Nell’estate del 1929 l’editore Mondadori diede vita a una nuova collana e in libreria comparvero quattro volumetti identificabili da una copertina di un bel colore giallo. Nascono così “I libri gialli” che affiancano la precedente collana Mondadori “I libri azzurri” (autori italiani) e precede di poco “I libri verdi” (storia romanzata) e “I libri neri” dedicata ai romanzi di Simenon.

Questi quattro romanzi “gialli” erano opera di Van Dine, del famosissimo Edgar Wallace, entrambi con due loro testi recenti, di Anna Katherine Green con l’ormai storico Mistero delle due cugine (https://liberliber.it/autori/autori-g/anna-katharine-green/il-mistero-delle-due-cugine/), e infine Robert Louis Stevenson, scrittore che aveva le caratteristiche di romanziere popolare ma che sapeva unire alla sua dimensione fantastica una prosa raffinata da letteratura “alta”.

Ma a partire dal 1930 il Ministero della Cultura Popolare decise di imporre la presenza di un certo numero di firme italiane in ogni collana di narrativa; la disposizione parlava di almeno uno su cinque. Ed ecco quindi che Mondadori è obbligato a trovare un “giallista” italiano e si rivolge a Varaldo, all’epoca scrittore molto noto, con un suo pubblico stabile e numeroso, e che già si era dimostrato estremamente versatile nella letteratura “di genere”, ad esempio nel romanzo storico.

Questo induce a una qualche riflessione sulle cause che contribuirono allo sviluppo della narrativa poliziesca in Italia con così vistoso ritardo rispetto all’Inghilterra. Il poliziesco come genere letterario evolve insieme alla rivoluzione industriale che porta alla costruzione di grandi metropoli e al diffondersi di una feroce delinquenza, e parallelamente favorisce lo sviluppo di un’industria culturale che contribuisce a formare una quantità sempre più estesa di lettori, e di comunicazioni di massa che amplificano i fatti criminosi suscitando nel pubblico timori e contemporaneamente attrazione.

Ma la borghesia e la sua rivoluzione non si sviluppano in Europa in maniera omogenea. Il ritardo del “giallo” italiano rispetto alla “crime fiction” anglosassone corrisponde al fatto che gli inglesi hanno avuto la loro rivoluzione industriale a fine settecento, mentre in Italia l’industria ha iniziato il suo sviluppo a fine ottocento.

Certamente le esigenze “autarchiche” del regime fascista hanno posto le condizioni per lo sviluppo del genere, che era tuttavia ormai maturo e i cui germi vanno identificati nei precursori del genere poliziesco italiano (https://liberliber.it/autori/autori-j/jarro-alias-giulio-piccini/i-ladri-di-cadaveri/). Ma l’esplosione era a quel punto ormai matura e i “giallisti” si moltiplicano, da Alfredo Pitta (https://liberliber.it/autori/autori-p/alfredo-pitta/) a De Angelis (https://liberliber.it/autori/autori-d/augusto-de-angelis/), fino a Ezio D’Errico, forse il più prolifico tra questi scrittori e che già fu costretto a uniformarsi alle “regole” del 1935 (lui inizia a pubblicare “gialli” nel 1937) che prevedono che l’assassino, che mai deve sfuggire alla giustizia, non possa essere italiano. Inoltre il caso criminoso può essere risolto esclusivamente tramite l’indagine ufficiale. Il commissario creato da D’Errico è quindi francese e agisce a Parigi. Di D’Errico è anche l’ultimo romanzo della collana Libri Gialli Mondadori stampato nell’ottobre del 1941, in conseguenza del fatto che il Ministero della Cultura Popolare aveva deciso, fin dall’agosto 1941, di sopprimere il genere considerato diseducativo, ritirandone dal commercio, a cura degli stessi editori, questi libri di “bassa letteratura improntati sull’apologia del delitto”, “nocivi per la gioventù”.

Varaldo in quegli anni scrisse nove romanzi gialli con protagonista il commissario Ascanio Bonichi, due raccolte di racconti, La trentunesima perla e Le avventure di Gino Arrighi, già pubblicati in gran parte tra il 1935 e 1937 sul settimanale “Il Cerchio Verde”, e due romanzi con protagonista Gino Arrighi che compare come personaggio fin dal primo romanzo. Un ultimo romanzo rimase inedito fino al 1989.

Il sette bello, che adesso presentiamo in e-book – ma progettiamo di riproporre in questa biblioteca Manuzio l’intera serie dei gialli imperniati sulla figura di Ascanio Bonichi – è ambientato a Roma, nelle vicinanze del lago di Vico e nella storica cittadina di Ronciglione. Ascanio Bonichi è un investigatore piuttosto fuori dai canoni consueti; appare spesso come un dandy d’epoca, con baffoni e sigaro toscano, elegante e impomatato ma non sempre rasato di fresco e spesso trasandato. Sembra che la sua attività d’investigazione sia un passatempo. Rifugge dalle modernità scientifiche nelle sue indagini e ha elaborato una sua teoria del “caso” come fattore determinante per lo sviluppo e il procedere dell’investigazione. Ma, senza parlarne troppo, a questo “caso” abbina (ben prima di Monod…) la “necessità” di spingerlo e di indirizzarlo, insomma di favorirne le potenzialità. La sua attrezzatura è semplice: bastone, pistola, lampadina tascabile e fischietto. Accoglie con favore, sempre per favorire il Caso, i segnali che provengono dall’inconscio (i riferimenti freudiani sono evidenti) facendo quindi apparire il Caso stesso come incanalato da forze soprannaturali.

Il titolo allude alla carta da gioco, che garantisce sempre un punto, ma per ottenerlo non basta l’abilità e la sagace conduzione della partita ma serve anche un po’ di fortuna.

Il racconto è a cinque voci che si susseguono nella narrazione via via che il narrante viene estromesso forzatamente dalla vicenda. I narranti sono quattro amici – un pittore, un ufficiale dei bersaglieri, un eterno studente con due lauree e mezza e una studentessa in medicina – che pranzano abitualmente nella stessa trattoria e che decidono di rispondere, alla ricerca di avventura, in maniera casuale ad un annuncio matrimoniale. Dopo i primi due si inserisce come voce narrante lo stesso commissario Bonichi, fino a che anche lui è “costretto” dagli eventi ad abbandonare, almeno così sembra, l’indagine. Dalla risposta all’annuncio nasce certamente l’avventura, ben oltre a quello che gli interessati potevano attendersi, che vede un intrecciarsi di eventi drammatici e imprevedibili attorno alle vicende delle sorelle Maud e Marcella Terzi.

L’espediente narrativo al quale fa ricorso Varaldo consente all’autore di sbizzarrirsi nello stile, diversificandolo a seconda della voce narrante, mantenendosi però fedele ad un’atmosfera ottocentesca e oscillando tra commedia, romanzo d’avventura, melodramma d’amore. La Roma che descrive probabilmente non esisteva già più negli anni trenta, ma la combinazione che riesce a realizzare Varaldo fra l’atmosfera umbertina e quella della Roma fascista è notevole ed espressa con la sua consueta abilità di linguaggio. La combinazione tra una nobiltà scaltra, potente e corrotta, e un sottobosco popolare ricco di reticenze e misteri, tra giovinette improvvisamente arricchite e assunte a ranghi nobiliari e nobili caduti in miseria, è sapientemente dosata e regolata da un intervento dell’autorità che però solo apparentemente ostacola l’indagine. Tutto questo conduce Il sette bello al di fuori e oltre i confini di genere e del classico poliziesco.

Abbiamo deciso – proprio per offrire integri a chi legge oggi questo romanzo tutti gli elementi che concorrono a farne un testo di grande interesse – di attenerci per questa edizione elettronica alla prima edizione del 1931, dopo aver preso in considerazione e accantonato le ristampe degli anni ’70 e ’80 dello scorso secolo, che sono state “ammodernate” nei dialoghi e nelle descrizioni, perdendo, a nostro avviso, molto del fascino originario.

Sinossi a cura di Paolo Alberti

Dall’incipit del libro:

Io non sono stato il protagonista di questa storia. Magari! Non ne fui che l’umile spettatore. E forse per questo posso raccontarla serenamente, piú serenamente certo che i lettori non la leggeranno. Perché io so che è vera, e gli altri non lo crederanno mai. Non li condanno, ed anzi li scuso. Io per il primo, se non l’avessi vissuta, non la crederei.
Potrò scriverne con pazienza, con meticolosa memoria tutto lo svolgimento, districarne tutte le fila, notare tutte le minuzie, che hanno avuto una sí grande importanza nella inverosimile storia che voglio narrare? Mi proverò.
Per intanto mi presento. Il mio nome è Giovanni, mio padre, Sante Révere, fu antiquario assai stimato, ma dopo la morte di mia madre liquidò ogni cosa e si ridusse a Spoleto con una certa agiatezza, che poteva somigliare alla ricchezza prima della guerra. Ma nel 1919, quando fui libero, e mi trovai padrone della mia sostanza per la morte del babbo, non ebbi tanto da scialare davvero. Millecinquecento lire al mese, l’anno di grazia 1920, non sono troppe: ma adottai una risoluzione energica. Mi dissi: come libero cittadino puoi appena vivacchiare, come studente invece sei ricco.

Scarica gratis: Il sette bello di Alessandro Varaldo.