«Sono i volti di cartapecora di un amore blasé fatto fra gente in guanti e colletto spesso imbellettata e bistrata, per gli atrii d’hôtel, in sleeping, a caffè e qua e là nelle stazioni climatiche. Novellette ciascuna con un suo caso curioso di gelosia senile, di adulterio compiuto alla svelta, di sentimento molto riflesso, di giochetto acido dove la passione non c’entra ma il ripicco, il capriccio, o la noia, o la vanità od il calcolo. Arte non ce n’è; nè caratteri nè stile; ci son dei casi indicati rapidamente.»

Così scriveva Giovanni Boine nella sua nota rubrica Plausi e botte su “La Riviera Ligure” commentando la recente uscita del volume di novelle I volti dell’amore di Amalia Guglielminetti. Era il 1914 e pochi mesi prima era stato dato alle stampe questo volume che era per la scrittrice, già affermata ed apprezzata poetessa, il primo cimento in prosa. La critica non fu benevola affatto ma se consideriamo che il libro fu ristampato due volte in pochi anni (1918 e 1920) la risposta del pubblico fu invece favorevole. Massimo Bontempelli scrisse nella recensione pubblicata su “Nuova Antologia”:

«Non basta essere brevi per non essere lunghi. Questo aforisma, degno del tempio di Delfo, è la sintesi della lettura che ho fatta di un volume di novelle di Amalia Guglielminetti: I volti dell’amore. […] L’artificio vizia la creazione in ogni sua fibra. E l’artifizio, del resto, è il carattere unico di tutto il mondo che la Guglielminetti predilige, per cercarvi gli elaborati intrichi delle sue novelle.»

Sono giudizi severi, forse non del tutto meritati, certamente influenzati dal fatto che l’autrice delle novelle è donna. E Boine nemmeno cerca di mimetizzare questo suo fastidio:

«Ma senti in fondo a questo sprezzo affettato, a questa elegante aridità di salottaia navigata qualcosa che è non delle novelle ma della novelliera; l’ostentazione di sè medesima come femina, l’esibizionismo. Non ci arrabbiamo mica; nè gridiamo allo scandalo. Perchè che cosa può importare in fondo ad una donna, dell’arte e della sua oggettività? Le donne scrivono (ed anche molti uomini) per esibirsi; come passeggiano per strada o come si scollano a teatro.»

Si deduce quindi che se novelle analoghe fossero state scritte da un uomo (e ce ne sono di scrittori maschi che hanno scritto degli stessi ambienti e e delle stesse situazioni e certamente lo hanno fatto con meno sensibilità) Boine le avrebbe valutate molto probabilmente con occhio diverso.

La spontaneità dell’ispirazione non sembra certo l’elemento saliente di queste novelle, che sono invece ispirate ad un sentire artefatto, di maniera, abbastanza arido. Ma sarebbe molto superficiale non riuscire a scorgere nella scrittura di Amalia Guglielminetti quel velo di ironia che finisce per colpire maggiormente il banale eccitamento del maschio piuttosto che gli ammiccamenti femminili. E l’ironia colpisce anche (e non credo che si tratti di ironia involontaria) l’artificiosità dell’ambiente che l’autrice descrive, senza mancare di fornire, pur nel limite spazio-temporale che la forma narrativa scelta impone, uno spaccato di tipi “psicologici” che neppure sempre appaiono troppo datati. Certo, quando sembra che l’artificiosità della descrizione possa essere messa da parte per affrontare il vero dramma emotivo, la novella termina. Sembra una prova, una sorta di allenamento per uno sviluppo narrativo di più ampio respiro che la scrittrice affronterà in prove successive e certamente meglio riuscite. Prendo ad esempio la novella La linea nella quale la protagonista, piacente e bella signora, si mette in testa, dopo aver conosciuto la nobildonna più magra d’Italia, di divenire magra come lei; dopo mortificanti diete diviene amante di un provetto alpinista nella speranza di perdere il peso che trova ancora eccessivo tramite una attività escursionistica per lei completamente ardua. Diviene amante ma senza amore, per puro calcolo, per raggiungere un obiettivo vacuo di moda estetica. Per questo possiamo affermare che I volti dell’amore sono quasi sempre sfigurati dietro una maschera di gretta meschinità. Raramente troviamo, se non l’amore, almeno la passione; quasi sempre la falsità del sentimento, il “tradimento” per noia. Questi ambienti artefatti e questi sentimenti superficiali sono però descritti con sincerità; il limite è che mai vengono approfonditi, mai si scava efficacemente nell’animo di chi si adagia a questa vita fatta di sola apparenza. E troppo spesso al termine della lettura resta in noi solo l’impressione di un pettegolezzo elegante.

Sinossi a cura di Paolo Alberti

Dall’incipit del primo racconto Il miserabile cuore:

M’ero rifugiata in un piccolo albergo alpestre ad intrattenermi con le vergini – o come altri vuole – con le sverginate Muse, quando scendendo un mattino a colazione m’incontrai con una coppia interessantissima giunta allora che non mi pareva completamente sconosciuta.
L’uomo alto biondo sbarbato, con due occhi azzurri di straordinaria dolcezza, sembrava di parecchi anni più giovine della sua compagna, la quale era bruna e pallida ed aveva in ogni movenza un languore di grazia e di fragilità che la rivelava sofferente o convalescente. Durante il pasto egli le usò le più squisite cure e le più tenere premure ch’ella ricambiava con qualche stanco sorriso e quasi subito dopo la riaccompagnò nelle sue camere a riposare, quindi si fermò al ritorno nell’atrio, lesse la lista dei forestieri e mi venne incontro col cappello in mano:
— Marcello Sandigliano, – mi disse sorridendo; – non vi ricordate i thè di casa Albanese tre anni or sono?

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