Mario Borsa scrisse il 22 maggio 1945 un articolo intitolato Sincerità pubblicato su “Il Corriere d’informazione” nel suo primo numero andato in stampa dopo la chiusura del “Corriere della Sera” avvenuta il 26 aprile 1945 in quanto giornale compromesso con la repubblica sociale. Borsa aveva assunto la direzione di “Il Corriere d’informazione” come nome di compromesso accettabile sia dal C.l.n.a.i. che dagli anglosassoni e in particolare da Michael Noble, già capo dell’ufficio stampa del XV Gruppo di Armate. In tale articolo Borsa affermava che il fascismo non era terminato e non era stato l’unico artefice delle disgrazie vissute dall’Italia che avevano provocato, tramite l’azione di Mussolini,

«lutti, dolore, tortura, sofferenze, spoliazioni, miserie, affamamenti, umiliazioni, distruzioni, mutilazioni, devastazioni di una fosca, spaventevole, inaudita tragicità, quali nessuno avrebbe mai sognato in trenta secoli di storia che un italiano avesse potuto recare alla sua patria».

Le responsabilità di Mussolini e del fascismo erano enormi ma la colpa non era tutta loro. Per iniziare una nuova vita ed imparare dagli errori del passato bisognava riconoscere che la colpa era stata di tutti gli italiani e in particolar modo della borghesia, perché, spaventata dalla presenza del bolscevismo, si fece scudo del fascismo per tutelare i propri interessi e quelli dei partiti dell’Italia liberale. Borsa ribadisce gli stessi concetti in altri due articoli, Da Quartarella a Dongo (10 giugno 1945) e La paura (10 luglio 1946). Concetti analoghi e ben sviluppati e argomentati si trovano in Memorie di un redivivo pubblicato nel 1945.

Borsa amplia ulteriormente la proposta delle proprie idee libertarie in Il matto che adesso proponiamo in edizione elettronica. Già da giovane Borsa aveva studiato le vicende storiche della Aurea Repubblica Ambrosiana pubblicando fin dal 1893 un saggio sull’umanista milanese Pier Candido Decembrio che nel romanzo Il matto sarà tra i personaggi di spicco. Il romanzo è una ricostruzione fedele degli avvenimenti che portarono a un governo repubblicano che durò un triennio, dal 1447 al 1450, dalla morte di Filippo Maria Visconti fino al completarsi dell’azione ambigua di Francesco Sforza che, assoldato dalla repubblica per difenderla dall’espansionismo veneziano, finì invece per cogliere l’occasione di rivendicare per sé il titolo ducale. Sforza assediò dunque Milano e la Repubblica finì per cedere dopo lo spietato attacco. Il personaggio che dà il titolo al romanzo è Ambrogio Trivulzio, matto perché irriducibile avversario di Sforza; fece parte di un triunvirato con Biagio Assereto e Giorgio D’Annone quando ancora era governatore Gonzaga. Trivulzio, anche quando ormai la resistenza della Repubblica era alle corde, minata al suo interno da dissidi abilmente instillati dagli agenti sforziani, organizzò barricate a Porta Nuova e sbarrò la strada a Sforza obbligandolo a firmare un capitolato per consentirgli di entrare.

Borsa è accuratissimo nel ricostruire la vicenda. Quello che narra è aderente al Rerum gestarum Francisci Sfortiae commentarii di Giovanni Simonetta che Giovanni Soranzo pubblicò nel 1932. Il racconto di Borsa è avvincente, con scrittura spigliata, certamente giornalistica, ma particolarmente adatta alla vicenda, fondamentale nella storia di Milano ancorché non troppo conosciuta. Gli ultimi due capitoli sono incentrati sul dopo capitolazione della repubblica e Borsa esprime a chiare lettere la sua visione liberale e libertaria.

«In questo spirito di umiliazione e di dedizione il popolo gettava via ad una ad una tutte le sue prerogative e quella coscienza cittadina, che gli uomini della vigilia, i pochi uomini di sincera fede repubblicana, si erano illusi di aver svegliato e ravvivato in una luce ideale, si andava ora spegnendo quasi del tutto.» […] «— Ma ammetterete che adesso, almeno, abbiamo un po’ d’ordine! — Non lo nego. In tutte le carceri, dal più al meno, c’è dell’ordine. Però non bisogna lasciarsi ingannare dalle apparenze. Voi sapete meglio di me che gli uomini nuovi non sono stinchi di santo. Gli uomini sono quello che sono e le cose vanno sempre come Dio le manda e come il diavolo le porta. Solo che adesso non si può più dir male del diavolo: tutto buono adesso, tutto quieto, tutto bello, tutto grande. Insomma credete a me: quest’ordine apparente che voi tanto ammirate non è, in fondo, che l’abile organizzazione del disordine.» «…non credo che si possa mai dire di alcun regime che sia buono. Il buono e il meglio non esistono in politica. Esiste solo il meno peggio. Perchè il male […] c’è e ci sarà sempre in tutti i tempi e in tutti i paesi, ma il solo mezzo per mitigarne gli effetti è di lasciare alle persone oneste e intelligenti la possibilità di denunciarlo.»

Quando poi “il matto” – rientrato segretamente in una Milano segnata dalla peste – parla con Decembrio quest’ultimo afferma:

«Dici bene, ma tu sai che cosa è successo in Milano. La Repubblica era nata coi più nobili intenti, ma poi i popolani hanno cominciato a diffidare degli ottimati, e questi di quelli. Tu predicavi la concordia; essi si facevano la guerra; tu volevi la pace; i più farneticavano di conquiste; tu pensavi a sagge riforme, a educare, a migliorare i costumi; essi si abbandonavano ai loro egoismi, alle loro cupidige, alle loro vanità. Demagogia e retorica da una parte; gretto interesse e sordida speculazione dall’altra.. Poi venne il peggio! Proprio quando, avendo lo Sforza rivolto le armi contro Milano, tu hai ripreso coraggio e hai sperato in una unione sacra per la difesa della libertà e della patria, che cosa abbiamo visto? Odî faziosi, cospirazioni, tradimenti, sangue, forca…»

E prosegue dopo:

«[…] ovunque tu vada, non ci sarà mai posto per te. Il mondo fa largo a tutti: ai ciarlatani, agli imbecilli, agli avventurieri, ai ladri, ai birboni e perfino agli assassini, ma non tollera nel suo mezzo un sognatore.»

Ma “il matto” non ci sta:

«Voi credete che io sogni, dunque! […] Io non condanno il Duca nè gli porto rancore. Milano ha perduto la libertà non per colpa di lui, ma per colpa propria, perchè gli uomini della Repubblica non erano uomini liberi. Dove gli uomini sono schiavi delle proprie passioni, delle proprie debolezze o della propria ignoranza, non vi può essere libertà. […] Abbiamo creduto che bastasse fare la Repubblica… […] Repubblica, Principato, questo o quel regime che conta? che conta? Ciò che conta è fare degli uomini liberi!»

Ambrogio Trivulzio, il “matto”, finisce per avviarsi in un viaggio con Clara (figlia di Decembrio e personaggio solo romanzesco):

«C’è sempre un rifugio ai margini della strada per chi è schiavo del corpo. Ma chi ne è libero non se n’avvede. Spinta dalla sua intima nobiltà, l’anima va, infaticabile, verso l’irraggiungibile. Il suo destino è il viaggio, non la meta.»

Sforza finisce per anticipare in maniera mirabile la riflessione, diventata poi abusato aforisma, di Eduardo Galeano:

«L’utopia è là nell’orizzonte. Mi avvicino di due passi e lei si distanzia di due passi. Cammino 10 passi e l’orizzonte corre 10 passi. Per tanto che cammini non la raggiungerò mai. A che serve l’utopia? Serve per questo: perché io non smetta mai di camminare.»

Nel corso del romanzo di Borsa le perle letterarie e i passi notevoli sono numerosi. Mi limito a ricordare le pagine sull’assedio di Vigevano perchè dimostrano l’attenzione storica e la sensibilità letteraria e culturale dell’autore che, per narrare di questo episodio storico, attinge con dovizia dal poco noto poemetto di Bernardino Girardi Vigevano liberata.

Da sottolineare anche come Borsa descriva il possibile ruolo della persona di cultura nelle dinamiche di cambiamento quasi contrapponendo il riflessivo e progressista Decembrio al servile e sempre pronto legarsi al potere Francesco Filelfo.

Sinossi a cura di Paolo Alberti

Dall’incipit del libro:

La mattina del 14 agosto 1447 – era un lunedì – un giovane cavaliere usciva, sull’alba, da un palazzo che sorgeva di fronte all’antica romanica basilica di San Nazaro in Milano. Seguito a distanza da due famigli si avviava, per strade anguste dove la vecchia pavimentazione in mattoni di Azzone Visconti era ormai tutta buche, gibbosità e crepe, alla volta di S. Ambrogio.
Camminava in fretta, con passo irregolare, come avviene solitamente a chi è agitato da tumultuosi pensieri. Tutto intorno una grande calma e un profondo silenzio facevano contrasto con quella sua irrequietezza. La città pareva ancora assopita nel sonno. Non c’era in giro anima viva. Solo sulle gradinate delle chiese si vedevano sdraiati dei poveracci – contadini si sarebbero detti all’aspetto rozzo e agli abiti cenciosi – i quali dormivano ammonticchiati sul nudo sasso, o facendosi guanciale delle braccia incrociate, o appoggiando la testa l’uno sulle gambe dell’altro. Nè spirava un filo d’aria. I tetti oscuri delle case, le torri dei palazzi, le altane, i campanili spiccavano in quella atmosfera limpida e fredda, che precede sempre – nelle belle mattinate estive – il levar del sole e dà ai viandanti un piacevole brivido di frescura e di energia.
Il giovane pareva impaziente di arrivare alla meta. Giunto finalmente in Via Camminadella, si arrestò davanti a una casa ad un sol piano, di aspetto modesto, ed afferrato il picchiotto del basso e massiccio portone, chiuso nell’ampio arco di un ghiera in sasso, lo alzò e abbassò tre o quattro volte nervosamente.

Scarica gratis: Il matto di Mario Borsa.