In lotta con la società fu pubblicato in svedese nel 1882 e 1883 nei primi due volumi di Ur Lifvet con i titoli En bal i societeten e I Krig med Samhället. Infatti la narrazione è divisa in due parti, temporalmente separate tra loro di dieci anni. La traduzione italiana fu pubblicata in appendice al “Corriere di Napoli” nel 1897 e in volume nel 1913.

I temi che abbiamo già visto sviluppati dall’autrice ne Il dubbio vengono ora approfonditi e sviluppati fino a rendere questo romanzo una vera e propria analisi delle conseguenze sulla persona delle convenzioni sociali e dei tentativi che possono essere fatti, un po’ disordinatamente, per sottrarsi e sfuggire a queste convenzioni. Il peso maggiore è, come sempre, sulle spalle di chi già si trova nella condizione di “oppresso”, condizione che attanaglia in particolare l’esistenza della donna.

Nella prima parte del romanzo, che segna il “debutto” in società di Arla, figlia di un neo-ministro, l’oppressione è quella di una stretta e rigida educazione religiosa impartita soprattutto dalla madre, mentre un padre distratto si preoccupa maggiormente di banali modalità comportamentali tali da non sfigurare nell’alta società. Arla, sognatrice e desiderosa di amore, si invaghisce a prima vista di uno spavaldo avventuriero; la delusione è però immediata e cocente. Dopo dieci anni la troviamo sposata e con due figli e l’oppressione viene dalle necessità di adesione alle convenzioni sociali del marito, certamente uomo buono e devotamente innamorato della moglie, ma incapace di comprenderne le ansie di libertà e il desiderio di autonomia ed emancipazione come donna nel suo complesso e non solo come “angelo del focolare” realizzata unicamente nella maternità. Arla si dibatte, con il suo carattere istintivamente ribelle e alla ricerca di una vita di gioia e di valorizzazione della propria persona, tra le pastoie dei pregiudizi comuni. Passata dalla tirannia della madre a quella diversa ma non meno opprimente del marito, cerca la sua strada seguendo il solco del “libero pensiero”, nuovamente innamorata di un geniale e totalmente anticonformista intellettuale che era stato assunto come precettore dei suoi due figli. Ma anche questa strada finisce per rivelarsi un nuovo percorso di tirannia, non poi troppo diverso da quelli che Arla già conosceva.

L’idea del matrimonio che viene prospettata non è troppo diversa da quella che già troviamo in Ibsen, per esempio nella sua opera del 1862 La Commedia dell’amore. Anna Leffler, che di Ibsen fu sostenitrice e divulgatrice, osservò, (lo riporta Giulio Massimo Scalinger nel suo studio su Ibsen, Napoli 1895) proprio a proposito di questa commedia, come la simpatia esistente tra moglie e marito, sia troppo spesso solo una simpatia convenzionale, un’abitudine di affetto, mossa da tutto un congegno di interessi comuni; questa simpatia sta alla base di molte vite coniugali che si dicono felici.

L’autrice è davvero abile, in un romanzo che è contemporaneamente di verità e di pensiero, a far riflettere su come ogni tipo di idea guida, sia essa religiosa, sociale, filosofica, nel momento stesso che vuole ideologizzarsi si irrigidisce in canoni comportamentali e diventa gabbia, anche quando si ammanti di un’idea spregiudicata e libertaria. Il risultato non può che essere quello di un appiattimento cognitivo e culturale, che rende incapaci di collocarci nel tempo in maniera critica e, magari, anche autoironica.

Il conformismo ideologico diventa quindi totalizzante, sembra che non ci sia scampo e che la gabbia si chiuda inesorabilmente attorno anche alle intelligenze più vivaci. Alla fine, come disse Natalia Ginzburg, anche coloro che dovrebbero sgombrare il suolo dai cadaveri, sono poi i primi ad allargare il perimetro del cimitero.

«Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante». Sono trascorsi due secoli da questa riflessione di Marx e non sembra che ci siano stati grossi cambiamenti. Una società moderna, aperta e non bigotta dovrebbe, a fine ՚800 in Svezia come oggi in ogni parte del mondo, difendere strenuamente la sovranità dell’individuo. Le idee e gli atteggiamenti che non ci sentiamo di condividere vanno contrastati con idee e modi di essere differenti, non schiacciando e annientando chi è portatore, come la protagonista del romanzo Arla, di una sensibilità diversa. La censura di una posizione disallineata, sia che si presenti come tentazione per una parte tradizionalmente progressista, sia che venga vista, contrastandola, come un’insperata occasione libertaria per una parte invece che si è sempre presentata come “autoritaria”, è comunque in contrasto con la libera espressione dell’individuo.

Resta da dire che Anna Charlotte Leffler, nonostante le sue opere causassero subbuglio soprattutto in ambiente puritano, non si allontana mai da una posizione contemporaneamente delicata e geniale; è costantemente capace di disegnare cose e persone con un’ironia quieta e pietosa, senza discostarsi dalla sua femminilità intelligentemente pudica e portatrice di arte finissima e pensosa che accompagna chi legge in ogni pagina.

Sinossi a cura di Paolo Alberti

Dall’incipit del libro:

Con tutte le candele accese la casa faceva una bellissima figura. Per la prima volta s’illuminava a festa. La signora Pfeifer, nei gusti un po’ all’antica, trovava le tinte delle decorazioni troppo scure. A lei piacevano le porte bianche e le tappezzerie chiare usate in altri tempi. –Nel nostro clima, – diceva, – coi nostri lunghi inverni bui, dobbiamo circondarci di cose chiare e allegre. – Ma il marito, schiavo della moda, sempre pronto a rendere omaggio al gusto del giorno, aveva voluto i mobili e le tappezzerie della casa nuova di colori scuri e incerti. Quella sera riceveva in casa per la prima volta, dopo la sua nomina a Ministro.
Ed ora il signor Pfeifer camminava in su e in giù per le stanze, guardando tutto, osservando ogni minimo particolare con occhio critico: e qui metteva una poltroncina bassa in mezzo a un gruppo di piante, là accomodava le pieghe di una portiera, o cambiava di posto un tavolinetto. Finalmente andò nell’entratura e disse al servitore di aprire tutte le porte fino al salone, per rendersi conto dell’impressione che doveva ricevere chi entrando gettava la prima occhiata su quella fila di stanze. Ma non parve molto soddisfatto. Traversò la sala da pranzo, e aprendo una dopo l’altra diverse porte, entrò nelle camere interne dell’appartamento chiamando: – Maria! dove sei. Maria! –

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