivamente separato dall’essere, privo di qualsiasi possibilità di redenzione ontologica e gnoseologica, di qualsiasi significato e rilevanza speculativi? Insomma, la pop filosofia non rischia di essere una delle tante forme dell’«oblio dell’essere»? O essa è, forse, piuttosto, in senso positivo e costruttivo, un momento, forse quello ultimativo e culminante, della secolarizzazione, della demitizzazione, del disincantamento del mondo? Ovvero, una visione speculare dell’età contemporanea, crossover anch’essa di realtà e finzione?

S. Credo si possa rispondere in due modi alla sua domanda.
1. Si può dire che è possibile porre le gradi questioni metafisiche, compresa la questione metafisica fondamentale, lavorando con la cultura di massa. Si tratta semplicemente di cambiare canone: invece di usare i classici o i testi che in un certo momento storico sono classificati come cultura alta, si scelgono testi pop – o meglio si tratta di ampliare e trasformare il vecchio canone umanistico borghese. Non ho la minima esitazione a dire – proprio perché ci sto lavorando – che, ad esempio, per pensare la questione del rapporto tra etica ed eroismo insieme all’Antigone di Sofocle e alla lettura che ne offrono Lacan o Reinhardt si debbano analizzare anche Kill Bill di Tarantino, il Batman di Miller e poi di Nolan e Kung fu Panda. Le uniche difficoltà sono quelle legate allo statuto intellettuale di chi scrive: se un filosofo scrive un testo banale lavorando sull’Antigone avrà meno difficoltà a far passare quel testo per un testo «veramente» filosofico rispetto a un filosofo che scriva un testo originale lavorando su Kill Bill. Un oggetto culturalmente non-legittimato rischia di gettare discredito sul discorso che lavora su di esso. Ma occorre cominciare a pensare che la rilevanza speculativa di un pensiero non è direttamente proporzionale al grado di legittimazione culturale che ha il suo oggetto. Anzi, mi sembra che sempre più sia vero il contrario: l’oggetto legittimato è un buon modo per ottenere facilmente distinzione intellettuale.
2. Per parte mia, auspico che la decostruzione della metafisica proceda senza nessuna nostalgia heideggeriana per l’essere perduto: dunque lavorare con alcune tendenze della contemporaneità per me resta essenziale anche per formulare nuove questioni. Dico questo con il massimo rispetto per un filosofo che per me resta un punto di riferimento essenziale insieme a Derrida: e cioè Heidegger.

D. La pop filosopfia, proprio perché trae spunto dalla comunicazione di massa, induce lo spettatore-lettore a una fruizione attiva, fattiva, vigile, non più convenzionale, predeterminata, votata alla passività. La messa in atto del paradigma del crossover potrebbe, dunque, rappresentare, dal punto di vista del pubblico e dell’interprete, un’innovazione ancora più radicale rispetto a quella, poniamo, delle avanguardie storiche, ma anche dell’arte concettuale, della Neovanguardia o della musica atonale o di quella concreta, che si ponevano ancora come arte impegnata e impegnativa, come alta cultura, come opera elitaria, e non uscivano dunque dal circuito della convenzione. Trasgredivano, per così dire, all’interno e dall’interno del recinto sacro della convenzione estetica, senza infrangerlo e senza travalicarlo: l’urinatoio è trasgressivo e spiazzante solo se esposto in un museo, dunque nel luogo deputato e consacrato all’arte, non lo sarebbe in un bagno pubblico; il rumore frammisto alla musica può sorprendere in un teatro, sarebbe invece normalissimo per la strada […]

R. Concordo: le avanguardie e le neoavanguardie hanno ancora bisogno, per funzionare, delle regole che trasgrediscono in modo eclatante, del sacro che dissacrano, del gusto a partire da cui generare disgusto. Tali regole devono fare da sfondo e supporto all’operazione avanguardistica che mira a scandalizzare. Ma è un’operazione che ha un’efficacia limitata nel tempo: ben presto la trasgressione viene recuperata alla norma, l’avanguardia si museifica o viene capitalizzata dal sistema economico dell’arte contemporanea, come ha ben intuito il pubblicitario Charles Saatchi «creatore» di Hirst. Dico questo da ammiratore delle avanguardie e delle neoavanguardie: il loro lavoro di distruzione è stato fondamentale. Quando studiavo filosofia a Genova evitavo sistematicamente i noiosissimi corsi dei vari filosofi analitici presenti per seguire le lezioni di Edoardo Sanguineti, che per me resta una figura esemplare in grado di unire il massimo del rigore e la più radicale e spregiudicata libertà. Sanguineti è il raffinatissimo dantista, il poeta geniale di Laborintus, ma anche l’intellettuale disposto a posare per una pubblicità dei jeans Carrera o ad andare al festival di San Remo. La pop filosofia ha la stessa spregiudicata libertà delle avanguardie e il loro gusto per il gioco e la provocazione anche, ma, da un alto, non ha come punto di riferimento le norme da trasgredire e, dall’altro, lavora per arrivare ad un pubblico di massa perché si presenta come opera pop in uno spazio culturale dove oggi le opere pop sono oggetti complessi che richiedono al fruitori un’attiva collaborazione.

D. Ora, i reality, gli anime, i graphic novels, i film di genere fino a non molto tempo fa erano opere ancora non canonizzate in quanto tradizionalmente ritenute estranee al regno della grande arte, oggetti di una fruizione bassa, popolare, meno nobile; opere considerate «di genere» in un senso deteriore, svilente. Perché secondo lei?

R. E’ un discorso lungo: bisognerebbe prendere in esame la questione di come, nelle varie epoche, si definisce che cosa è arte e che cosa non lo è, come vengono articolate le differenze tra le arti più o meno nobili e come lavorano le leggi non-scritte che regolano i passaggio tra il fuori e il dentro. Con il Novecento e la nascita della cultura di massa è iniziato un processo irreversibile di decostruzione di un sistema culturale a cui «l’intellighenzia cosiddetta colta», per usare una formula di Morin, ha provato in ogni modo a resistere per preservare il proprio statuto intellettuale. Non tutti naturalmente hanno reagito così, ma il processo di elaborazione del nuovo paradigma culturale di massa è stato lungo, difficile e per molti versi è ancora in corso.
Quando, insieme ad altri, sotto lo pseudonimo Blitris, scrissi un libro su Dr. House, nessun filosofo si sognava di nominare le serie tv (di cui oggi invece parlano benissimo anche i Cahiers du Cinéma), mentre a me sembrava chiarissimo che lì stesse accadendo qualcosa di straordinario: opere di grande qualità estetica e complessità che riuscivano a coinvolgere il vasto pubblico. Ricordo ancora la reazione scomposta di Nicla Vassallo in un articolo sul «Sole 24 ore» (Sopravvivere al pop pensiero) che lamentava la degenerazione della filosofia con formule del tipo: «Quali sono le nostre priorità? Serie televisive, incantesimi, pettegolezzi, dottrine pedestri, oppure felicità, moralità, fede». La decostruzione è in corso, ma è chiaro che c’è ancora molto da lavorare.

D. Nei suoi, saggi, come detto, la cultura di massa interagisce in modo originale con la tradizione filosofica. Come affronta, a livello avantestuale, nella prospettiva di una «infestazione», la tranche della «molteplicità aperta di mondi interconnessi alla cui produzione e al cui conflitto ( […]) partecipano, essenzialmente, i mezzi di comunicazione e la cultura di massa» che elegge per quella che lei chiama «fuga di pensiero» o «messa in opera del pensiero»?

R. Tutto inizia sempre tramite quella che mi piace chiamare, con un termine analitico, attenzione ugualmente sospesa. Guardo tv, leggo romanzi di genere di ogni tipo, graphic novel (gioco anche con i video games, ma qui il problema è che prendono moltissimo tempo […] ) mescolando tutto ciò con la lettura di testi filosofici. Spesso, mentre guardo la tv o leggo un romanzo, prendo appunti, annoto qualcosa, anche solo un frase, una battuta che penso possa tornarmi utile prima o poi (il libro su Harry Potter nasce da una serie di appunti presi durante la lettura, in un periodo in cui guardavo Lost e leggevo Badiou e Zizek). A volte quello che in quel momento sto leggendo di filosofia interagisce con quello che vedo in una serie tv. Certo, questo accade a tutti, ma io presto la massima attenzione a queste interazioni e alle composizioni delle mie letture e visioni. Il montaggio pop filosofico avviene già a questo livello. Poi arriva l’idea di scrivere una certa cosa, e allora mi focalizzo su tutto ciò che può nutrire quell’idea, e intanto penso a quale genere di scrittura adottare per la fuga di pensiero. Non si tratta infatti, per me, di scrivere semplicemente dei «saggi su», ma di scrivere libri che pratichino generi di scrittura diversi e stili diversi. Il mio prossimo libro che uscirà a gennaio è una riscrittura della diatriba stoica attraverso il genere televisivo della sit-com (una phil-com), con protagonista Heidegger re di Times Square per una notte. Da qualche anno, poi, sto lavorando a un thriller filosofico sulle origini della filosofia (si intitola L’altro inizio) che mette insieme romanzo di genere, filosofia e trama complessa in stile serie tv. Questo per dire che per me non ci sono limiti alla sperimentazione di genere.

D. Che ne pensa della tendenza a suffragare argomentazioni, talora senza riferimenti né vincoli con il mondo reale, richiamandosi alle varie etimologie? Secondo lei, il frequentissimo etimologizzare anche in filosofia costituisce una forma di rifugio, o un tentativo di esplicitare dei nessi tra le cose, un segno di mistificazione o una consuetudine che suppone un ostacolo?

R. Non ho nulla in generale contro l’uso dell’etimologia nell’ambito della filosofia: a patto che non farla diventare l’unico dispositivo del pensiero o il luogo in cui scovare al verità delle cose stesse. Il Dizionario delle istituzioni indoeuropee di Benveniste per me resta uno strumento di lavoro utilissimo (lo uso anche nel mio libro su Lost quando parlo del rapporto tra superstite e testimone), come anche il dizionario etimologico Chantraine (mentre evito accuratamente Semerano, poco rigoroso per i miei gusti), ma sono strumenti tra i tanti.

D. Non è forse possibile che il futuro della filosofia risieda anche e proprio in questo correlarsi con una vita mediatizzata e con gli oggetti finzionali che la evocano o la replicano, o al contrario la anticipano – nella prefigurazione di quell’impensato, perturbante o meno, che popola tanto la rerum natura che le questioni private – con la loro complessa narratività, piuttosto che con tesi troppo aleatorie e irrealistiche, ancorché affabulanti, che il lettore del terzo millennio sembrerebbe non riuscire più a seguire?

R. Un certo modo di fare filosofia cui lei fa riferimento, se non è finito, è sicuramente chiuso: nel senso che ha perso la sua forza e la capacità di relazionarsi con la complessità. L’accelerazione esponenziale dello sviluppo tecnologico renderà sempre più centrali, nella costituzione di ciò che chiamiamo mondo, e che non è più tale, gli oggetti e gli spazi finzionali; la «realtà» sarà sempre più una rete di mondi complessa in cui si intrecciano indissolubilmente e, si contaminano, verità e finzione mediale. E’ con questa complessità e con le sue ricadute su ciò che chiamiamo pensare oggi, ancora legato a una certa idea di scrittura, che la filosofia deve cominciare a fare i conti senza esorcismi.

D. Sotto certi aspetti, per la sua attenzione al contemporaneo e alla cultura massmediatica, la popsophia è una forma di neo-realismo filosofico. Che cosa la differenzia allora dal neo-realismo vintage di cui lei ha parlato a proposito di Maurizio Ferraris? Forse il fatto che la popsophia non è una forma di «realismo ingenuo», ma, al contrario, investiga quella che Nietzsche chiamava la «profondità della superficie», va alla ricerca dei messaggi celati in una comunicazione – quella massmediatica – che può apparire superficiale? Proprio perché non edulcorata, anzi ostentata, penetrata, squarciata, quasi ginecologicamente o chirurgicamente notomizzata, la carnalità della pornografia (e della pornosophia) può costituire una forma di neo-realismo non vintage, non rassicurante, non addomesticato, ma, direbbe Freud, Unheimliche, perturbante, anche per l’ipocrita alone di censura che ancora l’avvolge? E non è forse, il solitario e liberatorio orgasmo del fruitore di pornografia, sempre in termini freudiani, «abreazione» (scarica, décharge diceva de Sade), risposta salutare al «disagio della civiltà»?

R. La formula neo-realismo è, ai miei occhi, troppo ambigua per poter essere utilizzata. Reca in sé proprio l’idea di un ritorno alla realtà senza tanti orpelli, senza troppi giri di parole: è il messaggio del realismo ingenuo di Ferraris come filosofia che si appoggia sul senso comune e prova a riassicurare e rassicurasi. La stessa pornografia, come ho provato a mostrare, è un’unione indissolubile di realtà e finzione. Per parte mia penso la realtà nei termini di una riscrittura aggiornata all’epoca mediale della rete testuale derridiana che, a sua volta, presuppone l’idea nietzschiana di un primato dell’interpretazione.

D. «Neo realismo», formula che non può non richiamare, anzi assume essa stessa, una caratterizzazione resistenziale, nella duplice accezione della resistenza a certa affabulazione anche speculativa che non si traduce in concretezza di pensiero, e della resistenza del mondo esterno alle nostre arbitrarie interpolazioni. Non crede che tornando ai fatti, alle cose verificabili, anche il soggetto abbia tutto da guadagnare?

R. No, il problema è che non credo ai fatti intesi come cose, eventi o un insieme di questi elementi sussistenti indipendentemente dai soggetti. Delle «cose verificabili» non parla nemmeno più la scienza, per tutta una serie di problemi che l’epistemologia del Novecento ha mostrato. Ciò che chiamiamo realtà è sempre per me l’effetto di una qualche interpretazione.

D. Cosa muove la gente a tentare di scorgersi nelle fiction, a seguire ossessivamente reality o serie tv, di cosa veramente si va alla ricerca mentre si crede di fruire di un momento di spensierato relax, e, soprattutto, cosa ci si aspetta di trovare in trame talora remote dalla nostra quotidianità, benché strettamente connesse con quello che ci circonda? Paradossalmente, forse anche una filosofia mutante che si intersechi con la finzione – dunque un discorso, in qualità di crossover, non di grado secondo – può costituire un antidoto contro l’irrealtà, contro l’epigonica condivisione del rassicurante (nel senso di evasione nell’irredimibilmente astratto o nel palesemente fallace), contribuendo fattivamente a una più aggiornata meditazione sull’esistenza? In altri termini, futuro della filosofia non può forse risiedere anche, ma non solo, nel confronto con la cultura di massa, più concreta, accertabile e condivisa rispetto all’astrazione un poco velleitaria delle grandi domande, delle immense ma inverificabili questioni metafisiche?

R. Visto che le teorie circa il perché amiamo storie e finzioni sono molteplici e richiederebbero lunghe analisi risponderò con una battuta: dove il soggetto potrebbe trovare «se stesso» se non in una qualche finzione? Detto questo io non sottovaluterei nemmeno i momenti di relax o di svago spensierato: quelli che ci piacciono così come sono e per cui non dobbiamo giustificarsi. Fettine di godimento idiota, se vuole, ma pur sempre fettine di godimento di cui dobbiamo rivendicare il diritto. Ci sono serie tv e sit-com degli anni ottanta che adoro: non sono complesse, non sono capolavori, ma adoro guardarle. Circa l’avvenire della filosofia ho già detto. E comunque sì: credo sia essenziale un confronto anche, ma non solo, con la cultura di massa.

 

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