Protagonista assoluta del romanzo, come il titolo anticipa, è Consuelo, di cui George Sand ci dà quest’efficace e lapidaria descrizione:

«giovane artista, figlia d’una povera zingara, alunna d’un grande maestro, e innamorata di un bell’avventuriero.»

 

Venezia, 1748. “La Zingara”, madre di Consuelo, dopo una vita di continui spostamenti di città in città per guadagnarsi da vivere cantando in piazze e trattorie, si ferma, ammalata, a Venezia, dove poco dopo muore. La giovane Consuelo rimane da sola nella povera casa della corte Minelli, un quartiere popolare della città; è amata dai vicini per il suo carattere solare, ammirata da tutti per la sua splendida voce, ma compatita per l’aspetto dimesso e “il volto scialbo e palliduccio”, che dà alle compagne della scuola di canto un pretesto per deriderla:

«Consuelo è brutta – soggiunse un’altra. – È gialla come un cero, e i suoi grandi occhi non sanno proprio di niente. Ed è sempre così mal vestita!»

Le sue doti canore ne fanno l’alunna prediletta del maestro Porpora, uno dei tanti personaggi storici che appaiono nel romanzo, celebre compositore operistico che, dopo una brillante carriera dapprima a Roma, poi a Napoli, Vienna, Venezia e Dresda, superato in fama da rivali come Johann Adolf Hasse e Friedrich Händel, ritornò a Venezia, come maestro di coro in due Conservatori, l’Ospedale della Pietà e l’Ospedaletto.

Nella chiesa dei Mendicanti, durante le prove generali dei gran vespri, Consuelo canta il Salve Regina di Pergolesi, e la sua voce incanta il conte Giustiniani, nobile dongiovanni veneziano amante della musica e direttore del teatro San Samuele; dopo averla vista, però, egli scarta con disdegno l’idea di assumerla nel suo teatro, esclamando inorridito: «Quel mostricciattolo! quella cavalletta secca e nera?»

Quattro anni dopo, quando Consuelo è diciottenne, la stessa chiesa diviene, davanti agli occhi dello stesso Giustiniani, lo scenario della metamorfosi in cigno del brutto anatroccolo:

«Non appena i primi accordi dell’orchestra chiamarono Consuelo al suo posto, ella si rialzò lentamente; la mantiglia le ricadde sulle spalle, e il suo volto si rivelò infine agli inquieti e impazienti spettatori della tribuna vicina. Ma quale miracolosa trasformazione s’era compiuta in quella giovane testè così pallida e abbattuta, così spaventata dall’affanno e dall’apprensione! L’ampia fronte pareva immersa in un fluido celeste, un soave languore avvolgeva i dolci e nobili lineamenti del suo viso generoso e sereno. Il suo pacato sguardo non rivelava nessuna delle meschine passioni che ambiscono e perseguono i volgari trionfi. Era in lei un alcunchè di grave, di misterioso, di profondo, che imponeva il rispetto e induceva la tenerezza.»

Da quel momento in poi, a partire dall’infedele “fidanzato” Anzoleto (il barcaiolo ed aspirante cantante che solo allora si accorge della sua bellezza), quasi tutti i personaggi maschili che incrocia nelle sue peregrinazioni, giovani e vecchi, popolani e nobili, laici e uomini di chiesa, sono attratti da lei, perfino quando appare loro sotto le sembianze di un giovane contadino.

Il conte Giustiniani, colpito dal talento e dal fascino di Consuelo, la fa esibire al teatro San Samuele, dove la giovane ottiene un clamoroso successo di pubblico e critica, attirando però l’invidia degli altri cantanti e perfino di Anzoleto. E proprio quando Consuelo sta pensando all’abito da sposa per il sospirato matrimonio, un imprevisto sviluppo delle vicende porta al repentino e radicale cambio di scena.

Il teatro dell’azione, a partire dal capitolo XXII, si sposta in Boemia, a Bareith, nel castello dei Giganti, immerso in un paesaggio ossianico che cogliamo attraverso gli occhi di Consuelo, inviata qui come insegnante di musica dal maestro Porpora:

«Invero, al dolore profondo che gravava il suo povero cuore e alla stanchezza d’un lungo e rapido viaggio, s’era venuta aggiungendo nell’animo di Consuelo una penosa, quasi angosciosa impressione, fra quelle vaste foreste d’abeti squassate dalla tempesta, in quella lugubre notte solcata da lividi lampi, e soprattutto alla vista di quel cupo castello, dove gli ululati della muta del barone e il chiaror delle torce portate dai servi mettevan note davvero sinistre….»

Nel castello, che appare alla giovane altrettanto lugubre, s’innamora perdutamente di lei il figlio del conte Cristiano, Alberto, ritenuto da tutti pazzo per la sua accesa spiritualità e per la fanatica devozione al culto degli antenati hussiti, dei quali nelle crisi di follia si crede una reincarnazione. Vedendola come la sua unica possibilità di salvezza, vorrebbe sposarla, ma Consuelo è incerta sui propri sentimenti, ancora legata, suo malgrado, ad Anzoleto, ma anche attratta dal cupo fascino del conte. Un altro colpo di scena, stavolta piuttosto improbabile, imprime una nuova svolta alle vicende: Anzoleto, in viaggio verso Praga, passa proprio vicino al castello, e vi si ferma per incontrarla. La contrapposizione fra il paesaggio veneziano e quello boemo, nell’animo di Consuelo, coincide con quella fra i due giovani uomini

«Alberto era per lei il genio del Nord, profondo, possente, sublime talora, ma sempre triste, come il vento delle gelide notti, come la voce dei torrenti che scorrono sotto i ghiacci; era l’anima sognante e indagatrice, che interroga e simboleggia ogni cosa, le notti di bufera, il corso delle meteore, le selvagge armonie delle foreste, le iscrizioni corrose degli antichi sepolcri. Anzoleto era la vita del mezzogiorno, la materia infocata e fecondata dai raggi ardenti del sole e dallo splendor della luce, nutrita d’una poesia unicamente fatta del rigoglio della sua forza vegetativa, della ricchezza del principio organico animatore.»

Amore, stima, affetto filiale, riconoscenza e desiderio di gloria provocano nella protagonista conflitti interiori e incertezze fra scelte diverse, ciascuna delle quali implicherebbe per lei dolorose rinunce. Incapace di decidere, sceglie la fuga, e la scena si sposta dapprima a Vienna, poi a Praga, infine nuovamente nel castello dei Giganti.

Nel susseguirsi delle vicende, la narratrice mantiene costantemente la focalizzazione sulla protagonista, lasciando in secondo piano i personaggi maschili che, appena escono dalla sua vita, escono anche dal romanzo.

A quelli creati dalla fantasia di Sand si affiancano i personaggi storici, come il compositore Porpora (che ritornerà in auge proprio grazie al successo di Consuelo), il cantante Gaetano Majorana, conosciuto come “Caffarelli”, Haydn, Metastasio, Benedetto Marcello (che anacronisticamente incontra Consuelo nel 1748, nove anni dopo la sua morte) e perfino Maria Teresa d’Austria e Federico il Grande.

Non mancano, come in altri romanzi della Sand, echi autobiografici nel carattere e nelle vicende di alcuni personaggi. La canonichessa, castellana di Bareith, appassionata studiosa degli alberi genealogici delle famiglie nobiliari e fiera avversaria della commistione dei ceti sociali, riecheggia la figura della nonna di Sand, che aveva a lungo osteggiato il matrimonio del figlio, discendente del re di Polonia e luogotenente di Murat, con la figlia di un povero venditore ambulante. Alberto, ipersensibile, tormentato da visioni ed allucinazioni, di umore instabile, mostra notevoli affinità con i due grandi amori di Sand, Alfred de Musset e Frédéric Chopin, come il personaggio di Laurent nel romanzo Elle et lui (1859); nel contempo, Sand ne fa il portatore di quei valori, vicini al socialismo umanitario, cui ella si era avvicinata in quel periodo e del suo acceso anticlericalismo, che si esplicita nelle accuse di Alberto alla degenerazione morale della chiesa cattolica:

«Egli odiava i papi, quegli apostoli di Gesù che fan lega coi re contro i popoli. Biasimava il lusso dei vescovi, la mondanità degli abati, le ambizioni degli ecclesiastici tutti.»

Possiamo cogliere poi la polemica contro la parassitaria nobità feudale boema nella descrizione della festa organizzata dal conte di Hoditz in onore della moglie nei suoi possedimenti di Roswald, in Moravia, mirabile dimostrazione del cattivo gusto e del desiderio di ostentare la ricchezza dei nobili del tempo:

«Chi volesse, ne troverebbe la descrizione nelle cronache e nelle memorie del tempo, con quella di molti altri segreti, giochetti, sorprese, tutti ingegnosi, sbalorditivi, e soprattutto costosi.»

Il mondo della campagna, con i suoi costumi patriarcali, non viene idealizzato, ma anzi Sand denuncia le condizioni di miseria e sfruttamento cui sono sottoposti i contadini, sottolineando in particolare, da femminista qual era, la “schiavitù” delle donne.

«Consuelo, dapprima, non aveva potuto trattener qualche sospiro di rammarico, pensando a quei calmi costumi patriarcali, donde la sua professione girovaga tanto l’allontanava; ma osservando quelle povere donne, in piedi dietro i loro mariti, intente a servirli con rispetto, già schiave, per istinto, dei giovani figliuoli; gli uomini incatenati alla terra, asserviti agli aratri e al bestiame, oppressi dal proprietario del suolo, pensò che meglio ancora valeva essere artista o zingaro. Viva la libertà! disse allora a Giuseppe.»

George Sand pubblica Consuelo fra il 1842 e il 1843, sulla rivista parigina “Revue indépendante”, da lei fondata assieme ai suoi amici Pierre Leroux e Louis Viardot; è proprio la moglie di quest’ultimo, la celebre cantante e pianista di origini spagnole Michelle Ferdinande Pauline García, nota come Pauline Viardot, ospite spesso di Sand e Chopin nella loro casa di Nohant, ad ispirare il personaggio di Consuelo, la protagonista del romanzo, mezzo-soprano come lei.

La stesura di Consuelo, a partire dal 1842, procede di pari passo con le uscite mensili della rivista e Sand, che inizialmente intendeva scrivere solo un racconto, viene sollecitata dalle pressioni di lettori ed editori a sviluppare la vicenda ben oltre il progetto iniziale. L’autrice stessa, nella sua prefazione all’edizione del 1854, riconosce i difetti dell’opera, inevitabilmente determinati dalle modalità di composizione:

«Il romanzo non è sempre ben pilotato. Spesso vaga senza una meta, è stato detto; manca di proporzioni. Questa è l’opinione dei miei amici e mi pare fondata. Il difetto, che non consiste tanto in una scucitura, quanto nella sinuosità eccessiva di avvenimenti, è stato la conseguenza del mio solito difetto: l’assenza di un piano.[…] c’è il materiale per tre o quattro bei romanzi. Il difetto è stato aver ammucchiato troppe ricchezze brute in uno solo. Queste ricchezze mi venivano a profusione dalle letture che affiancavo al lavoro. C’era più di una miniera da esplorare e non riuscivo a resistere alla voglia di attingere qualcosa da ognuna, col rischio di non mettere bene in ordine le mie conquiste.»

Il risultato finale è un’opera monumentale (1052 pagine in questa edizione) in due volumi, in cui si mescolano i sottogeneri del romanzo gotico, d’amore, d’avventura, di formazione; non mancano lunghe digressioni, talora un po’ tediose e ripetitive (in particolare sui conflitti religiosi e sulla musica popolare della Boemia), legate alla volontà di Sand di riportare almeno in parte quanto andava leggendo, parallelamente alla stesura, per documentarsi sul contesto storico, religioso e culturale delle vicende.

Quella che l’autrice definisce “assenza di un piano” è percepibile nell’intreccio, in uno snodarsi non sempre coerente delle vicende, in colpi di scena talora poco verosimili. Anche la costruzione dei personaggi, in particolare Consuelo e Alberto, risente della mancanza di una revisione ed essi appaiono in più di un’occasione poco coerenti.

La narratrice, nel rievocare quella che definisce una veridica storia, si mimetizza dietro l’alias di un anziano narratore (quando viene pubblicato il romanzo, nel 1843 Sand ha invece solo 39 anni):

«Mi dirai, caro lettore, che non hai mai conosciuto una così eccezionale natura; ed io ti risponderò che ne ho conosciuto una sola, pur essendo più vecchio di te.»

Si rivolge talora direttamente al lettore, e più spesso alla lettrice («Ma la lettrice di spirito forte che ci siamo assunti di dilettare»), con il fare suadente di un uomo di mondo («Vediamo un poco, Signora, se siete bella, come mi compiaccio di credere») per prevenire i dubbi e talora l’incredulità di quel pubblico che dichiaratamente si propone di intrattenere.

I personaggi abbandonati, le vicende lasciate in sospeso, i misteri non disvelati lasciano al lettore, giunto alla conclusione del romanzo, un senso di frustrante insoddisfazione. In realtà, non in questa edizione del romanzo, ma in quella francese di Michel Lévy del 1856 (https://fr.wikisource.org/wiki/Consuelo/Chapitre_CV) e nell’inglese del 1870 di Peterson & Brothers, tradotta da Fayette Robinson, appare, alla fine del romanzo, una Nota di Sand rivolta ai lettori:

«Nota. Ceux de nos lecteurs qui se sont par trop fatigués à suivre Consuelo parmi tant de périls et d’aventures, peuvent maintenant se reposer. Ceux, moins nombreux sans doute, qui se sentent encore quelque courage, apprendront dans un prochain roman, la suite de ses pérégrinations, et ce qui advint du comte Albert après sa mort.» («Nota. Quelli fra i nostri lettori che si sono affaticati troppo nel seguire Consuelo in mezzo a tanti pericoli ed avventure, ora possono riposarsi. Coloro, senza dubbio meno numerosi, che hanno ancora un po’ di coraggio, conosceranno in un prossimo romanzo il seguito delle sue peregrinazioni e ciò che avviene del conte Alberto dopo la sua morte» – Traduzione mia).

Il romanzo cui si riferisce, La Contessa di Rudolstadt, sarà pubblicato, fra il 1843 e il 1845, come Consuelo, sulla rivista “La Revue indépendante”.

Sinossi a cura di Mariella Laurenti

Dall’incipit del libro:

— Bene, bene, signorine, scuotete pure la testa quanto vi piace; la più giudiziosa, la migliore fra tutte voi, è… Ma non voglio dirlo, perchè è la sola della mia classe che abbia un po’ di modestia, e avrei timore, col nominarla, di farle subito perdere quella rara virtù che vi auguro di…
— In nomine Patris, et Filii, et Spiritus sancti – cantò Costanza con fare sfrontato.
— Amen – salmodiarono in coro tutte le altre ragazze.
— Cattivaccio! – disse Clorinda con una smorfietta, e diede un colpetto, col suo ventaglio, sulle dita ossute e rugose che il maestro di canto teneva allungate ed inerti sulla muta tastiera dell’organo.
— Dàlla ad intendere a un altro! – disse il vecchio insegnante, col tono profondamente scettico dell’uomo avvezzo da quarant’anni ad affrontare per sei ore al giorno le moine e le bizze di numerose generazioni di ragazzi in gonnella. – Non è men vero – soggiunse poi riponendo nell’astuccio gli occhiali e in tasca la tabacchiera, senz’alzare lo sguardo sullo sciame giocosamente cruccioso – che questa giudiziosa, docile, studiosissima, attentissima, ottima bambina non siete voi, signora Clorinda; nè voi, signora Costanza; nè, manco a dirlo, voi, signora Giulietta; e neppur la Rosina, e tanto meno la Michela…

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