di
Le mille e una notte
Novelle arabe
Storia di Aladino e della lucerna maravigliosa
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Nella capitale del regno della China eravi un sarto per nome Mustafà, tanto povero, che il suo lavoro lo provvedeva appena di quanto era necessario per la sua sussistenza, per quella di sua moglie, e di un figliuolo.
Il figliuolo nomavasi Aladino ed era stato allevato in una maniera trascurata e con inclinazioni viziose. Egli era pessimo, ostinato, disobbediente a suo padre ed a sua madre, e passava il suo tempo a giuocare sulle pubbliche piazze e con piccoli vagabondi discoli al pari di lui.
Giunto all’età d’imparare un’arte, suo padre, il quale non era in istato di fargliene insegnare una diversa dalla sua, lo prese nella sua bottega, e cominciò a dimostrargli come dovesse maneggiar l’ago. Ma né con le buone, né col timore de’ castighi, fu possibile al padre di fermare lo spirito volubile del figliuolo suo: Aladino era incorreggibile e, con suo gran rammarico, Mustafà fu obbligato ad abbandonarlo alla sua scapestratezza.
Ciò gli arrecò gran pena, e il dispiacere di non poter far rientrare questo figliuolo nel suo dovere, gli cagionò un’infermità cotanto ostinata, che ne morì a capo di qualche mese.
La madre di Aladino, la quale vide che il suo figliuolo non era incamminato per imparare l’arte di suo padre, chiuse la bottega, e ridusse in contante il valore dei ferri del mestiere per servirsene al provvedimento della sua sussistenza, e di quella del suo figliuolo col poco che potrebbe guadagnare filando del cotone.
Aladino, il quale non vedevasi più ritenuto dal timore del padre, poco curavasi di sua madre, sì che osava minacciarla alla menoma esortazione che ella gli faceva. Si abbandonò allora ad un assoluto libertinaggio. Frequentava sempre più i fanciulli di sua età, né tralasciava di giuocar con essi con passione maggiore di prima.
Continuò questa vita fino all’età di quindici anni, senza dare alcun segno d’inclinazione per qualunque cosa sì fosse.
Era in quella condizione, quando un giorno giuocando nel mezzo di una piazza con una schiera di vagabondi, secondo il suo costume, un forestiere di passaggio fermossi a guardarlo.
Quel forestiere era un Mago insigne, conosciuto sotto il nome di Mago africano.
O che il Mago africano, il quale aveva tutte le cognizioni delle fisonomie, avesse osservato nel sembiante di Aladino quanto assolutamente gli era necessario per l’esecuzione delle sue imprese, o che si fosse informato con tutta destrezza della sua famiglia e delle sue inclinazioni, il fatto si è che gli si accostò, e traendolo in disparte dai suoi compagni:
— Figliuol mio – gli domandò – vostro padre non si chiama Mustafà il sarto?
— Sì, o signore – rispose Aladino – ma è molto tempo che è morto.
A queste parole, il Mago africano si avventò al collo di Aladino, l’abbracciò, e più volte lo baciò con le lacrime agli occhi accompagnate da sospiri.
Aladino, che vide le sue lacrime, gli chiese qual cagione avesse di piangere.
— Ah! figliuol mio – esclamò il Mago africano – come mai potrei farne a meno? Io son vostro zio, e vostro padre era fratel mio. Sono molti anni che viaggio, e nel momento in cui giungo con la speranza di rivederlo e cagionargli giubilo col mio ritorno, voi mi dite che egli è morto!
Chiese poscia ad Aladino ove stesse sua madre, e subito Aladino appagò la sua domanda.
Il Mago africano gli consegnò nello stesso tempo un pugno di piccole monete dicendogli:
— Figliuol mio, andate a trovar vostra madre, fatele i miei complimenti, e ditele che mi darò il piacere di andarla a trovar domani.
Partito che fu il Mago africano dal nipote che egli stesso si era formato, Aladino corse da sua madre.
— Madre mia – le disse – pregovi dirmi se io ho uno zio.
— No, figliuol mio – gli rispose la madre – voi non avete al presente alcun zio, né dal canto del fu vostro padre, né dal mio, poiché l’unico che avevi è morto da gran tempo.
— Pur nondimeno – ripigliò Aladino – or ora ho veduto un uomo che si vanta zio dal canto di mio padre, giacché per quanto egli m’assicura, era suo fratello. E per comprovarvi che dice la verità – soggiunse mostrandole il denaro che aveva ricevuto – m’ha dato questo. Mi ha inoltre indicato di salutarvi in suo nome, e di dirvi che domani verrà a vedervi.
La mattina seguente, il Mago africano fermò Aladino una seconda volta.
L’abbracciò come nel giorno precedente, e ponendogli nelle mani due monete d’oro gli disse:
— Figliuol mio, portate queste a vostra madre, e ditele che questa sera verrò a vederla, e che provveda una buona cena, affinché mangiamo insieme.
Aladino portò le due monete d’oro a sua madre, e partecipato che le ebbe quale fosse l’intenzione di suo zio, ella uscì per andare a far la spesa, e ritornò con molte e buone provvigioni.
Benché Aladino avesse insegnato la casa al Mago africano, pur nondimeno vedendo che non compariva per andargli incontro era in procinto di uscire, quando venne picchiato alla porta. Aladino aprì, e riconobbe il Mago africano, il quale entrò carico di bottiglie di vino e di molte specie di frutta per la cena.
Quando il Mago africano si fu assiso al luogo che eragli piaciuto di scegliere, principiò a conversare con la madre di Aladino.
— Mia buona sorella – le diceva – non vi stupite di non avermi veduto in tutto il tempo che foste maritata con mio fratello Mustafà di gloriosa memoria. Sono partito quarant’anni fa da questo paese, e dopo aver viaggiato nell’Indie, nella Persia, nell’Arabia, nella Siria, nell’Egitto, e soggiornato nelle belle città di quei paesi, mi stabilii in Africa. Finalmente, essendo naturale all’uomo, per lontano che egli sia dal paese di sua nascita, di non perderne giammai la memoria, come pure dei suoi parenti e di quelli coi quali è stato allevato, mi è venuta la brama di rivedere mio fratello. Nulla vi dico della lunghezza del tempo che vi ho posto, di tutti gli ostacoli che vi ho incontrati, e di tutte le fatiche che ho sofferte per giunger sin qui. Vi dirò solamente che nulla mi ha tanto mortificato, e maggiormente afflitto in tutti i miei viaggi, quanto l’avere intesa la morte di un uomo che sempre aveva amato, e che amava di un amore veramente fraterno. Ho osservate molte delle sue fattezze nel sembiante del mio nipote vostro figliuolo, e questo è quello che distinguer me lo ha fatto fra tutti gli altri fanciulli coi quali egli ritrovavasi. Egli senza dubbio avrà detto in qual maniera abbia ricevuto l’infausta notizia della sua morte. Ma bisogna lodare il cielo d’ogni cosa! Mi consolo di ritrovarlo in un figliuolo che ne conserva le fattezze più considerevoli.
Il Mago africano si accorse che la madre di Aladino s’inteneriva sulla rimembranza di suo marito, rinnovando il suo dolore, perciò cangiò discorso: e volgendosi ad Aladino, gli chiese il suo nome.
— Io mi chiamo Aladino – questi gli disse.
— Ebbene, Aladino, in che v’occupate voi? Sapete qualche mestiere?
A questa domanda Aladino abbassò gli occhi, e ritrovossi in grande sconcerto.
Come egli vide che Aladino nulla rispondeva:
— Se voi avete qualche ripugnanza per imparare un mestiere, – disse – ed esser vorreste un uomo civile, vi provvederò di una ricca bottega col capitale di ricchi drappi e tele fini, e vi porrete in istato di venderle, e del contante che ne ricaverete comprerete altre mercanzie, ed in questa maniera vivrete onorevolmente. Consigliatevi con voi stesso, e francamente ditemi ciò che ne pensate.
Questa offerta piacque molto ad Aladino, avendo osservato che le botteghe di tal sorta di mercanzie erano decenti e frequentate; che i mercanti eran ben vestiti e molto considerati; onde protestò al Mago africano, che considerava come suo zio, esser questa la sua inclinazione.
— Giacché questa professione vi gradisce – replicò il Mago – io vi farò dapprima vestire convenientemente e riccamente, e dopo domani penseremo assegnarvi una bottega nella maniera che vi ho espresso.
La mattina seguente il Mago non trascurò di ritornare dalla vedova di Mustafà il sarto, come le aveva promesso. Pigliò Aladino con lui, e lo condusse da un ricco mercante il quale non dava se non abiti fatti. Se ne fece mostrare dei convenienti alla statura di Aladino e disse:
— Nipote mio, tra tutti codesti abiti scegliete quello che volete.
Aladino meravigliato delle larghezze di suo zio, ne scelse uno.
Quando Aladino si vide con tanta magnificenza vestito da capo a’ piedi, rese a suo zio tutti gl’immaginabili ringraziamenti, ed il Mago promisegli inoltre di non abbandonarlo, e di tenerlo sempre con sé.
Aladino voleva prender commiato da suo zio per tornarsene, ma il Mago africano non volle permettergli di andarsene solo, e lo ricondusse egli stesso da sua madre.
Aladino nel giorno seguente si alzò e si vestì di buon mattino per essere pronto a partire quando suo zio fosse andato a prenderlo.
Dopo aver aspettato lungo tempo, l’impazienza gli fece aprir la porta per vedere se quello veniva. Quando lo vide, ne fece avvertita sua madre, e da lei congedandosi gli schiuse la porta, andandogli incontro per raggiungerlo.
Il Mago africano fece molte carezze ad Aladino e con volto ridente gli disse:
— Andiamo, o caro figliuolo, voglio oggi farvi vedere cose bellissime!
A tal uopo lo condusse ad una porta della città, che guidava a grandi e belle case o per dir meglio a palazzi magnifici, ognuno dei quali aveva bellissimi giardini, i cui ingressi erano liberi.
Il Mago africano poco a poco condusse Aladino molto lontano oltre i giardini, e gli fece traversare delle campagne, che lo condussero in vicinanza ai monti.
Giunsero finalmente fra due monti d’una mediocre altezza e quasi eguali, separati da una valle di pochissima larghezza. Era questo il luogo notabile, in cui Mago africano aveva voluto condurre Aladino per l’esecuzione di un gran disegno, che lo aveva fatto venire dagli estremi dell’Africa fino alla Cina.
— Noi non andiamo più oltre – disse ad Aladino – voglio qui farvi vedere cose straordinarie ed incognite ad ogni mortale; e mi ringrazierete poi di essere stato testimonio di tante meraviglie. Mentre io batto l’acciarino, raccogliete tutti i ramoscelli più secchi onde potere accender del fuoco.
Eravi una quantità tanto grande di questi ramoscelli, che Aladino in breve ne formò un mucchio; il Mago vi dette fuoco gettandovi sopra un certo profumo che teneva apparecchiato. Nello stesso momento la terra tremò, e si aprì davanti al Mago ed Aladino, e fece vedere allo scoperto una pietra di un piede e mezzo circa di profondità posata orizzontalmente con un anello di bronzo sigillato nel mezzo, per servirsene ad alzarla.
— Avete veduto ciò che ho operato con la virtù del mio profumo e delle parole che ho pronunziate? Sappiate dunque che sotto questa pietra havvi nascosto un tesoro, il quale è a voi destinato e vi deve far divenire un giorno il più ricco sovrano dell’universo. Ciò è tanto vero, che veruno al mondo vi è fuorché a voi a cui sia concesso di toccar questa pietra e di alzarla per entrarvi. A me pure è proibito di toccarla, e di por piede nel tesoro quando sarà aperto. Perciò bisogna che eseguiate minutamente quanto vi dirò. Figliuol mio, ascoltate attentamente tutto ciò che sto per dirvi. Discendete nella caverna; quando sarete giunto a piè degli scalini che vedete, troverete una porta aperta, la quale vi condurrà in una gran camera a volta e divisa in tre grandi sale una dopo l’altra. In ognuna di quelle vedrete a destra ed a sinistra quattro grandi vasi di bronzo a guisa di tini, ripieni d’oro e d’argento: ma badate bene di non toccarli. Prima di entrare nella prima sala, alzate la vostra veste, e stringetela bene attorno a voi; passate nella seconda senza fermarvi, e da questa alla terza. Osservate attentamente sopratutto di non accostarvi alle mura, né di toccarle colla vostra veste, perché toccandole morireste subito. In capo alla terza sala vi è una porta che darà accesso in un giardino piantato di bellissimi alberi tutti carichi di frutta; camminate diritto ed attraversate il giardino per un sentiero che vi guiderà ad una scala di cinquanta gradini per salir sopra una terrazza. Giunto che sarete sopra di essa, vedrete dirimpetto a voi una nicchia, ed in questa una lucerna accesa. Pigliate la lucerna, estinguetela, e quando ne avrete gettato via lo stoppino e versato il liquore, riponetela nel vostro seno e portatemela. Non temete di macchiare il vostro abito, poiché il liquore non è composto d’olio. Se le frutta del giardino vi piacciono ne potrete raccogliere quante ne vorrete.
Nel terminar queste parole, il Mago africano cavò un anello dal dito, lo pose in dito ad Aladino, dicendogli esser quello un preservativo contro ciò che di male gli potesse accadere.
— Andate, figliuol mio – gli disse, dopo questa istruzione – discendete con coraggio: noi in breve siamo per diventar ricchi ambedue per tutto il tempo della nostra vita.
Aladino saltò leggermente nella caverna, e discese fino al basso dei gradini. Ritrovò le tre scale. Passò per mezzo con tanta maggior cautela in quanto che temeva di morire se inconsideratamente trascurava di osservare quanto eragli stato prescritto. Passò il giardino senza fermarsi, salì sopra la terrazza, prese la lucerna accesa nella nicchia gettò lo stoppino ed il liquore e se la pose in seno.
Discese dalla terrazza, e si fermò nel giardino. Gli alberi eran tutti carichi di frutti stravaganti. Ogni albero ne portava diversi. Ve n’erano dei bianchi, dei lucenti e trasparenti come il cristallo, dei rossi, dei verdi, degli azzurri e di quelli che si accostavano al giallo, con una perfezione straordinaria.
La diversità di tanti bei colori, e la straordinaria grossezza di ogni frutto, gl’ispirarono la brama di raccoglierne di tutte le specie. I bianchi erano perle; i lucenti e trasparenti diamanti; i rossi rubini; i verdi smeraldi; i turchini e azzurri ametiste e zaffiri ecc. ecc.
Aladino, carico in tal modo di tante ricchezze, ritornò per donde era disceso, e presentossi all’ingresso della caverna, ove il Mago africano con grande impazienza lo aspettava.
Subito che Aladino lo vide, gli disse:
— Mio zio, vi prego di porgermi la mano per aiutarmi a salire.
Il Mago gli disse:
— Figliuol mio, datemi prima la lucerna, perché potrebbe cagionarvi impedimento.
— Perdonatemi, o mio zio – ripigliò Aladino – essa non m’impedisce, ve la darò subito che sarò salito.
Il Mago africano allora, disperato dalla resistenza del fanciullo, fu compreso da uno spaventevole sdegno. Gettò egli un poco del suo profumo sopra il fuoco che aveva avuto cura di conservare, ed appena ebbe pronunciate alcune parole magiche, la pietra, la quale serviva a chiuder l’ingresso della caverna, ritornò da sé stessa al suo luogo con sopra la terra.
Quando il Mago africano vide le sue grandi e belle speranze andate a vuoto per sempre, non ebbe altro partito da prendere che di ritornare in Africa, il che fece lo stesso giorno. Egli prese strade remote per non rientrare nella città dond’era uscito con Aladino, temendo, a ragione, di venir osservato da più persone che potevano averlo veduto passeggiare con quel fanciullo e ritornare senza di lui.
Secondo tutte le apparenze non si doveva più sentir parlare di Aladino: ma, quello che aveva creduto perderlo per sempre, non aveva fatta attenzione di avergli messo al dito un anello che poteva servire a salvarlo.
Aladino che non s’aspettava la malvagità del suo falso zio dopo le carezze ed i beneficî che gli aveva resi, restò maravigliato in modo che è più facile immaginarlo che dirlo con parola. Quando si vide seppellito vivo chiamò mille volte suo zio gridando che era pronto a dargli la lampada: ma le sue grida erano inutili, e non vi era più mezzo di essere inteso; laonde rimase nelle tenebre e nell’oscurità…
Aladino restò due giorni in quello stato senza mangiare né bere, il terzo finalmente, tenendo la morte come inevitabile, alzò al cielo le mani giunte e con una perfetta rassegnazione ai voleri di Dio esclamò:
— Non vi è forza e potenza che in Dio, il Grande, l’Altissimo!
Nell’alzar le mani giunte, fregò senz’avvedersene l’anello che il Mago africano gli aveva messo al dito, e di cui non conosceva ancora la virtù.
Immantinente un Genio d’una statura enorme si presentò dinanzi a lui come da sottoterra, finché toccò colla testa al soffitto, e disse ad Aladino queste parole:
— Che vuoi tu? Eccomi pronto ad obbedirti come tuo schiavo.
In tutt’altro tempo ed in tutt’altra occasione Aladino che non era accostumato a simili visioni, sarebbe stato forse compreso da spavento: ma occupato unicamente dal pericolo in cui era, rispose senza esitare:
— Chiunque tu sia, fammi uscire da questo luogo.
Non appena ebbe pronunciate queste parole la terra si aprì e si trovò fuori dalla caverna.
Arrivato alla città si trascinò con molta fatica fino a casa sua, ove entrato, la gioia di riveder la madre, congiunta alla debolezza del non aver mangiato da quasi tre giorni, gli cagionarono uno svenimento che durò qualche tempo.
La madre che l’aveva già pianto come perduto e come morto, nel vederlo in quello stato non tralasciò d’usargli tutte le possibili cure per farlo tornare in sé.
Rinvenuto alfine dal suo svenimento furono queste le prime parole che pronunziò:
— Madre mia, prima di tutto vi prego di darmi da mangiare, essendo tre giorni che non ho preso un bricciol di cibo.
La madre gli portò quello che aveva.
Aladino cominciò a raccontare a sua madre quanto gli era accaduto col mago dal giorno che era andato a prenderlo per condurlo seco a vedere i palagi ed i giardini che erano fuori della città. Non omise niun particolare di quanto aveva veduto passando e ripassando nelle tre sale, nel giardino e sul terrazzo ove aveva presa la lampada meravigliosa, che mostrò a sua madre traendola dal seno, come pure i frutti trasparenti e di diversi colori che aveva colti nel giardino ritornandosene. Intanto quei frutti erano pietre preziose, e lo splendore che rendevano doveva far giudicare del loro gran prezzo.
Ma appena Aladino ebbe terminato, sua madre proruppe in mille ingiurie contro quell’impostore, chiamandolo traditore, perfido, barbaro, assassino, ingannatore, mago e distruttore del genere umano.
Ella disse molte altre cose imprecando sempre al tradimento che il Mago aveva fatto a suo figlio: ma parlando s’accorse che Aladino, non avendo dormito da tre giorni, aveva bisogno di riposo.
Laonde avendolo fatto coricare, poco tempo dopo andò a coricarsi anch’essa.
Aladino che non aveva preso alcun riposo nel luogo sotterraneo in cui era stato seppellito, dormì tutta la notte con un profondo sonno, svegliandosi il dì successivo assai tardi.
Come si alzò, la prima cosa che disse a sua madre fu che aveva bisogno di mangiare.
— Ohimè! figliuol mio – gli rispose la madre – io non ho nemmeno un pezzo di pane a darvi avendo voi iersera mangiato il poco di provvigione che v’era nella casa. Ma abbiate un poco di pazienza, cercherò di provvederne. Io ho un poco di cotone filato, che andrò a vendere, affine di comperare del pane e qualche altra cosa pel nostro pranzo.
— Madre mia – rispose Aladino – conservatevi il vostro cotone per un’altra volta, e datemi la lampada che portai ieri. L’andrò a vendere, e il danaro che ne ritrarrò servirà a darci da colazione da pranzo e forse anche da cena.
La madre di Aladino prese la lampada da dove l’aveva messa, dicendo a suo figlio:
— Ecco, figlio mio, ma è molto sporca; per poco che sia nettata, credo che valga qualche cosa di più.
Essa prese dell’acqua e un poco di arena per nettarla: ma appena ebbe cominciato a strofinarla, che in un momento, un Genio orribile e d’una statura gigantesca apparve innanzi a lei, e le disse con voce tonante:
— Che vuoi tu? eccomi pronto ad obbedirti, io e i miei compagni, come schiavo tuo.
La madre di Aladino non era in istato di rispondere, non avendo potuto sostenere la vista dell’orribile e spaventevole figura del Genio.
Aladino, il quale aveva già avuta un’apparizione presso a poco simile nella caverna, rispose con tono fermo:
— Io ho fame, portatemi da mangiare.
Il Genio disparve, e un momento dopo ritornò carico d’un gran bacino d’argento, che portava sulla testa con dodici piatti coperti dello stesso metallo pieni di eccellenti vivande, con sei grandi pani bianchi come neve, due bottiglie di vino squisito, e due tazze di argento per bere.
Questo accadde in sì poco tempo, che la madre di Aladino non aveva ancora ricovrato i sensi, quando il Genio disparve per la seconda volta.
— Madre mia – le disse Aladino, – via, non è nulla; alzatevi e venite a mangiare; ecco con che rimettervi i sensi, e nello stesso tempo soddisfare al gran bisogno di mangiare. Non lasciamo adunque raffreddar sì buone vivande, e mangiamo.
La madre di Aladino fu estremamente sorpresa quando vide il gran bacino, i dodici piatti, i sei pani, le due bottiglie, le due tazze, e sentì l’odore delizioso che esalava da tutti quei piatti.
Aladino e sua madre, credendo fare una semplice colazione, si trovarono ancora a tavola all’ora del pranzo.
Quando la madre di Aladino ebbe sparecchiato e messo da banda le vivande che non avevano tocche, andò a sedersi sul sofà vicino a suo figliuolo, e gli disse:
— Aladino, aspetto che soddisfacciate l’impazienza in cui sono d’udire il racconto che mi avete promesso.
Ed Aladino le raccontò quanto era accaduto tra il Genio e lui nel tempo del suo svenimento.
— Come! – esclamò la madre di Aladino – è dunque a cagion della vostra lampada che quel maledetto Genio si è rivolto a me piuttosto che a voi? Ah! figliuol mio, toglietemela dinanzi agli occhi e mettetela dove meglio vi piacerà, perché io non voglio più toccarla. Consento piuttosto che sia gettata o venduta anziché correre il rischio di morir dal terrore toccandola. Se volete seguire il mio consiglio, vi disfarete eziandio dell’anello.
— Madre mia con vostro permesso – rispose Aladino – io mi guarderei bene presentemente di vendere, come poco prima era pronto a farlo, una lampada che diviene sì utile tanto a voi quanto a me.
— Figliuol mio – diss’ella – fate come meglio vi aggrada; per me non vorrei aver a che fare coi Geni. Però vi dichiaro che me ne lavo le mani e che non ve ne parlerò più!
L’indomani a sera, dopo cena, non restò loro nulla della buona provvisione che il Genio aveva portata.
Il giorno seguente Aladino, non volendo aspettare che la fame lo stringesse, prese un piatto d’argento sotto la sua veste, ed uscì la mattina presto per andarlo a vendere. Si diresse da un ebreo che incontrò sulla sua strada, e trattolo in disparte mostrandogli il piatto, gli chiese se voleva comprarlo.
L’ebreo astuto, prese il piatto, l’esaminò, ed appena ebbe conosciuto ch’era di buon argento, chiese ad Aladino quanto voleva. Aladino, che non conosceva il valore e che non aveva mai fatto commercio di quella mercanzia, si contentò di dirgli che poteva da sé stesso veder quanto valesse il piatto e che se ne riportava alla sua buona fede.
L’ebreo si trovò imbarazzato dell’ingenuità di Aladino. Nell’incertezza in cui era di sapere se Aladino ne conoscesse la materia ed il valore, trasse dalla sua borsa una moneta d’oro, che non era se non la settantaduesima parte del valore del piatto, e gliela presentò.
Aladino prese la moneta con grande sollecitudine, e ritornando presso sua madre, si arrestò nella bottega di un fornaio, presso cui fece provvisione per sua madre e per lui, pagandola della moneta d’oro che il fornaio gli cambiò.
Giunto a casa, dette il resto a sua madre, che andò al mercato a comprar le altre provvisioni necessarie per vivere ambedue lo spazio di alcuni giorni.
Essi continuarono a vivere in questa guisa, vale a dire che Aladino vendé tutti piatti all’ebreo l’uno dopo l’altro fino al diciottesimo.
Quando il denaro dell’ultimo piatto fu speso, Aladino ebbe ricorso al bacino, che pesava esso solo quanto tutti i piatti.
Egli voleva portarlo al suo mercante ordinario: ma il suo grave peso glielo impedì; per cui fu obbligato di andare in traccia dell’ebreo, che condusse da sua madre, e costui, dopo aver esaminato il peso del bacino, gli contò sul momento dieci monete d’oro, di cui Aladino si contentò.
Finché durarono le monete d’oro vennero adoperate alla spesa giornaliera della casa.
Quando non restò più nulla delle dieci monete d’oro, Aladino ebbe ricorso alla lampada, e presala in mano, la strofinò come aveva fatto sua madre ed immantinente lo stesso Genio che s’era già fatto vedere si presentò a lui.
Aladino gli disse:
— Ho fame, portami da mangiare!
Il Genio disparve, e pochi momenti dopo ritornò carico di un servizio da tavola simile a quello che aveva portato la prima volta. Posatolo sul sofà, subito disparve.
Aladino e la madre si posero a tavola, e dopo il pasto, loro restò ancora di che vivere largamente i due giorni seguenti.
Aladino appena vide non esservi più nella casa né pane, né altre provvisioni, prese un piatto d’argento e andò a cercare l’ebreo che conosceva per venderglielo.
Nell’andarvi passò dinanzi alla bottega d’un orefice, rispettabile per la sua vecchiezza, un onesto uomo e d’una grande probità.
L’orefice che lo scorse, lo chiamò, lo fece entrare e gli disse:
— Figliuol mio, io vi ho già veduto passare molte altre volte come adesso, unirvi con un certo ebreo, e ripassare poco tempo dopo senza nulla fra le mani. Ho immaginato che voi gli vendete ciò che portate, ma che forse non sapete che quell’ebreo è un ingannatore molto più grande degli altri ebrei, e che nessuno di quelli i quali lo conoscono vuole avere che fare con lui. Del resto, ciò che io vi dico, non è se non per farvi piacere. Se volete mostrarmi ciò che portate presentemente, e che sia da vendere, ve ne darò fedelmente il suo giusto prezzo se mi conviene, altrimenti vi dirigerò ad altri mercanti che non v’inganneranno.
La speranza di far maggior guadagno del piatto fece sì che Aladino lo trasse dal disotto della sua veste e lo mostrò all’orefice. Il vecchio il quale conobbe subito che il piatto era di fino argento, gli chiese se n’aveva venduti di simili all’ebreo, e quanto glieli aveva pagati.
Aladino gli disse ingenuamente che ne aveva venduti dodici, e che l’ebreo glieli aveva pagati una moneta d’oro ciascuno.
— Ah il ladro! – esclamò l’orefice. – Figliuol mio – aggiunse poscia – ciò che è fatto è fatto, e non bisogna più pensarvi: ma facendovi vedere quanto vale il piatto, che è del miglior argento di cui ci serviamo nelle nostre botteghe, conoscerete quanto l’ebreo vi ha ingannato.
L’orefice prese la bilancia, pesò il piatto, e dopo avere spiegato ad Aladino quant’era un marco di argento, quanto valesse, e le suddivisioni, gli fece notare che secondo il peso, il piatto valeva settantadue monete d’oro, che gli annoverò sull’istante dicendogli:
— Ecco il giusto valore del vostro piatto.
Aladino rese molte grazie all’orefice del buon consiglio che gli dava, e da cui già traeva un sì grande utile. In seguito non si diresse più che a lui per vendere gli altri piatti, come pure il bacino, il cui giusto valore fu sempre pagato a proporzione del suo peso.
In tal guisa vissero per lo spazio di molti anni, col soccorso del buon uso che Aladino faceva della lampada di tempo in tempo.
In questo intervallo Aladino che non mancava di trovarsi con molta assiduità alle riunioni delle persone distinte, nelle botteghe de’ mercanti all’ingrosso di stoffe d’oro e d’argento, fu disingannato dal pensiero che aveva intorno ai frutti colti nel giardino in cui era andato a prender la lampada, di non esser che vetro colorato, ed imparò ch’erano pietre preziose di gran prezzo.
Un giorno passeggiando in una contrada della città, Aladino sentì pubblicare ad alta voce un ordine del Sultano di serrare le botteghe e le porte delle case, e di chiudersi ciascuno nella propria abitazione fino a che la principessa Badroulboudour, figliuola del Sultano, fosse passata per andare al bagno e ne fosse ritornata. Questo bando pubblico fece nascere ad Aladino la curiosità di veder la principessa a volto scoperto.
Per soddisfare il suo desiderio, avvisò d’usare un mezzo che gli riuscì, andò a collocarsi dietro la porta del bagno, che era disposta in modo da non poter mancare di vederla venire in faccia.
Aladino non attese lungo tempo.
La principessa apparve ed egli la vide venire attraverso d’una fessura sufficientemente grande, per scorgerla senza essere veduto.
Quand’ella fu a tre o quattro passi dalla porta del bagno si tolse il velo che le copriva il viso, e che le dava molto incomodo, di modo che dette luogo ad Aladino di vederla tanto maggiormente a suo agio, in quanto che gli veniva giusto di faccia.
Quando Aladino ebbe veduto la principessa Badroulboudour il suo cuore non poté che ricevere interamente l’immagine dell’oggetto che l’aveva incantato.
Aladino, rientrando in casa, non poté nascondere il suo turbamento e la sua inquietudine, dimodoché la madre se ne accorse.
Ella fu sorpresa di vederlo così triste e meditabondo contro il suo solito, e gli chiese se gli era accaduto qualche cosa o se si trovava indisposto. Aladino seduto sul sofà di fronte a sua madre che filava, le favellò in questi termini:
— Madre mia non so bene quale sia questo male, ma non dubito che quanto vi dirò non ve lo faccia comprendere. Non si è saputo in questo quartiere – continuò Aladino – e voi eziandio non avete potuto saperlo, che la principessa Badroulboudour, figliuola del Sultano, andò al bagno dopo pranzo. Io lo seppi passeggiando per la città. Come era lontano dal bagno, la curiosità di vederla col volto scoperto mi fece nascere il pensiero d’andarmi a collocare dietro la porta del bagno stesso, considerando potesse accadere che ella si togliesse il velo quando fosse vicina ad entrarvi. Voi sapete la disposizione della porta, e potete giudicare da voi medesima che io doveva vederla a mio agio, se ciò che m’ero immaginato accadeva. Difatti ella si tolse il velo entrando, ed io ebbi la felicità di vedere quell’amabile principessa col più grande soddisfacimento del mondo. Ecco, madre mia la gran ragione dello stato in cui mi vedeste ieri quando ritornai, e la cagione del silenzio in cui sono stato finora. Io amo la principessa d’un amore di cui la violenza è tale ch’io non saprei esprimervela, e come la mia passione viva ed ardente si accresce a ciascuno istante, io sento che essa non può venir soddisfatta che col permesso dell’amabile principessa Badroulboudour; per cui ho risoluto farla domandare in matrimonio al Sultano.
La madre di Aladino aveva ascoltato il discorso del suo figliuolo con molta attenzione fino a queste ultime parole: ma quando ebbe inteso che il suo disegno era di far chiedere la principessa Badroulboudour in matrimonio, non poté fare a meno d’interromperlo con un grande scoppio di risa.
— In verità, o figliuolo – soggiunse la madre seriamente – io non saprei fare a meno di dirvi che avete perduto il senno e che quand’anche voleste eseguire il vostro pensiero, non vedo per mezzo di chi osereste far questa domanda al Sultano.
— Per mezzo vostro – replicò Aladino immantinente, senza esitare.
— Figliuol mio – soggiuns’ella di bel nuovo – io son vostra madre, e come una buona donna che vi ha dato alla luce, non ci è nulla di ragionevole né di conveniente al mio stato che non fossi pronta a fare per l’amor vostro. Se si trattasse di parlare del vostro matrimonio colla figliuola di qualche nostro vicino, di una condizione poco dissimile alla nostra, io non lascierei nulla intentato e mi adoprerei di buon cuore in tutto ciò che mi sarebbe possibile: quantunque, per riuscirvi, sarebbe opportuno che aveste qualche bene, o qualche rendita, e che sapeste un mestiere. Quante povere genti come noi vogliono maritarsi, la prima cosa cui debbono pensare è d’aver di che vivere! Ma senza considerare la bassezza della vostra nascita, ed il poco merito che avete, voi vi slanciate al più alto grado della fortuna, qual è il vostro pensiero di voler chiedere in matrimonio e di sposare la figlia del nostro sovrano, il quale non ha altro che dire se non una sola parola per precipitarvi e schiacciarvi!
Aladino ascoltò tranquillamente quanto sua madre gli disse e dopo aver riflettuto molto, prese finalmente la parola e le disse:
— Confesso, madre mia che è una grande temerità la mia d’osar d’innalzare le mie intenzioni tanto in alto, ed è grande inconsideratezza l’aver voluto con tanto calore e prontezza che andaste a fare la proposta del mio matrimonio al Sultano, senza badare prima ai mezzi di procurare un’udienza ed una occasione favorevole, e ve ne domando perdono. Ma nella violenza della passione non vi meraviglierete se fin dal bel principio non ha pensato che a ciò che poteva servire a procurarmi il riposo che cerco. Io amo la principessa Badroulboudour al di là di quanto vi potete immaginare, o meglio l’adoro, e persevero sempre nel disegno di sposarla, avendolo fermamente risoluto nell’animo mio.
Voi mi dite non aver io nulla che possa essergli donato, credete voi, madre mia che di quanto ho portato dal giardino in cui venni salvato da una morte inevitabile, nel modo che voi sapete, non vi sia da fare un piacevolissimo dono al Sultano? Io parlo di quello che ho portato nelle due borse e nella mia cintura, e che abbiamo preso voi ed io per vetri colorati: ma ora che mi son disingannato, sappiate, madre mia che son gioielli di un prezzo inestimabile, i qual non convengono che ai grandi monarchi. Io ne ho conosciuto il merito frequentando i gioiellieri, e voi potete credere alla mia parola. Voi avete un vaso di porcellana molto grande e di una forma acconcia a contenerli; portatelo qui e vediamo l’effetto che essi produrranno quando li avremo disposti secondo i loro diversi colori.
La madre di Aladino portò il vaso di porcellana, ed Aladino trasse le pietre preziose dalle due borse e le dispose nel vaso. L’effetto che produssero alla luce del giorno, per la varietà dei loro colori e del loro splendore, fu tale che la madre ed il figliuolo ne rimaser abbagliati. Dopo aver esaminato per qualche tempo la bellezza del dono, Aladino riprese la parola, dicendo:
— Madre mia voi non mi taccerete più d’audace per presentarvi al Sultano sotto pretesto di non avere un dono a fargli: eccone uno che mi sembra farà sì che siate ricevuta con un’accoglienza delle più favorevoli.
Siccome s’era già fatto troppo tardi, e passata l’ora d’andare al palazzo per presentarsi al Sultano, la cosa fu differita all’indomani.
La madre ed il figliuolo non parlarono d’altro nel resto della giornata, ed Aladino ebbe gran cura d’ispirare a sua madre quanto gli venne nel pensiero per confermarla nell’assunto che aveva finalmente accettato, d’andare a presentarsi al Sultano.
— Figliuol mio – diss’ella ad Aladino – non c’inquietiamo anticipatamente d’una cosa che forse non accadrà. Vediamo prima l’accoglienza che vi farà il Sultano, e la risposta che vi darà. Se accade che voglia essere informato de’ miei beni, come mi avete detto, allora vedrò la risposta che debbo fargli, ed ho confidenza che la lampada, pel cui mezzo viviamo da parecchio tempo, non mi mancherà nel bisogno.
La madre di Aladino fece tutto quello che suo figlio volle. Essa partì infine con grande soddisfazione di Aladino, e prese la via del palazzo del Sultano.
Il gran Visir, accompagnato dagli altri visir e dai Signori della Corte, eran già entrati, quand’essa giunse alla porta. La folla di tutti coloro che avevano affari al Divano era grande.
Quando la porta fu aperta, la madre di Aladino si avanzò fino al Divano, il quale era una bellissima camera molto spaziosa.
Le parti furon chiamate l’una dopo l’altra secondo l’ordine delle suppliche che avevan presentate, ed i loro affari furon discussi e risoluti.
Poscia il Sultano si alzò, congedò il Consiglio, e rientrò nel suo appartamento, ove subito fu seguito dal suo gran Visir.
La madre di Aladino, avendo scorto il sultano alzarsi e ritirarsi immaginò, al vedere ciascuno uscire, che non sarebbe più comparso per quel giorno; onde prese il partito di ritornare in casa.
L’indomani mattina, come il giorno precedente, andò di nuovo al palazzo del Sultano: ma il suo viaggio fu inutile poiché trovò la porta del Divano chiusa, e seppe che non si teneva consiglio se non ogni due giorni, e che però era mestieri fosse ritornata il giorno dopo.
Ella andò a portare questa notizia al suo figliuolo, che fu costretto ad armarsi di nuova pazienza. Vi ritornò altre volte nei giorni indicati con eguale successo, e forse vi sarebbe ritornata molte altre volte altrettanto inutilmente, se il Sultano, che la vedeva sempre di fronte a lui a ciascuna adunanza, non avesse fatto attenzione a lei.
Questo fu tanto probabile, in quanto non v’erano che quelli i quali avevano suppliche da presentare che s’avvicinavano al Sultano, ciascuno alla sua volta, per difendere la loro causa, e la madre di Aladino non era punto in quel numero.
Quel giorno infine, dopo terminato il Consiglio, quando il Sultano fu rientrato nel suo appartamento, disse al suo gran Visir:
— È già qualche tempo ch’io osservo una certa donna la quale viene regolarmente ciascun giorno in cui tengo il mio consiglio, e porta qualche cosa d’avviluppato in un fazzoletto; sta in piedi dal principio fino al termine dell’udienza e si mette sempre di fronte a me. Al primo giorno del Consiglio, se questa donna ritorna, non mancate di farla chiamare affinché io l’ascolti.
Il gran Visir non gli rispose che baciandogli la mano.
La madre di Aladino s’era tanto assuefatta a comparire al Consiglio innanzi al Sultano, che contava la sua pena per nulla, purché facesse conoscere a suo figlio ch’ella non dimenticava nulla di quant’era in lei per compiacerlo.
Ritornata dunque a palazzo il giorno del Consiglio, si collocò all’ingresso del Divano dirimpetto al Sultano, secondo il suo solito.
Immantinente il gran Visir mostrò quella donna al capo degli uscieri, che stava in piedi vicino a lui per ricevere i suoi ordini, e gl’impose di andarla a prendere e di farla avanzare.
Il capo degli uscieri andò fino a’ piedi del trono del Sultano, ove la lasciò, per andarsi a porre al suo posto vicino al gran Visir.
La madre di Aladino, istruita dall’esempio di tanti altri che aveva veduto avvicinarsi al Sultano, si prostrò colla fronte sul tappeto che copriva i gradini del trono, e rimase in tale posizione fino a che il Sultano non le comandò di alzarsi.
Ella si alzò, ed allora il Sultano le disse:
— Buona donna, è lungo tempo che vi vedo venire al mio Divano e restare dal principio fino a che termina. Quale faccenda qui vi conduce?
La madre di Aladino disse:
— Monarca superiore a tutti gli altri monarchi del mondo, prima d’esporre alla Maestà Vostra la cagione straordinaria e quasi incredibile che mi fa comparire innanzi al vostro trono sublime, la supplico di perdonare l’audacia, per non dir l’impudenza, della domanda che vengo a farle. Dessa è sì poco comune, che io tremo ed ho vergogna di proporla al mio Sultano.
Per darle intera la libertà di spiegarsi, il Sultano comandò che ognuno uscisse dal Divano e che si lasciassero soli col suo gran Visir. Allorché rimasero soli le disse che poteva parlare senza timore.
— Sire – diss’ella ripigliando la parola – io oso ancora supplicare la Maestà Vostra, nel caso che trovi la domanda che io ho da farle offensiva od ingiuriosa alla menoma cosa, di assicurarmi del suo perdono e di assicurarmi la grazia.
— Qualunque cosa possa essere – rispose il Sultano – io ve la perdono da questo momento, e non ve ne avverrà il minimo male.
Quando la madre di Aladino ebbe prese tutte queste precauzioni, gli raccontò fedelmente in quale occasione Aladino aveva veduto la principessa Badroulboudour, l’amor violento che quella vista fatale gli aveva ispirato, la dichiarazione che gliene aveva fatta, tutto ciò ch’ella gli aveva detto pur di stornarlo da una passione non meno ingiuriosa per la Maestà Vostra – diss’ella al Sultano – che per la principessa.
Il Sultano ascoltò questo discorso con molta dolcezza e bontà, senza dare nessun segno di collera e di indignazione, ed anche senza prendere la domanda a beffe. Ma prima di rispondere a quella buona donna, le chiese che fosse quello che teneva avviluppato nel fazzoletto.
Immantinente ella prese il vaso di porcellana, che aveva deposto ai piedi del trono prima di prostrarsi, e scoprendolo lo presentò al Sultano.
Non si potrebbe esprimere la sorpresa e la meraviglia del Sultano quando vide radunate in quel vaso tante gioie sì considerevoli, sì perfette, sì splendide e di una grossezza di cui non ne aveva ancora veduto simili. Rimesso dallo stupore, ricevette il dono dalle mani della madre di Aladino, esclamando con un trasporto di gioia:
— Che bel dono! Che ricco dono!
Dopo aver ammirate ed esaminate tutte le gioie l’una dopo l’altra, si volse verso il gran Visir, e mostrandogli il vaso gli disse:
— Vedi e convieni che non si può vedere al mondo nulla di più ricco e di più perfetto!
Il Visir ne fu stupefatto.
Accostossi al Sultano e parlandogli all’orecchio gli disse:
— Sire, non si può sconvenire che il dono non sia degno della principessa: ma io supplico la Maestà Vostra di concedermi tre mesi prima di determinarsi. Spero che prima che sia scorso questo tempo, mio figlio che ella ha avuto la bontà di manifestarmi di avere scelto quale fidanzato della principessa vostra figlia, avrà come fargliene uno di più gran prezzo di questo Aladino, di cui la Maestà Vostra non conosce punto.
Il Sultano rivolgendosi verso la madre di Aladino le disse:
— Andate, buona donna, ritornate a casa vostra, e dite a vostro figlio che ho aggradita la proposizione che mi avete fatta da parte sua, ma non posso maritar la principessa mia figliuola senza che prima non le abbia fatto un corredo di suppellettili, il quale non sarà pronto, se non da qui a tre mesi. Però ritornate verso questo termine.
La madre di Aladino ritornò in sua casa con una gioia immensa.
Due cose fecero giudicare ad Aladino, quando la vide ritornare, che ella gli portava buone notizie: l’una che ritornava più presto del solito, e l’altra che aveva il volto gaio e sereno.
— Ebbene, madre mia – le disse – debbo sperare o debbo morire di disperazione?
Quand’ella s’ebbe tolto il suo velo e che fu seduta sul sofà con lui:
— Figliuol mio – gli rispose – per non tenervi troppo lungo tempo nell’incertezza, comincierò dal dirvi che lungi dal pensare a morire, avete ogni cagione di letizia.
E proseguendo il suo discorso, gli raccontò prima d’ogni altro, in qual modo ella aveva avuto udienza. Soggiunse ancora che, per quanto poteva giudicare da’ segni che il Sultano le aveva dati, il dono sopra ogni altro aveva prodotto un potente effetto sull’animo suo, per determinarlo alla risposta favorevole che le aveva dato.
Aladino si stimò il più felice de’ mortali, sentendo questa notizia. Ringraziò sua madre di tutte le pene durate nel corso di quell’affare, il cui felice successo era sì importante pel suo riposo. E quantunque nell’impazienza in cui era di godere dell’oggetto della sua passione, tre mesi gli sembrassero d’una lunghezza estrema, si dispose nondimeno ad aspettare con pazienza.
Mentr’egli contava non solo le ore, i giorni e le settimane, ma perfino i minuti, aspettando che il termine fosse passato, circa due mesi erano scorsi, quando sua madre una sera, volendo accender il lume, si accorse che non v’era più olio in casa.
Uscita per andarne a comperare, inoltrandosi nella città, vide che tutto stava in festa.
Ella chiese al mercante presso cui comperava il suo olio, che volesse significar tutta quella festa.
— Donde venite, mia buona donna? – gli rispose quello. – Non sapete che il figliuolo del gran Visir sposa questa sera la principessa Badroulboudour, figlia del Sultano? Tra poco ella uscirà dal bagno, e gli ufficiali che voi vedete, si adunano per farle corteggio fino al palagio ove devesi fare la cerimonia.
La madre di Aladino non volle saperne di più, e ritornò sollecitamente in casa sua, quasi senza fiato.
— Figliuol mio – esclamò ella – tutto è perduto per voi. Voi contavate sulla bella promessa del Sultano, ma non ne sarà nulla. Questa sera il figlio del gran Visir sposerà la principessa Badroulboudour nel palagio.
E gli raccontò in qual modo l’aveva saputo.
A questa notizia Aladino restò immobile come se fosse stato colpito dalla folgore.
Immantinente si sovvenne della lampada che gli era stata sì utile fino allora, e senza trasportarsi in vane parole contro il Sultano, contro il gran Visir, o contro il figlio di questo ministro, disse solamente:
— Madre mia il figlio del gran Visir non sarà forse questa notte tanto felice quanto si promette. Mentre io vado un momento nella mia camera, preparate da cena.
Difatti quando Aladino fu nella sua camera, prese la lampada maravigliosa, la strofinò allo stesso modo delle altre volte, e tosto il Genio apparve innanzi a lui.
— Che vuoi tu? – diss’egli ad Aladino. – Eccomi pronto ad obbedirti io, ed i miei compagni, come tuo schiavo e di tutti coloro che hanno la lampada in mano.
— Ascolta – gli rispose Aladino – tu mi hai portato fino ad ora di che nutrirmi quando ne ho avuto bisogno. Si tratta presentemente di un affare di tutt’altra importanza. Io ho fatto domandare in matrimonio al Sultano la principessa Badroulboudour sua figliuola, ed egli l’ha promessa chiedendomi un differimento di tre mesi. Ora, invece di mantenermi la sua promessa, questa sera egli la marita col figliuolo del suo gran Visir: io l’ho saputo, e la cosa è certa. Quel che ti chieggo è di rapirli e di portarmeli ambedue qui al più presto che si possa.
— Signor mio – soggiunse il Genio – io vado ad obbedirti, hai tu altro a comandarmi?
— Null’altro per ora – rispose Aladino, e subito il Genio disparve.
Aladino ritornò da sua madre e cenò con lei colla tranquillità che gli era ordinaria.
Intanto nel palagio del Sultano tutto era stato preparato con molta magnificenza per la celebrazione delle nozze della principessa, e la sera si passò in cerimonie ed in feste fino a notte inoltrata.
Quando tutto fu terminato, il figliuolo del gran Visir, al segnale che gli fece il capo degli eunuchi della principessa, si sottrasse destramente, e quell’ufficiale l’introdusse nell’appartamento della principessa sua sposa fino alla camera in cui era preparato il letto nuziale. Poco dopo la sultana, accompagnata dalle sue donne e da quelle della principessa sua figliuola, condusse la nuova sposa, che faceva grandi resistenze.
La Sultana, dopo di averla abbracciata e auguratale la buona notte, si ritirò con tutte le sue donne, delle quali l’ultima chiuse la porta della camera.
Appena la porta della camera fu serrata, il Genio come schiavo fedele della lampada, li prese ambedue con grande loro maraviglia, e in un istante li trasportò nella camera d’Aladino, ove li lasciò.
Aladino che aspettava con impazienza questo momento, non soffrì che il figliuolo del gran Visir rimanesse insieme con la principessa.
— Prendi questo nuovo sposo – diss’egli al Genio – chiudilo nel gabinetto e ritorna domani mattina.
Il Genio prese immantinente il figliuolo del gran Visir, e lo trasportò nel luogo che Aladino gli aveva indicato, ove lo lasciò, dopo aver gettato su lui un soffio che lo raffreddò da capo ai piedi, e che gl’impedì di cangiar posto.
Per grande che fosse la passione di Aladino per la principessa Badroulboudour, pur nondimeno non le tenne un lungo discorso quando si vide solo con lei.
— Non temete di nulla, adorata principessa – le disse con appassionata voce – voi siete qui in sicurezza. Se sono stato forzato a questo estremo non è stato già per offendervi, ma per impedire che un ingiusto rivale vi possedesse contro la parola data dal Sultano vostro padre in mio favore.
L’indomani Aladino non ebbe bisogno di strofinar la lampada per chiamare il Genio, ei ritornò all’ora indicatagli e nel tempo che Aladino terminava di vestirsi, gli disse:
— Eccomi, che hai a comandarmi?
— Va’ a riprendere – gli disse Aladino – il figliuolo del Visir ove l’hai posato, e vieni qui, perché poi, unitamente alla principessa, lo riporterai ove l’hai preso nel palagio del Sultano!
Il Genio non ebbe appena eseguito il suo ufficio, che il gran Sultano, desideroso di sapere come la figliuola avesse passata la notte, entrò nella camera per augurarle il buon giorno.
Il figliuolo del gran Visir, che era agghiacciato pel freddo sofferto in tutta la notte, e che non aveva avuto ancora il tempo di riscaldarsi, appena intese aprir la porta, si alzò, riparandosi in un’altra camera.
Il Sultano, avvicinatosi alla principessa, la baciò, augurandole il buon giorno, e le chiese sorridendo come si trovasse.
Ma, rialzando il capo e guardandola con maggior attenzione, fu estremamente sorpreso di vederla in una grande melanconia. Essa lo guardò solamente con uno sguardo tristissimo in modo da fargli comprendere che provava una grande afflizione e malcontento. Le disse anche alcune parole, ma come vide che non poteva trarne altre da lei si ritirò. Nondimeno non lasciò di supporre che vi fosse qualche cosa di straordinario nel suo silenzio: il che l’obbligò ad andare immantinente alle camere della Sultana, cui narrò lo stato in cui aveva ricevuto la principessa.
— Sire – gli disse la Sultana – ciò non deve sorprendere la Maestà Vostra, non essendovi nuova sposa la quale non sia egualmente contegnosa. Nondimeno io vado a vederla.
Quando la Sultana fu vestita andò all’appartamento della principessa. Avvicinatasi le dette il buon giorno, abbracciandola: e grandissima fu la sua sorpresa quando vide che non solo non le rispondeva, ma che nemmeno la guardava, e che era in una grande afflizione.
— Figliuola mia – le disse la Sultana – donde viene che voi rispondete sì male alle mie carezze?
La principessa allora le raccontò in qual modo, un momento dopo ch’ella e il suo sposo trovavansi in quella camera, erano stati trasportati in altra stanza meschina ed oscura, in cui s’era veduta sola e separata dal suo sposo, ed in cui v’era un giovanotto, il quale dopo averle dette alcune parole che il terrore l’aveva impedita di ascoltare, s’era allontanato, lasciandola sola; il mattino il suo sposo le era stato ridonato, ed il letto riportato al suo posto.
La Sultana ascoltò tranquillamente la narrazione della principessa, ma non volle aggiustarvi fede.
— Figliuola mia – le diss’ella – avete ben fatto a non parlar di ciò a vostro padre. Guardatevi bene dal dirne nulla a chicchessia, poiché sareste certamente presa per pazza, se foste intesa parlare in tal modo!
Nello stesso tempo la Sultana chiamò le donne della principessa, e come l’ebbe veduta alla sua toletta, andò all’appartamento del Sultano, cui disse che qualche fantasia era passata pel capo della loro figliuola, ma che infine non era nulla.
Ella fece chiamare il figliuolo del gran Visir, per sapere da lui quanto la principessa le aveva detto: ma il figliuolo del gran Visir che si teneva moltissimo onorato del parentado del Sultano, aveva preso il partito di dissimulare.
— Genero mio – gli disse la Sultana – avete voi lo stesso capriccio della vostra sposa?
— Signora – rispose il figliuolo del Visir – posso io chiedere per quale ragione mi fate questa domanda?
— Ciò basta – soggiunse la Sultana – non voglio saperne di più: voi siete più saggio di lei.
Intanto si appressava la notte, e la principessa Badroulboudour maggiormente s’immergeva nell’afflizione. Tanto fu il cordoglio che per ciò la prese, che, vincendola il pianto, si trasse in disparte, per dar libero sfogo alle lacrime che volevano a forza sgorgare dagli occhi. Ridottasi adunque in un luogo appartato, ruppe in angosciosissimo pianto.
La madre che l’aveva veduta alzarsi e fuggir ratta dalla sala ove erano i convitati, la raggiunse e trovolla in quel lacrimevole stato.
Afflitta anch’ella per ciò, e volendo darle alcun conforto, le disse:
— Ebbene, che fanciullaggine è la vostra di piangere, figliuola mia?
— Signora – le rispose la fanciulla – dispensatemene, ve ne prego! Questa notte che si avvicina, foriera di nuove conseguenze e di nuove pene, m’immerge in grande afflizione e mi dà un tormento da non potersi esprimere ed impossibile immaginarsi. Ve ne scongiuro, signora, a non volermi costringere di passar questa notte nella camera apprestatami, ma concedetemi il favore di star nelle vostre camere, perché l’esempio della notte passata mi pone in grandissimo timore.
— Senza dubbio avete perduto il senno, figliuola mia. E che si direbbe del fatto vostro? – interruppe la Sultana. – Però, vi ripeto pel vostro meglio, deponete questi pensieri e venite meco nella sala.
E così dicendo la prese per mano e la condusse quasi a forza nella sala della festa.
Quando la notte fu inoltrata, il capo degli eunuchi della principessa, fece come la sera precedente il segno al figlio del gran Visir, il quale si recò tosto nella camera nuziale.
Poco dopo la sultana accompagnò la figliuola colle sue donne per darle coraggio, e quivi dopo averla teneramente baciata ed a più riprese abbracciata, ve la lasciò.
Aladino, che era bene informato di quanto accadeva nel palazzo, non voleva lasciarli in riposo; laonde, appena la notte fu un poco inoltrata ricorse di nuovo alla lampada.
Immantinente apparve il Genio che fece ad Aladino lo stesso complimento delle altre volte, offrendogli il suo servigio.
— Il figliuolo del gran Visir e la principessa Badroulboudour – gli disse Aladino – non debbono passare questa notte meglio dell’antecedente. Va’ e portali qui come iersera.
Il Genio servì Aladino con altrettanta fedeltà ed esattezza del giorno prima.
Il Genio, secondo gli ordini di Aladino, ritornò l’indomani e riportolli nelle camere del palazzo del Sultano.
Il Sultano, dopo il ricevimento fattogli dalla principessa Badroulboudour il giorno precedente, inquieto di sapere come avesse passata la notte, e se ella lo avrebbe accolto nella stessa guisa, andò alla sua camera di buon mattino per accertarsene.
Il figlio del gran Visir, più adontato e più mortificato del cattivo successo di questa seconda notte che della prima, appena sentì venire il Sultano si ritirò precipitosamente nel suo appartamento.
Il Sultano si avanzò verso la principessa augurandole il buon giorno: e dopo averle fatte le stesse carezze del dì precedente, le disse:
— Ebbene, figliuola mia siete voi anche oggi di sì cattivo umore come lo eravate ieri? Mi direte come avete passata la seconda notte?
La principessa conservò lo stesso silenzio e il padre vide che aveva l’animo meno tranquillo, ed era molto più oppressa del giorno precedente: e non dubitando non le fosse accaduto alcun che di straordinario, irritato dal mistero che gliene faceva, proruppe in collera e colla sciabola in mano gridò:
— Figliuola, o mi dite quello che mi celate, o vi taglio il capo sul momento!
La principessa più atterrita dal tono e dalla minaccia del sultano offeso, che dalla sciabola nuda, ruppe alla fine il silenzio ed esclamò colle lagrime agli occhi:
— Mio caro padre e mio Sultano, io chiedo perdono alla Maestà Vostra se l’ho offesa, e spero che dalla sua bontà e dalla sua clemenza che farà succedere la compassione alla collera, quando le avrò fatto il racconto fedele del tristo e compassionevole stato in cui mi son trovata in tutta questa e nella scorsa notte!
Dopo questo preambolo, che calmò ed intenerì un poco il Sultano, ella gli raccontò fedelmente quanto gli era accaduto in quelle due notti.
Il Sultano le disse:
— Avete avuto gran torto di non esservi spiegata meco da ieri su di un affare tanto strano. Io non vi ho già maritata con l’intenzione di rendervi infelice. Intanto cancellatevi dall’animo vostro tutte le tristi immagini che mi avete raccontate. Io vado a fare in modo che non vi accada di passare più notti così dispiacevoli e tanto poco sopportabili, quanto quelle che avete passato.
Appena il Sultano fu rientrato nel suo appartamento, mandò a chiamare il gran Visir a cui disse:
— Visir, avete veduto vostro figlio? V’ha egli detto nulla?
Siccome il gran Visir gli rispose che non l’aveva veduto, il Sultano gli narrò quanto la principessa gli aveva raccontato e da ultimo soggiunse:
— Io non dubito che mia figlia non mi abbia detta la verità: pur nondimeno avrei piacere di averne la conferma dal labbro del figliuol vostro. Andate dunque ad interrogarlo in proposito.
Il gran Visir non differì d’andare a raggiungere il figliuolo e partecipandogli quanto il Sultano gli aveva comunicato, gli ingiunse di non nascondergli la verità e di dirgli se tutto era vero.
— Io non ve lo nasconderò, padre mio – gli rispose il figliuolo. – Tutto quello che la principessa ha detto al Sultano è vero: ma essa non ha potuto narrargli i cattivi trattamenti che sono stati fatti a me.
Quantunque fosse grande l’ambizione del gran Visir nel vedere il figliuolo genero del Sultano, nondimeno andò a dar risposta al Sultano, cui confessò di buona fede la cosa non essere che troppo vera, dietro quello che gli aveva detto il suo figliuolo.
Senza aspettar nemmeno che il Sultano gli parlasse di rompere il matrimonio alla qual cosa ben vedeva che era molto disposto, lo supplicò di permettere che suo figlio si ritirasse presso di lui, adducendo in iscusa non essere giusto che la principessa fosse esposta più oltre ad una sì orribile persecuzione per amor di suo figlio.
Il gran Visir non durò fatica ad ottenere quello che domandava.
Da quel punto il Sultano, che aveva già risoluto la cosa, dette ordine affinché cessassero le feste nel suo palazzo e nella città, ed anche in tutta l’estensione del suo Regno, ove fece spedire ordini contrari ai primi: ed in pochissimo tempo tutti i segni della pubblica gioia cessarono nella città e nel Regno.
Questo cangiamento subitaneo e sì poco atteso dette occasione a molti ragionamenti diversi.
Aladino lasciò scorrere i tre mesi che il Sultano aveva indicato pel matrimonio della principessa Badroulboudour con lui.
Ne aveva contati tutt’i giorni con gran cura, e quando furon compiuti, il dì successivo non mancò di mandare sua madre a palazzo, per far ricordare il Sultano della sua parola.
La madre di Aladino andò a palazzo come suo figlio le aveva detto, e si presentò all’ingresso del Divano allo stesso luogo di prima.
Il Sultano appena la vide la riconobbe, e si ricordò nello stesso tempo della domanda che gli avea fatta, e del tempo a cui l’aveva differita.
Il gran Visir gli faceva allora il rapporto di un affare.
— Visir – gli disse il Sultano interrompendolo – io scorgo la donna che ci fece un sì bel dono mesi addietro; fatela venire. Riprenderete il vostro rapporto quando l’avrò ascoltata.
Il gran Visir, guardando dalla parte dell’ingresso del Divano, scorse la madre di Aladino ed immantinente chiamò il capo degli uscieri e mostrandogliela gli dette l’ordine di farla avanzare.
La madre di Aladino andò fino ai piedi del trono ove si prostrò secondo il costume.
Dopo che si fu rialzata, il Sultano le chiese che desiderasse.
— Sire – gli rispos’ella – io mi presento un’altra volta innanzi alla Maestà Vostra, per rappresentarle, in nome di Aladino, mio figliuolo, che i tre mesi, cui ha differito la risposta alla domanda che ho avuto l’onore di farle, sono scorsi, e per supplicarla di voler ricordarsene.
Il sultano non giudicando a proposito di risponderle sui due piedi, si consigliò col gran Visir, manifestandogli la ripugnanza che aveva di conchiudere il matrimonio della principessa con uno sconosciuto.
Il gran Visir non esitò a manifestare al Sultano quello che ne pensava.
— Sire – gli disse – mi sembra esservi un mezzo immancabile per eludere un matrimonio sì sproporzionato, senza che Aladino, quand’anche fosse conosciuto dalla Maestà Vostra, possa lamentarsene: ed è di mettere la principessa ad un sì alto prezzo che le sue ricchezze, per grandi che siano, non possano giungervi.
Il Sultano approvò il consiglio del gran Visir, e rivoltosi verso la madre di Aladino, dopo alcuni momenti di riflessione, le disse:
— Mia buona donna, i Sultani debbono mantenere la loro parola, ed io son pronto a mantener la mia e a rendere vostro figliuolo felice col matrimonio della principessa mia figliuola. Ma siccome io non posso maritarla senza sapere il vantaggio ch’ella vi troverà, così direte a vostro figlio che io darò compimento alla mia parola appena mi avrà inviato quaranta grandi bacini d’oro massiccio, colmati delle stesse gioie che m’avete già da parte sua recate e portate da un egual numero di schiavi neri, che saranno condotti da quaranta altri schiavi bianchi, giovani di bella statura e tutti vestiti magnificamente. Ecco le condizioni di cui son pronto a dargli la principessa mia figliuola. Andate, buona donna, io aspetterò che mi portiate la risposta.
La madre di Aladino si prostrò un’altra volta innanzi al trono del Sultano e si ritirò.
Quand’ella fu rientrata in casa fece un esatto racconto di quanto il sultano le aveva detto e delle condizioni colle quali avrebbe acconsentito al matrimonio della principessa sua figliuola con lui.
Terminando soggiunse:
— Figliuol mio, egli attende la vostra risposta: ma dicendo tra noi – continuò ella sorridendo – credo che l’aspetterà lungo tempo!
— Non tanto quanto credete, madre mia – rispose Aladino – mentre attendo a soddisfarlo, apparecchiate il pranzo, e lasciatemi fare.
Appena la madre di Aladino fu uscita per andare a provvedere da pranzo, Aladino prese la lampada e la strofinò. Immantinente il Genio si presentò innanzi a lui. Aladino gli disse:
— Il Sultano mi dà la principessa sua figliuola in matrimonio: ma prima mi domanda quaranta bacini d’oro massiccio e ben pesanti, colmati de’ frutti del giardino ove ho preso la lampada di cui tu sei schiavo. Esige altresì da me che questi quaranta bacini d’oro sian portati da altrettanti schiavi neri, preceduti da quaranta schiavi bianchi, giovani ben fatti, di bella statura ed abbigliati ricchissimamente. Va’ e conducimi questo dono al più presto, affinché io lo invii al Sultano prima che finisca l’udienza del Divano.
Il Genio gli disse che il suo comando verrebbe subito eseguito, e disparve.
Pochissimo tempo dopo il Genio si fece rivedere accompagnato da quaranta schiavi neri, ciascuno caricato d’un bacino d’oro massiccio dal peso di venti marchi sulla testa, pieni di perle, di diamanti, di rubini e di smeraldi meglio scelti, per la bellezza e per la grossezza di quelli ch’eran già stati presentati al Sultano.
Ciascun bacino era coperto d’una tela d’argento a fiori d’oro.
Il Genio domandò ad Aladino se era contento e se aveva ancora a dargli qualche comando.
Avendogli Aladino detto che non gli bisognava null’altro, immantinente disparve.
La madre di Aladino, al ritornare dal mercato ed all’entrare, fu molto sorpresa di veder tanta gente e tante ricchezze. Quando si fu scaricata dalle provvigioni che portava, andò per togliersi il velo che le copriva il volto, ma Aladino glielo impedì dicendole:
— Madre mia non v’ha tempo a perdere, egli è mestieri che ritorniate subito a palazzo a condurvi il dono e la dote della principessa Badroulboudour chiestomi dal Sultano, affinché giudichi dalla mia sollecitudine e dalla mia esattezza, dello zelo ardente e sincero che ho di procurarmi l’onore del suo parentado.
Senza aspettar la risposta di sua madre, Aladino aprì la porta sulla strada e vi fece sfilare successivamente tutti gli schiavi, facendo camminare uno schiavo bianco seguito da uno nero, caricato da un bacino d’oro sul capo, e così fino all’ultimo.
E dopo che sua madre fu uscita seguendo l’ultimo schiavo nero, chiuse la porta e rimase tranquillamente nella sua camera.
Il primo degli ottanta schiavi giunse alla porta della prima corte del palazzo, e i portinai, che s’erano disposti in fila appena avevan veduto che quel meraviglioso corteggio s’approssimava, lo presero per un re, tanto era riccamente e magnificamente vestito.
Eglino s’avanzarono per baciargli il lembo della veste; ma lo schiavo, istruito dal Genio, li arrestò, e loro gravemente disse:
— Noi non siamo che schiavi, il nostro padrone comparirà quando sarà tempo.
Il primo schiavo seguito da tutti gli altri si avanzò fino alla seconda corte che era molto spaziosa, e dove la casa del Sultano era adunata durante il Divano.
Essendo il sultano stato avvertito dell’arrivo di quegli schiavi, aveva dato i suoi ordini per farli entrare.
Perciò appena si presentarono trovarono libero l’ingresso al Divano, e vi entrarono in bell’ordine una parte a destra e l’altra a sinistra. Dopo che tutti furono entrati ed ebbero formato un gran semicerchio innanzi al trono del Sultano, gli schiavi neri posarono ciascuno il bacino che portavano sul tappeto. Gli schiavi bianchi fecero la stessa cosa nello stesso tempo.
La madre di Aladino, che intanto s’era avanzata fino ai piedi del trono, disse al Sultano dopo essersi prostrata:
— Sire, Aladino mio figliuolo, non ignora che questo dono che invia alla Maestà Vostra, non sia molto al disotto di quello che merita la principessa Badroulboudour. Egli spera nondimeno che la Maestà Vostra vorrà aggradirlo, e farlo aggradire eziandio alla principessa con altrettanta maggior confidenza, in quanto che si è studiato di conformarsi alla condizione che le è piaciuto imporgli.
Il Sultano non era in istato di fare attenzione al complimento della madre di Aladino.
Il primo sguardo dato sui quaranta bacini d’oro colmati di gioielli più vivaci, splendidi e preziosi che si fossero mai veduti al mondo, e sugli ottanta schiavi che sembravano altrettanti re, sì pel loro bell’aspetto, come per la magnificenza sorprendente de’ loro abiti, l’aveva tocco in un modo che non poteva riaversi dalla sua ammirazione.
Laonde, per rimandare la madre di Aladino colla soddisfazione che si aspettava, le disse:
— Buona donna, andate a dire al figliuol vostro che io l’aspetto per riceverlo a braccia aperte, per abbracciarlo, e che più farà presto a venire a ricevere dalla mia mano il dono che gli fo della principessa mia figliuola, più mi farà piacere.
Appena la madre di Aladino si fu ritirata, colla gioia di cui una donna della sua condizione può esser capace, vedendo suo figlio pervenuto ad una sì grande altezza contro ogni sua aspettativa, il Sultano pose fine all’udienza di quel giorno.
La madre di Aladino intanto arrivò in sua casa con un aspetto che dimostrava anticipatamente la buona notizia che portava.
— Figliuol mio – diss’ella – voi avete ogni cagione di esser contento; voi siete giunto al compimento dei vostri desideri contro la mia aspettazione, contro tutto quello che ve ne ho presagito. Affine di non tenervi lungo tempo oppresso, sappiate che il Sultano, coll’approvazione di tutta la corte, ha dichiarato che voi siete degno di possedere la principessa Badroulboudour. Egli vi aspetta per abbracciarvi e per conchiudere le vostre nozze.
Aladino, fuori di sé per questa notizia e tutto pieno dell’oggetto che l’aveva innamorato, disse poche parole a sua madre, e si ritirò nella sua camera.
Quivi dopo aver preso la lampada che gli era stata sì officiosa fino allora in tutt’i suoi bisogni ed in tutto quello che aveva desiderato, non appena l’ebbe strofinata, il Genio continuò a mostrargli la sua obbedienza, apparendo subito, senza farlo attendere.
— Genio – gli disse Aladino – io t’ho chiamato affinché tu mi faccia immantinente prendere il bagno, e quando l’avrò preso voglio che tu mi tenga pronto un abito tanto ricco e magnifico, che mai monarca abbia portato.
Appena ebbe terminato di parlare, il Genio rendendolo invisibile come lui, lo rapì e lo trasportò in un bagno tutto di finissimo marmo.
Senza vedere chi lo serviva, fu spogliato in un salone spazioso e d’una grande magnificenza.
Dal salone lo si fece entrare nel bagno ch’era di un calore moderato, e dove fu strofinato e lavato con più specie di acque d’odore. Dopo averlo fatto passare per tutti i gradi di calore, secondo le differenti camere del bagno, egli ne uscì, ma tutto diverso da quello che v’era entrato. Il suo aspetto si trovò fresco, bianco, vermiglio, ed il suo corpo assai più leggiero ed assai più disposto.
Rientrato nel salone non vi trovò l’abito che vi aveva lasciato, avendo il Genio avuto cura di mettere in suo luogo quello che gli aveva chiesto.
Aladino rimase sorpreso nel vedere la magnificenza dell’abito che gli si era sostituito. Egli si vestì coll’aiuto del Genio, ammirandone ciascuna parte, tanto oltrepassava ogni sua immaginazione.
Quando ebbe terminato, il Genio lo ricondusse in sua casa nella stessa camera in cui l’aveva preso e gli chiese se aveva altra cosa a comandargli:
— Sì, – rispose Aladino – io aspetto da te al più presto un cavallo, che sorpassi in bellezza ed in bontà il cavallo più stimato che sia nella scuderia del Sultano. Io voglio anche che tu mi faccia venire nello stesso tempo venti schiavi vestiti riccamente ed altrettanto maravigliosi quanto quelli che hanno portato il dono, per camminare ai miei fianchi ed al mio seguito in ischiera, e venti altri simili per camminare innanzi a me in due file. Fa’ venire anche a mia madre sei donne schiave per servirla, ciascuna vestita riccamente almeno quanto le schiave della principessa Badroulboudour, e cariche ciascuna d’un abito compiuto, magnifici e pomposi quanto quelli della Sultana. Ho bisogno anche di diecimila monete d’oro in dieci borse. Ecco – soggiuns’egli – ciò che avevo a comandarti: va’ e fa’ subito.
Appena Aladino ebbe terminato di dare ordini siffatti al Genio, questi disparve e poco dopo si fece vedere col cavallo, coi quaranta schiavi, di cui dieci portavano ciascuno una borsa di mille monete d’oro, e con sei schiave cariche sulla testa ciascuna di un abito differente per la madre di Aladino avviluppato in una tela d’argento, ed il Genio presentò il tutto ad Aladino.
Delle dieci borse Aladino non ne prese che quattro, che dette a sua madre, dicendole che gliele dava per servirsene ne’ suoi bisogni, lasciando le altre sei tra le mani degli schiavi che le portavano, con ordine di tenerle e di gettarle a manate al popolo passando per le strade nel cammino che dovevan fare per ridursi al palazzo del Sultano.
Ordinò anche che tre marciassero innanzi a lui cogli altri tre a destra e tre a sinistra. Presentò finalmente a sua madre le sei schiave, dicendole che quelle le appartenevano, che poteva servirsene come loro padrona, e che gli abiti da quelle portati erano per uso di lei.
Quando Aladino ebbe disposto tutte le sue faccende, disse al Genio congedandolo, che lo avrebbe chiamato quando avrebbe avuto bisogno del suo servigio, ed il Genio immantinente disparve.
Allora Aladino non pensò più che a rispondere al più presto al desiderio che il Sultano aveva manifestato di vederlo.
Egli mandò al palagio uno de’ quaranta schiavi con ordine di dirigersi al capo degli uscieri e di chiedergli quando potrebbe aver l’onore di andare a gettarsi ai piedi del Sultano.
Lo schiavo non stette lungo tempo a compiere il suo messaggio, portando per risposta che il Sultano l’attendeva con impazienza.
Aladino giunse al palagio ove tutto era disposto per riceverlo.
Quando fu alla seconda porta voleva scendere a terra per conformarsi all’uso osservato da’ gran Visir, da’ generali d’esercito e da’ governatori di primo grado: ma il capo degli uscieri, che ve lo aspettava per ordine del Sultano, ne lo impedì e l’accompagnò quasi fino alla sala del Consiglio o dell’udienza, ove l’aiutò a discendere da cavallo, quantunque Aladino vi si opponesse fortemente e non volesse soffrirlo, ma non poté riuscirvi.
Appena il Sultano ebbe scorto Aladino, non fu meno maravigliato di vederlo vestito più riccamente e più magnificamente che non l’era stato mai egli stesso, che sorpreso, contro la sua aspettativa del suo buon aspetto, della bella statura e d’una certa aria di grandezza assai diversa dallo stato di bassezza in cui sua madre era apparsa innanzi a lui. La sua maraviglia e la sua sorpresa nondimeno non gli impedirono di alzarsi e di discendere due o tre gradini del suo trono assai prontamente per impedire ad Aladino di gettarsi a’ suoi piedi e per abbracciarlo con una dimostrazione piena d’amicizia. Dopo questa cortesia, Aladino voleva anche gettarsi ai piedi del Sultano, ma costui lo ritenne per la mano e l’obbligò a sedersi tra il Visir e lui.
Allora Aladino prese la parola e disse:
— Sire, io ricevo gli onori che la Maestà Vostra mi fa avendo ella la bontà e piacendole di farmeli: ma ella mi permetterà di dirle non aver io punto dimenticato d’esser nato suo schiavo, che io conosco la grandezza della sua potenza e che non ignoro quanto la mia nascita mi mette al disotto dello splendore e dell’altezza del grado supremo a cui ella è innalzata.
— Figliuol mio – rispose il Sultano abbracciandolo un’altra volta – io preferisco il piacere di vedervi e di ascoltarvi a tutti i miei tesori congiunti coi vostri.
Terminando queste parole, il Sultano fece un segnale, ed immantinente s’intese l’aria rimbombare dal suono delle chiarine e dei timballi e nello stesso tempo il Sultano condusse Aladino in un magnifico salone ove venne servito un superbo banchetto.
Il Sultano mangiò solo con Aladino.
Finito il pasto, il sultano fece chiamare il primo giudice della capitale e gl’impose di stendere il contratto di matrimonio della principessa Badroulboudour sua figliuola e di Aladino.
Quando il giudice ebbe terminato il contratto in tutte le forme volute, il sultano chiese ad Aladino se voleva rimaner nel palagio per terminar le cerimonie delle nozze lo stesso giorno.
— Sire – rispose Aladino – qualunque impazienza io abbia, di goder pienamente della bontà della Maestà Vostra, la supplico di volermi permettere che differisca fino a che abbia fatto edificare un palazzo per ricevere la principessa secondo il suo merito e la sua dignità. Io la prego a quest’uopo di concedermi uno spazio conveniente innanzi al suo, affinché possa più agevolmente fare la mia Corte. Io non dimenticherò nulla per fare in modo che sia terminato con tutta la sollecitudine possibile.
— Figliuol mio – gli disse il Sultano – prendete quanto terreno vi aggrada: il vuoto è troppo grande al mio palagio ed aveva già pensato in me stesso a riempirlo: ma ricordatevi che mi par mill’anni di vedervi unito alla mia figliuola per mettere il colmo alla mia gioia.
Ciò detto, abbracciò un’altra volta Aladino che accomiatossi dal Sultano colla stessa civiltà come se fosse stato allevato e vissuto sempre alla Corte.
Aladino risalì a cavallo e ritornò in sua casa nello stesso ordine che era venuto, attraverso della stessa folla e delle acclamazioni del popolo, che gli augurava ogni specie di bene e di prosperità.
Appena fu rientrato ed ebbe messo piede a terra, prese la lampada e chiamò il Genio, come era solito di fare. Il Genio senza farsi aspettare apparve.
— Genio, – gli disse Aladino – io ho cagione di lodarmi della tua esattezza ad eseguire puntualmente quanto ho voluto da te fino al presente per la potenza di questa lampada tua padrona. Si tratta oggi che, per amore di lei, tu faccia apparire, se è possibile, più zelo ed obbedienza che non abbia ancora fatto. Ti domando dunque in altrettanto poco tempo che potrai, tu mi faccia edificare, rimpetto al palazzo del Sultano a una giusta distanza, un palazzo degno di ricevervi la principessa Badroulboudour mia sposa.
Il sole tramontava allorché Aladino terminò d’indicare al Genio la costruzione del palagio che aveva immaginata.
L’indomani all’alba, Aladino, cui l’amore della principessa non permetteva di dormire tranquillamente, era appena alzato che il Genio se gli presentò dicendogli:
— Signore, il vostro palagio è terminato, venite a vedere se ne siete contento.
Recatosi a vederlo ei trovollo tanto superiore alla sua aspettativa, da non poterlo sufficientemente ammirare.
Il Genio lo condusse per tutti i luoghi, e dappertutto non trovò se non ricchezze, proprietà e magnificenza, con ufficiali e schiavi, tutti vestiti secondo il loro grado, e secondo i servigi cui eran destinati. Non mancò come una delle cose principali, di fargli vedere il tesoro, la cui porta fu aperta dal Tesoriere, ed Aladino vi vide una quantità di borse di diverse grandezze, secondo le somme che contenevano, innalzate fino alla volta e disposte in un modo che facevano piacere a vederle.
Uscendo, il Genio, l’assicurò della fedeltà del Tesoriere. Lo condusse poscia alle scuderie, ove gli fece osservare i più bei cavalli che vi fossero al mondo, e i palafrenieri in gran movimento per strigliarli. Lo fece passare da ultimo per dei magazzini riempiti di tutte le provvisioni necessarie.
Quando Aladino ebbe esaminato il palagio, disse al Genio:
— Genio, non si può esser più contento di quel che io lo sono, ed avrei torto di lagnarmi. Resta una sola cosa di cui non t’ho nulla detto, per non averci prima pensato ed è di stendere dalla porta dell’appartamento destinato alla principessa in questo palazzo un tappeto del più bel velluto, affinché ella vi cammini sopra venendo dal palazzo del Sultano.
— Io ritorno in un momento – disse il Genio.
E appena disparso, poco tempo dopo Aladino fu maravigliato di vedere che quanto aveva desiderato, era già stato eseguito.
Il Genio riapparve e riportò Aladino in sua casa, nel mentre che si apriva la porta del palazzo del Sultano.
I portinai del palazzo che allora aprivano la porta e che avevano avuto sempre la veduta libera dalla parte in cui era quello di Aladino, furono assai meravigliati di vederla limitata e di vedere un tappeto di velluto che si stendeva da quella parte fino alla porta del palazzo del Sultano. Essi non distinsero dapprima bene ciò che fosse: ma la loro sorpresa si aumentò quando ebbero veduto chiaramente il palazzo di Aladino.
La nuova d’una maraviglia così sorprendente fu tosto diffusa in tutto il palagio in pochissimo tempo.
Quando Aladino fu riportato in sua casa e che ebbe congedato il Genio, trovò che sua madre s’era alzata, e che cominciava ad abbigliarsi di uno di quegli abiti che le aveva fatto portare.
Verso l’ora che il Sultano stava per uscire dal consiglio, Aladino dispose sua madre ad andare al palazzo colle stesse schiave che il Genio le aveva fornito. La pregò che vedendo il Sultano gli dicesse ch’ella andava per aver l’onore di accompagnare la principessa verso sera quando sarebbe in istato di passare al suo palagio.
Aladino salì a cavallo, e dopo essere uscito dalla sua casa paterna per non più ritornarvi, senza aver dimenticato di prendere con sé la lampada maravigliosa il cui soccorso gli era stato sì vantaggioso per giungere al colmo della sua felicità, andò pubblicamente al suo palazzo colla stessa pompa in cui era andato a presentarsi al Sultano il giorno innanzi.
I custodi del palazzo appena ebbero scorto la madre di Aladino che veniva, ne avvertirono il Sultano.
La madre di Aladino fu onorevolmente ricevuta nel palazzo ed introdotta nell’appartamento della principessa Badroulboudour dal capo degli eunuchi.
La principessa appena la vide andò ad abbracciarla e le fece prender posto sul suo sofà, e mentre le sue donne terminavano di vestirla ed ornarla dei più preziosi gioielli, la fece regalare d’una colazione magnifica. Quando la notte fu venuta, la principessa prese congedo dal Sultano suo padre.
I loro addii furono teneri e misti di lacrime, si abbracciarono più volte senza nulla dirsi, finalmente la principessa uscì dal suo appartamento mettendosi in cammino colla madre di Aladino alla sua sinistra, e seguita da cento schiave vestite con una magnificenza sorprendente.
La principessa arrivò finalmente nel nuovo palagio, ed Aladino corse con tutta la gioia immaginabile all’ingresso dell’appartamento che le era destinato per riceverla.
La madre di Aladino aveva avuto cura di far distinguere il figliuolo alla principessa nel mezzo degli ufficiali che lo circondavano, e la principessa scorgendolo, lo ritrovò sì ben fatto, che ne rimase tutta compiaciuta.
— Adorabile principessa – le disse Aladino avvicinandosele, e salutandola con grandissimo rispetto – se avessi la sciagura di dispiacervi per la temerità che ho avuta di aspirare al possesso di una sì amabile principessa figliuola del mio Sultano, oso dirvi che dovreste accagionare i vostri begli occhi e le vostre bellezze, non già per me.
— Principe, poiché così debbo trattarvi presentemente – gli rispose la principessa – io obbedisco alla volontà del Sultano mio padre e mi basta avervi veduto per dirvi che gli obbedisco senza ripugnanza.
La principessa Badroulboudour, Aladino e la madre di questi, si posero a tavola, e subito un coro di strumenti i più armoniosi, toccati e accompagnati da bellissime voci di donne di rara bellezza, cominciò un concerto, che durò fino al termine del pasto.
Mezzanotte era vicina, quando secondo il costume della China, in quel tempo, Aladino si alzò e presentò la mano alla principessa Badroulboudour per ballare insieme e terminare così le cerimonie delle loro nozze.
Essi ballarono sì bene, che destarono l’ammirazione di tutta la compagnia.
Terminando, Aladino senza lasciare la mano della principessa, passò con lei nell’appartamento, ove il letto nuziale era preparato.
Così furono terminate le cerimonie ed i godimenti delle nozze di Aladino e della principessa Badroulboudour.
L’indomani, quando Aladino fu svegliato, i suoi famigliari si presentarono per abbigliarlo e gli posero un abito diverso da quello del giorno delle nozze, ma altrettanto ricco e magnifico.
Poscia fattosi condurre uno dei cavalli destinati per la sua persona, vi montò sopra e andò al palazzo del Sultano nel mezzo ad una grossa schiera di schiavi che camminavano innanzi a lui, a’ suoi lati ed al suo seguito.
Il Sultano lo ricevé con gli stessi onori della prima volta, l’abbracciò, e dopo averlo fatto sedere presso di lui sul suo trono, comandò che si servisse la colazione.
— Sire – gli disse Aladino – io supplico la Maestà Vostra di dispensarmi oggi da quest’onore. Io vengo a pregarla di venire a prendere un pasto nel palazzo della principessa col suo gran Visir e i signori della sua Corte.
Il Sultano, concedutagli con piacere questa grazia si alzò subito. Siccome il cammino non era lungo, volle andarvi a piedi, preceduto dai paggi e dai principali ufficiali della sua casa.
Più il Sultano s’avvicinava al palazzo di Aladino, più era tocco nella sua bellezza. Ma quando fu giunto al salone delle ventiquattro finestre, quando ne ebbe veduto gli ornamenti e sopratutto le gelosie arricchite di diamanti, di rubini e di smeraldi, tutte pietre perfette a proporzione della loro grossezza, e quando Aladino gli ebbe fatto osservare che la ricchezza era eguale al di fuori, ne fu talmente sorpreso che rimase come immobile.
Aladino, che aveva lasciato il Sultano per dare alcuni ordini, venne a raggiungerlo. il Sultano gli disse:
— Figliuol mio, ecco un salone degno di essere ammirato a preferenza di tutti quelli che sono al mondo.
Il Sultano intanto discese dal Salone, ed Aladino lo condusse in quello in cui aveva pranzato colla principessa Badroulboudour il giorno delle sue nozze.
La principessa arrivò un momento dopo, e ricevette il Sultano suo padre con un aspetto che gli fece conoscere quanto fosse contenta del suo matrimonio.
Due tavole si trovarono fornite delle vivande più delicate e servite tutte in vasellami d’oro.
Il Sultano trovò i cibi di buon gusto, e confessò che nulla aveva mangiato di più eccellente.
Disse ancora lo stesso del vino, che era difatti deliziosissimo.
Quello che ammirò di più furono quattro grandi tavole guarnite e cariche di fiaschi, di bacini d’oro massiccio, il tutto arricchito di pietre preziose.
Aladino ricevette le lodi del Sultano con molta modestia, e gli rispose in questi termini:
— Sire, è una gran gloria per me di meritare la benevolenza e l’approvazione della Maestà Vostra, e quello di cui posso assicurarla si è che non dimenticherò nulla per meritarmi maggiormente l’una e l’altra.
Il Sultano ritornò al suo palagio nel modo in cui v’era venuto senza permettere ad Aladino di accompagnarvelo.
Ogni giorno regolarmente il Sultano appena s’alzava, non tralasciava d’andare in un gabinetto d’onde si scopriva tutto il palagio d’Aladino e vi ritornava anche più volte nel corso della giornata per contemplarlo ed ammirarlo.
Aladino intanto non restava già chiuso nel suo palazzo; egli aveva cura di farsi vedere più d’una volta in ciascuna settimana per la città, sia che andasse a fare la preghiera ora in una moschea ora in un’altra, o di quando in quando andasse a render visita al gran Visir, il quale affettava di andarlo a corteggiare in certi giorni della settimana, o che facesse l’onore ai principali della Corte, ch’egli convitava spesso nel suo palazzo, d’andarli a visitare in casa loro.
Ciascuna volta che usciva faceva gettare da due de’ suoi schiavi, che camminavano ordinati intorno al cavallo, dei pugni di monete nelle strade e nelle piazze per dove passava, e dove il popolo andava sempre in gran folla.
D’altra parte non un povero si presentava alla porta del suo palazzo che non ne ritornasse contento.
Intanto Aladino aveva diviso il suo tempo in modo che non vi era settimana in cui non andasse a caccia almeno una volta.
Finalmente, senza dar ombra al Sultano, cui faceva regolarmente la corte, Aladino si era attirato colle sue maniere affabili e liberali tutta l’affezione del popolo, ed egli era amato più dello stesso Sultano. Aggiungeva poi a tutte queste belle qualità un valore ed uno zelo pel bene dello Stato, che non si saprebbe abbastanza lodare. Ne dette anche delle prove in occasione d’una ribellione verso i confini del Regno.
Non appena ebbe saputo che il Sultano levava un esercito per dissiparla, lo supplicò di dargliene il comando, il che non durò fatica ad ottenere.
Come fu a capo dell’esercito, si condusse in tutta quella spedizione con tanta diligenza, che il Sultano seppe più presto essere stati i ribelli disfatti, castigati e dissipati, che il suo arrivo all’esercito. Quest’azione che rese il suo nome celebre in tutta l’estensione del Regno, non cambiò punto il suo cuore: egli ritornò vittorioso, ma così dolce ed affabile, come lo era stato sempre.
Eran già più anni che Aladino si governava nel modo che abbiamo annunziato, quando il Mago, che gli aveva dato senza pensarvi il mezzo d’innalzarsi ad una sì alta fortuna, si ricordò di lui in Africa ov’era ritornato.
Quantunque fino allora si era persuaso che Aladino era morto nel sotterraneo in cui lo aveva lasciato, gli venne nonpertanto il pensiero di sapere qual era stato il suo fine.
Essendo molto versato nella geomanzia, trasse da un armadio un quadrato in forma di cassettina coperta, di cui si serviva per fare le suo osservazioni: ed assisosi sopra un sofà pose il quadrato innanzi a lui, lo scoprì, e dopo aver preparato ed eguagliato la sabbia coll’intenzione di sapere se Aladino era morto nel sotterraneo, gettò i punti e ne formò l’oroscopo.
Esaminando l’oroscopo per portarne giudizio, invece di trovare che Aladino era morto nel sotterraneo, scoprì che ne era uscito invece e che viveva sulla terra in grande splendore potentemente ricco, marito d’una principessa, amato e rispettato.
Per la rabbia che ne concepì, disse a sé stesso:
— Questo miserabile figlio di sarto ha scoperto il segreto e la virtù della lampada; io aveva creduto la sua morte certa, ed eccolo che gode il frutto delle mie fatiche e delle mie veglie. Io farò in modo che non ne goda per lungo tempo, oppure morirò!
E non istette lungo tempo a deliberare sul partito che aveva a prendere. Il giorno appresso salì sopra un cavallo che aveva nella sua scuderia e si pose in cammino.
Di città in città e di provincia in provincia arrivò in Cina, e ben presto nella capitale del Sultano di cui Aladino aveva sposata la figliuola. Scese in un Khan, o osteria pubblica, ove prese una camera in affitto, e ove rimase il resto del giorno e la notte seguente per rimettersi dalla fatica del viaggio.
Si trattava di sapere ove fosse la lampada, se Aladino l’avesse indosso, o in qual luogo la conservava, e questo il mago scoprì per mezzo d’una operazione di geomanzia.
Appena giunto dove albergava, prese il quadrato e la sabbia che portava in tutti i suoi viaggi.
Terminata l’operazione, conobbe che la lampada stava nel palazzo di Aladino.
— Io l’avrò questa lampada – diss’egli – e sfido Aladino d’impedirmi di rapirgliela e di farlo discendere fino alla bassezza d’onde ha preso un sì alto volo.
La sciagura volle per Aladino ch’ei fosse andato ad una partita di caccia per otto giorni: ed ecco in qual modo il Mago africano ne fu informato.
Quando ebbe fatto l’operazione che gli cagionò tanta gioia andò a vedere il portinaio del Khan sotto pretesto di conversare con lui, e gli disse che aveva veduto il palazzo di Aladino: e dopo di avervi esagerato quanto aveva veduto di sorprendente, gli disse:
— La mia curiosità va più lungi, e non sarò soddisfatto se non vedo il padrone cui appartiene un edificio sì maraviglioso.
— Non vi sarà difficile di vederlo – rispose il portinaio – non vi è giorno che non ne dia occasione quando è in città: ma sono tre giorni che è fuori per una grande caccia che ne deve durare otto.
Il Mago africano non volle saperne di più.
Prese congedo dal portinaio, e ritirandosi disse tra sé:
— Ecco il tempo di operare, ed io non debbo lasciarlo sfuggire.
Andato alla bottega di un fabbricante di lampade gli disse:
— Maestro, ho bisogno di una dozzina di lampade di rame. Potete fornirmele?
Il venditore gli disse che ne mancavano alcune, ma che se voleva aver pazienza fino all’indomani gliele avrebbe fornite tutte all’ora che avrebbe voluto.
Il Mago vi acconsentì e gli raccomandò che fossero proprie e ben pulite, e dopo avergli promesso che lo avrebbe pagato bene, si ritirò nel suo Khan.
L’indomani le dodici lampade furono date al Mago africano, che le pagò al prezzo chiestogli, senza nulla diminuire.
Le pose in un paniere, di cui s’era provveduto, e con quello sotto al braccio, andò verso il palazzo di Aladino: e quando si fu avvicinato si pose a gridare:
— Chi vuol cambiare vecchie lampade con delle nuove?
A misura che avanzava, i fanciulli i quali giuocavano sulla piazza l’intesero, accorsero, e si radunarono intorno a lui con grandi urla guardandolo come un pazzo.
Ripeté sì spesso la stessa cosa, andando e venendo nella piazza innanzi al palazzo e nei dintorni, che la principessa Badroulboudour, la quale stava allora nel salone delle ventiquattro finestre intese.
Ma siccome non poteva distinguere ciò che gridava a cagione delle urla dei fanciulli che lo seguivano, mandò una delle schiave che più l’accostavano, a vedere che cosa fosse quel rumore.
La schiava non istette lungo tempo a risalire, ed entrò nel salone così di buon umore, che la principessa non poté impedirsi dal ridere anch’essa guardandola.
— Ebbene, pazza – disse la Principessa – vuoi tu dirmi perché tu ridi?
— Principessa – rispose la schiava ridendo sempre – chi potrebbe impedirsi dal ridere vedendo un pazzo con un paniere sotto al braccio, pieno di belle lampade tutte nuove, che non domanda di venderle, ma a cambiare con delle vecchie?
Dietro a questo racconto, un’altra schiava prendendo la parola disse:
— A proposito di vecchie lampade, non so se la Principessa ha badato che ve n’è una sul cornicione. Quegli a cui appartiene non sarà certo scontento di trovarne una nuova invece di questa vecchia. Se la Principessa lo permette, può avere il piacere di provare se questo pazzo lo è tanto, da darne una lampada nuova, in cambio di una vecchia senza domandare un compenso.
La lampada, di cui la schiava parlava, era quella maravigliosa che servì ad Aladino per innalzarsi al punto di grandezza cui era arrivato, e l’aveva messa egli medesimo sul cornicione prima di andare alla caccia, nel timore di perderla, ed aveva presa la stessa precauzione tutte le volte che ci era andato. Ma né le schiave, né gli eunuchi, né la medesima Principessa vi avevano fatto attenzione una sola volta fino allora durante le sue assenze.
La principessa Badroulboudour, la quale ignorava che la lampada fosse tanto preziosa quanto lo era, e che Aladino avesse un interesse tanto grande quanto n’aveva che non la si toccasse e che venisse conservata, partecipò alla piacevolezza, comandando ad un eunuco di prenderla e di andare a fare il cambio.
L’eunuco obbedì, discese dal salone e non appena fu uscito dal palazzo, che scorse il Mago africano.
Egli lo chiamò, e quando gli fu vicino, mostrandogli la vecchia lampada, gli disse:
— Dammi una lampada nuova per questa vecchia.
Il Mago africano non dubitò che quella non fosse la lampada da lui cercata, non potendovene essere altre nel palazzo di Aladino, in cui tutto il vasellame era d’oro o d’argento.
Laonde la prese prontamente dalle mani dell’eunuco, e dopo aversela accuratamente posta nel seno, gli presentò il suo paniere, dicendogli di scegliere quella che più gli piaceva.
L’eunuco scelse, e dopo aver lasciato il Mago, portò la lampada nuova alla principessa Badroulboudour.
Il Mago africano, come fu fuori dalla piazza che stava fra i due palazzi, si internò per le strade meno frequentate, e siccome non aveva bisogno né delle altre lampade né del paniere, posò il tutto nel mezzo di una strada, ove non v’era nessuno.
Fatto questo, affrettò il passo fino a che non fu giunto ad una delle porte della città.
Continuando il suo cammino pel sobborgo, prese alcune provvisioni prima che ne uscisse. Quando fu nella campagna andò ad un luogo ove nessuno poteva vederlo ed ove restò fin al punto che giudicò a proposito per eseguire il disegno che l’aveva condotto fin là. Non si incaricò più della bestia che aveva lasciato al Khan in cui aveva preso albergo, credendosi ben risarcito dal tesoro acquistato.
Il Mago africano passò il resto del giorno in quel luogo fino a notte inoltrata quando le tenebre erano più oscure.
Allora trasse la lampada dal seno e la strofinò.
A quel richiamo il Genio gli apparve, chiedendogli subito:
— Che vuoi tu? Eccomi pronto ad obbedirti come schiavo tuo e di tutti quelli che hanno la lampada alla mano, io e i miei compagni.
— Io ti comando – rispose il Mago africano – che in questo punto medesimo tu rapisca il palazzo, che tu e gli altri schiavi della lampada avete fabbricato in questa città, tale quale è con tutti i viventi che vi sono, e che tu lo trasporti con me nello stesso tempo in un tal luogo dell’Africa.
Il Genio senza rispondergli, coll’aiuto dei suoi compagni, trasportò in pochissimo tempo il Mago e l’intero palazzo al luogo proprio dell’Africa che gli aveva indicato.
Noi lasceremo il Mago africano e il palagio colla principessa Badroulboudour in Africa, per parlare della sorpresa del Sultano.
Appena il Sultano fu alzato, non mancò secondo il suo solito di andare nel gabinetto aperto per avere il piacere di contemplare e di ammirare il palazzo di Aladino.
Guardando dalla parte ove era solito di vedere quel palazzo, non vide che uno spazio vuoto, tale quale era prima che vi fosse fabbricato.
La sua meraviglia fu sì grande che rimase lungo tempo immobile cogli occhi rivolti dalla parte in cui il palazzo era stato; infine ritornò nel suo appartamento, ove comandò che immantinenti gli si facesse venire il gran Visir.
Il Visir giunto alla presenza del Sultano gli disse:
— Sire, la premura con cui la Maestà Vostra mi fece chiamare, mi ha fatto giudicare che qualche cosa di molto straordinario sia accaduto, poiché non ignoro che oggi è giorno di Consiglio e che non dovevo mancare di rendermi al dovere mio tra pochi momenti.
— Ciò che è accaduto – rispose il Sultano – è veramente straordinario come tu dici, e ne converrai tu pure. Dimmi, ov’è il palazzo di Aladino?
— Il palazzo di Aladino, Sire? – chiese a sua volta il gran Visir con istupore. – Io vi son passato or ora innanzi e mi è sembrato che stesse al suo luogo. Edifici così solidi come quello non cangiano di posto così facilmente.
— Va’ a vedere nel mio gabinetto, e verrai a dirmi se l’avrai veduto.
Il gran Visir andò al gabinetto aperto, e gli accadde la stessa cosa che al Sultano.
Quando si fu bene assicurato che il palazzo di Aladino non trovavasi più ove era stato, ritornò a presentarsi al Sultano.
— Ebbene hai tu veduto il palazzo di Aladino? – gli chiese il Sultano.
— Sire – rispose il gran Visir – la Maestà Vostra può ricordarsi che io ho avuto l’onore di dirle che quel palazzo il quale faceva il subbietto delle ammirazioni di lei colle sue immense ricchezze, non era se non un’opera di magia e di mago.
Il Sultano che non poteva disconvenire di ciò che il gran Visir gli diceva, fu compreso da una collera altrettanto più grande, in quanto che non poteva confessare la sua incredulità.
— Ov’è – diss’egli – quell’impostore, quello scellerato, affinché gli faccia mozzare il capo? Va’ ad ordinare a trenta de’ miei cavalieri di condurmelo carico di catene.
Il gran Visir andò a dar l’ordine del Sultano ai cavalieri.
Eglino partirono ed incontrarono Aladino a cinque o sei leghe dalla città che ritornava cacciando.
L’ufficiale gli disse, andandogli incontro:
— Principe Aladino, con grande dispiacere vi dichiariamo l’ordine ricevuto dal Sultano di arrestarvi e di condurvi innanzi a lui; però vi supplichiamo di non trovar male che adempiamo al nostro dovere.
Questa dichiarazione produsse una grande sorpresa in Aladino, che si sentiva innocente.
Egli chiese all’ufficiale se sapeva di qual delitto era accusato; a cui quello rispose, che né egli né le sue genti ne sapevano nulla.
Come Aladino vide che le sue genti erano di molto inferiori al drappello, e inoltre che quelle si allontanavano, pose piede a terra dicendo:
— Eccomi, eseguite l’ordine che avete. Io posso dire nondimeno che non mi sento colpevole di alcun delitto, né verso la persona del Sultano, né verso lo Stato.
Immantinente gli si passò al collo una catena assai grossa e molto lunga, con cui lo si legò anche in mezzo al corpo.
Quando l’ufficiale si fu messo innanzi alla sua schiera, un Cavaliere prese il capo della catena, e camminando dietro l’ufficiale condusse Aladino innanzi al Sultano, il quale appena lo vide, comandò al carnefice di mozzargli il capo.
Quando il carnefice si fu impadronito di Aladino, gli tolse la catena d’intorno al collo ed al corpo, e dopo avere steso per terra un tappeto di cuoio tinto dal sangue di una infinità di malfattori da lui morti, lo fece mettere in ginocchioni e gli bendò gli occhi.
Dopo ciò trasse dalla guaina la sua sciabola, prese la sua misura, per dare il colpo, e attese che il Sultano gliene desse il segnale.
In questo mentre il popolaccio, memore di tante beneficenze ricevute da Aladino, saputa la sua disgrazia, forzò la guardia ed empiuto il largo, aveva scalato le mura del palazzo in più luoghi, e cominciava a demolirlo.
Lo spavento del Sultano fu sì grande quando ebbe veduto un tumulto così formidabile, che nel momento stesso comandò al carnefice di rimettere la sua sciabola nel fodero, di toglier la benda dagli occhi di Aladino, e di lasciarlo libero.
Dette ordine eziandio ai banditori di gridare che il Sultano gli faceva grazia, e che il popolo si ritirasse.
Quando Aladino videsi libero, si rivolse al Sultano, dicendogli con voce commovente:
— Sire, supplico la Maestà Vostra di farmi conoscere qual è il mio delitto.
— Qual è il tuo delitto, perfido! – rispose il Sultano – non lo sai tu dunque? Sali fin qui – continuò egli – e te lo farò conoscere.
Egli lo condusse fino al gabinetto aperto, e quando vi fu giunto:
— Entra – soggiunse – tu devi sapere dov’è il tuo palazzo; guarda da ogni lato, e dimmi che n’è divenuto?
Aladino allora ruppe il silenzio dicendo:
— Sire, io veggo bene e lo confesso che il palazzo che ho fatto edificare non è più al luogo in cui stava, io vedo che è sparito, e non posso dire egualmente alla Maestà Vostra dove può essere: ma posso assicurarla che io non ho alcuna parte a questo avvenimento.
— Io non sono già in pena per quel che del tuo palazzo è divenuto – soggiunse il Sultano. – Io stimo la mia figliuola un milione di volte di più: però voglio che tu me la ritrovi, altrimenti ti farò mozzare il capo, e niuna considerazione me lo impedirà!
— Sire – rispose Aladino – supplico la Maestà Vostra di concedermi quaranta giorni per fare le mie ricerche: e se in questo intervallo io non vi riesco, le do la mia parola che porterò la mia testa ai piedi del suo trono, affinché ella ne disponga a sua volontà.
— Io ti concedo i quaranta giorni che mi chiedi – rispose il Sultano.
Aladino si sottrasse alla presenza del Sultano grandemente umiliato da far compassione.
Attraversò le camere, i corridoi, i cortili colla testa bassa, senza osare di alzar gli occhi nella confusione in cui era, e i principali ufficiali della Corte, da lui beneficati in mille modi, invece di avvicinarsi a lui per consolarlo e per offrirgli un asilo presso di loro, gli volsero le spalle.
Non potendo più oltre restare in una città in cui aveva fatta una bella figura, ne uscì e prese la via della campagna.
— Dove andrò mai a cercare il mio palazzo? In qual provincia, in qual paese, in qual parte del mondo lo troverò insieme alla mia cara principessa? Non lo ritroverò mai più; val dunque meglio che mi liberi da tante fatiche!
Egli s’accingeva a gettarsi nel fiume, secondo la risoluzione presa, ma credette, da buon mussulmano fedele alla sua religione, di non doverlo fare senza aver prima fatto la sua preghiera.
Volendo prepararvisi, si avvicinò alla sponda del fiume per lavarsi le mani ed il viso secondo il costume del paese.
Ma siccome quel luogo era un poco in declivio e bagnato dall’acqua che vi batteva, così scivolò, e sarebbe caduto nel fiume se non si fosse rattenuto ad un piccolo scoglio che sporgeva fuori dalla terra circa due piedi.
Felicemente per lui portava ancora l’anello che il Mago africano gli aveva messo in dito prima che discendesse nel sotterraneo.
Rattenendosi adunque, strofinò fortemente l’anello contro lo scoglio, e immantinente lo stesso Genio apparsogli nel sotterraneo in cui il Mago africano lo aveva chiuso, gli apparve un’altra volta, dicendogli:
— Che vuoi? Eccomi pronto ad obbedirti come schiavo tuo e di tutti quelli che hanno l’anello al dito, io e gli altri schiavi dell’anello.
Aladino, piacevolmente sorpreso da un’apparizione sì poco aspettata nella disperazione in cui stava immerso, rispose:
— Genio, salvami una seconda volta insegnandomi ov’è il palazzo che ho fatto fabbricare, e facendo in modo che sia portato immantinenti al luogo ov’era.
— Quello che tu mi chiedi – soggiunse il Genio – non è in mio potere di concederti, non essendo io che schiavo dell’anello; rivolgiti adunque allo schiavo della lampada.
— Quand’è così – riprese Aladino – io ti comando dunque, per la potenza dell’anello, di trasportarmi fino al luogo in cui è il mio palazzo, dove che sia, e di posarmi sotto le finestre della principessa Badroulboudour.
Appena ebbe terminato di parlare, il Genio lo prese e lo trasportò in Africa, nel bel mezzo d’una prateria ove stava il palazzo poco lontano da una grande città, e lo posò precisamente sotto le finestre dell’appartamento della principessa, ove lo lasciò.
Tutto ciò avvenne in un istante.
Guardando prima di tutto quell’edificio, provò una gioia inesprimibile d’esser sul punto di ridivenirne padrone, e nello stesso tempo di ripossedere la sua cara principessa; ed alzatosi, si accostò all’appartamento della principessa aspettando che si facesse più chiaro il giorno e che potesse esser veduto.
Quando la principessa fu vestita una delle sue donne guardando a traverso d’una persiana, scorse Aladino, e immantinente andò a darne contezza alla sua padrona, la quale, non prestando fede a quella notizia, andò subito ad affacciarsi alla finestra e scorgendolo aprì la persiana.
Aladino avendo alzata la testa, e scortala, la salutò in modo che esprimeva l’eccesso della sua gioia.
— Per non perder tempo – gli disse la principessa – si è andato ad aprirvi la porta segreta, entrate e salite.
E ciò detto, chiuse la gelosia.
La porta segreta stava sotto l’appartamento della principessa, ed Aladino, trovatala aperta, salì all’appartamento di lei.
Non è possibile esprimere la gioia di quei due sposi nel rivedersi: dopo essersi abbracciati più volte, si dettero tutte le prove d’amore e di tenerezza che immaginar si possano.
Dopo questi abbracci misti di lagrime e di gioia si sedettero, ed Aladino, prendendo la parola, disse:
— Principessa, prima di ogni altra cosa, vi supplico in nome di Dio, per vostro interesse, per quello del Sultano vostro rispettabile padre, e pel mio in particolare, di dirmi ciò che è divenuto d’una vecchia lampada che io aveva messa sul cornicione del salone a ventiquattro finestre prima di andare alla caccia?
— Ah, caro consorte – rispose la principessa – io aveva ben dubitato che la nostra reciproca sciagura provenisse da questa lampada, e ciò che mi desola è che io medesima ne sono la causa.
— Principessa – soggiunse Aladino – non ve ne attribuite già la causa, essendo tutta mia perché avrei dovuto esser più cauto nel conservarla. Intanto non pensiamo che a riparare a simil perdita, ed a tal uopo fatemi la grazia di raccontarmi in qual guisa la cosa è andata, ed in quali mani si trova!
Allora la principessa Badroulboudour raccontò ad Aladino quanto era accaduto nel cambio della lampada vecchia per la nuova, che essa si fece portare affinché la vedesse, e come la notte seguente, erasi accorta del trasporto del palazzo, s’era trovata la mattina nel paese sconosciuto in cui gli parlava e che era l’Africa, particolarità che aveva saputo dalla bocca medesima del traditore mago.
— Principessa – disse Aladino interrompendola – voi mi avete fatto conoscere il traditore dicendomi che sono nell’Africa con voi. Esso è il più perfido di tutti gli uomini. Ma questo non è né il tempo né il luogo di darvi una pittura più ampia delle sue malvagità. Io vi prego solamente di dirmi ciò che ha fatto della lampada e dove l’ha messa.
— Egli la porta al suo seno avviluppata preziosamente – rispose la principessa – e posso farvene testimonianza poiché l’ha tratta più volte in mia presenza per farsene un trofeo.
— Mia cara principessa – disse allora Aladino – non mi sappiate malgrado di tante inchieste di cui vi opprimo poiché esse sono egualmente importanti per voi, e per me. Per venire a ciò che v’interessa più particolarmente, ditemi, ve ne scongiuro, come vi tratta un uomo sì cattivo e perfido?
— Dacché sono in questo luogo – rispose la principessa – non si è presentato innanzi a me che una volta in ciascun giorno, e sono ben persuasa che la poca soddisfazione che ricava dalle sue visite fa che non m’importuni più spesso. Io nondimeno dubito che la sua intenzione non sia di lasciar passare i miei più vivi dolori, nella speranza che io cangerò di sentimento e affine di usare la violenza se persevero a resistergli. Ma, caro sposo, la vostra presenza ha già dissipato le mie inquietudini.
— Principessa – interruppe Aladino – credo che non invano sien dissipate, poiché mi sembra aver trovato il mezzo di liberarci ambedue da questo nemico. Ma per ciò è necessario ch’io vada in città. Sarò di ritorno verso il mezzodì, e allora vi comunicherò qual è il mio disegno, e ciò che bisognerà che voi facciate per contribuire a farlo riuscire. Intanto siate avvertita di non maravigliarvi se ritorno con un altro abito, ed ordinate che non mi si faccia attendere alla porta segreta al primo colpo che darò.
La principessa gli promise che lo si attenderebbe alla porta, e che si starebbe pronti ad aprirgli.
Quando Aladino fu disceso dall’appartamento della principessa ed uscito per la medesima porta, guardò dall’un lato e dall’altro, e scorse un contadino che prendeva la via della campagna.
Siccome il contadino andava al di là del palazzo e si era già un poco allontanato, Aladino sollecitò il passo, e quando l’ebbe raggiunto gli propose di cangiar d’abito e fece tanto che il contadino vi acconsentì.
Il cambio si fece nel mezzo d’un cespuglio, e quando si furon separati, Aladino prese il cammino della città.
Appena vi fu entrato prese la strada che metteva capo alla porta ed intromettendosi nelle strade più frequentate arrivò al luogo ove ciascuna specie di mercanti e d’artigiani avevano la loro strada particolare.
Entrò in quella dei droghieri, e direttosi alla più grande e meglio fornita bottega, domandò al mercante se aveva una certa polvere che gl’indicò.
Il mercante la pesò, la incartocciò e dandola ad Aladino ne chiese una moneta d’oro.
Aladino gliela mise tra le mani, ritornò al suo palazzo e salì all’appartamento della principessa Badroulboudour.
— Principessa – le disse – se volete seguire il mio consiglio, comincierete da questo momento col vestirvi con uno de’ vostri abiti più belli, e quando il Mago africano verrà, non farete difficoltà di riceverlo con tutta la buona accoglienza possibile; invitatelo a cenare con voi, e ditegli che avreste grandissimo desiderio di assaggiare il miglior vino del suo paese. Egli non mancherà di abbandonarvi per andarne a cercare ed allora, aspettando che egli ritorni, mettete questa polvere in uno dei bicchieri simili a quelli in cui avete uso di bere, e mettendolo da parte, avvertite quella tra le vostre donne che vi darà da bere di portarvelo pieno di vino al segno che le farete. Quando il Mago sarà ritornato e che sarete a tavola, dopo aver mangiato e bevuto quanto giudicherete a proposito, fatevi portare il bicchiere ove sarà la polvere e cangiatelo col suo. Egli troverà un tale favore sì grande che non ricuserà di farlo, e berrà anche senza nulla lasciare nel bicchiere, e appena lo avrà vuotato lo vedrete cader rovescioni.
Così accordatosi colla principessa, Aladino tolse congedo da lei, e andò a passare il resto del giorno nei dintorni del palazzo, aspettando la notte per avvicinarsi alla porta segreta.
Il Mago africano non mancò di venire alla sua solita ora.
Appena la principessa lo vide entrare nel salone delle ventiquattro finestre, ove l’aspettava, ella s’alzò con tutto il suo apparecchio di bellezza e di grazia, e gli mostrò colla mano il luogo distinto ove aspettava che si mettesse a sedere insieme con lei, somma cortesia ch’ella non gli aveva mai usato.
Il Mago africano più abbagliato dallo splendore dei begli occhi che dal fulgore delle pietre preziose di cui stava ornato, fu sorpreso.
Dapprima voleva sedere sulla sponda del sofà, ma come vide che la principessa non voleva prender posto se prima egli non si sedeva ove egli desiderava, obbedì. Quando il Mago africano fu seduto, la principessa per trarlo d’impaccio in cui lo vedeva, prese la parola, guardandolo in modo da fargli credere che non le fosse più odioso, come essa aveva fatto apparire fino a quel momento e gli disse:
— Voi vi maraviglierete senza dubbio di vedermi oggi diversa da quel che mi avete veduta finora; ma non ne sarete più sorpreso quando vi dirò che io sono d’un carattere sì opposto alla tristezza, alla malinconia, al cordoglio ed alle inquietudini che cerco allontanarli al più presto possibile, appena vedo che la cagione n’è passata. Io ho riflettuto sopra quanto m’avete detto del destino di Aladino e dell’umore di mio padre che conosco, e son persuasa come voi che non ha potuto evitar l’effetto terribile del suo corruccio. Però, quando anche m’ostinassi a piangerlo per tutta la vita, vedo bene che le mie lacrime non lo farebbero rivivere. Ed è per questo che dopo avergli reso anche fino alla tomba i doveri che il mio amore m’imponeva, m’è sembrato che dovessi cercare tutti i mezzi per consolarmi. Ecco la cagione del cambiamento che voi vedete in me. Per cominciar dunque ad allontanar ogni soggetto di tristezza, risoluta a bandirla interamente, e persuasa che volentieri mi terrete compagnia, ho comandato che ci si preparasse la cena. Ma siccome non ho che vino della China, or che mi trovo in Africa, mi ha preso molto desiderio di assaggiare quello di questo stesso paese ed ho creduto, se mai ve ne ha, che voi ne crederete del migliore.
Il Mago che aveva tenuto come impossibile la felicità di pervenire sì prontamente e sì facilmente a entrare nelle buone grazie della principessa Badroulboudour, le disse che non trovava termini sufficienti per manifestarle quanto fosse sensibile alle sue bontà: ed infatti per finire, più presto un colloquio dal quale avrebbe avuto pena a trarsi se vi si fosse impegnato prima, prese a parlare del vino d’Africa di cui gli aveva fatto parola, e le disse che i vantaggi di cui l’Africa poteva andare altera, quello di produrre eccellenti vini era uno dei principali, particolarmente nella parte in cui ella si trovava; che ne aveva una quantità posta in serbo da sette anni la quale non era stata ancora toccata, e che senza troppo lodarlo, era un vino il quale sorpassava in bontà i più eccellenti di tutto l’universo.
— Se la principessa – aggiunse egli – vuol permetterlo andrò a prenderne due bottiglie e sarò di ritorno sul momento.
— Mi dispiace cagionarvi questo incomodo – gli rispose la principessa – sarebbe meglio che mandaste qualcheduno.
— È necessario che ci vada io stesso – soggiunse il Mago – niun altro sa dove è posta la chiave del magazzino e niun altro eziandio sa il segreto d’aprirlo.
— Quando è così – rispose la principessa – andate.
Il Mago africano pieno di speranza nella sua pretesa felicità, non solo corse a cercare il suo vino di sette anni, ma volò piuttosto, e ritornò prestissimamente.
La principessa la quale aveva supposto che sarebbe stato sollecitamente di ritorno, gettò ella stessa la polvere che Aladino le aveva portata in un bicchiere che mise a parte, e quando lo vide comparire, comandò che si servisse la tavola.
Eglino si assisero a tavola, di maniera che il Mago avesse le spalle rivolte alla credenza.
Dopo che ebbero mangiato alcuni bocconi, la principessa chiese da bere. Ella bevve alla salute del Mago e quando ebbe bevuto gli disse:
— Voi avete ragione di far l’elogio del vostro vino: mai ne ho bevuto di sì delizioso!
— Leggiadra principessa – rispose egli tenendo in mano il bicchiere che gli si era presentato – il mio vino acquista una nuova bontà per l’approvazione che voi gli date.
— Bevete alla mia salute – soggiunse la principessa – voi troverete che io me ne intendo.
Egli bevve alla salute della principessa, e guardando il bicchiere disse:
— Principessa, io mi stimo felice di aver conservato questo vino per una sì buona occasione, e vi confesso che in tutta la mia vita non ne ho mai bevuto dell’eccellente come questo.
Quando ebbe continuato a mangiare ed a bere tre altre coppe, la principessa che aveva finito di ammaliare il Mago colle sue maniere obbliganti, dette finalmente il segnale alla donna che le dava da bere, dicendo in pari tempo che le si portasse il suo bicchiere pieno di vino; che si empisse egualmente quello del Mago africano e gli si presentassero ad entrambi.
Quando ebbero ciascuno il bicchiere in mano, ella disse al Mago:
— Io non so come si usa fra voi quando veramente si ama e si beve insieme come noi facciamo. Presso noi, nella China, gli amanti presentano reciprocamente il loro bicchiere, ed in tal guisa bevono alla salute l’uno dell’altro.
Nello stesso tempo ella gli presentò il bicchiere che teneva, avanzando l’altra mano per ricevere quello del Mago africano.
Egli si affrettò a fare questo cambio con tanto maggior piacere in quanto che stimò questo favore come la prova più certa dell’intera conquista del cuore della principessa: il che lo mise al colmo della sua felicità.
Quando l’ebbe vuotato, siccome aveva la testa inclinata indietro per mostrare la sua sollecitudine, restò qualche tempo in quello stato fino a che la principessa, la quale aveva sempre l’orlo del bicchiere sulle sue labbra, lo vide girar gli occhi e cader rovescioni senza sentimento.
La principessa non ebbe bisogno di comandare che si andasse ad aprire la porta segreta ad Aladino.
Aladino salì ed entrò nel salone.
— Principessa – diss’egli – abbiate la bontà di ritirarvi nel vostro appartamento e fate in modo che mi si lasci solo.
Difatti, quando la principessa fu fuori del salone colle sue donne ed i suoi eunuchi, Aladino chiuse la porta e dopo che si fu avvicinato al cadavere del mago africano, aprì la sua veste e ne trasse la lampada, la strofinò, ed immantinente il Genio si presentò col suo solito complimento.
— Genio – gli disse Aladino – io ti ho chiamato per ordinarti da parte della lampada, tua padrona che tu vedi, di fare che questo palazzo sia riportato sul momento alla China nello stesso luogo dond’è stato portato qui.
Il Genio, dopo aver dimostrato con una inclinazione di capo che obbediva, disparve.
Difatti il trasporto si fece e non lo sì sentì che per due leggerissime agitazioni, l’una quando il palazzo fu tolto da dove stava in Africa, e l’altra quando fu posto nella China a fronte del palazzo del Sultano; il che si compì in un intervallo di pochissima durata.
Dopo il rapimento del palazzo di Aladino e della principessa Badroulboudour, il Sultano di lei padre era inconsolabile di averla perduta.
Sorgeva appena l’aurora quand’ei si recò nel suo gabinetto guardò tristamente dalla parte della piazza, ove non credeva vedere se non l’aria libera senza scorgere il palazzo, ma vide che quel vuoto era colmato.
Allora la gioia successe al cordoglio ed alla tristezza, e ritornato nel suo appartamento a solleciti passi comandò che gli fosse sellato il cavallo.
Aladino, che aveva preveduto ciò che doveva accadere, si era alzato sul far del giorno, e appena preso uno degli abiti più magnifici della sua guardaroba, era salito al salone delle ventiquattro finestre d’onde vide venire il Sultano. Discese subito al basso della gran scala, e lo aiutò a discendere da cavallo.
— Aladino – gli disse il Sultano – io non posso parlarvi, se prima non ho veduto ed abbracciato la mia diletta figliuola.
Aladino condusse il Sultano all’appartamento della principessa.
Il Sultano l’abbracciò a più riprese, col volto bagnato di lagrime di gioia, e la principessa da parte sua gli dette tutte le prove del piacere estremo che aveva di rivederlo.
Intanto Aladino faceva levare il cadavere del Mago africano, con ordine di gettarlo nella campagna per servir da pasto agli animali ed agli uccelli.
In tal modo Aladino sfuggì per la seconda volta al pericolo quasi inevitabile di perdere la vita: ma non fu l’ultimo, correndone un terzo, di cui stiamo per narrare i particolari.
Il Mago africano aveva un fratello cadetto il quale non era meno abile di lui nell’arte magica.
Qualche tempo dopo che il Mago africano ebbe soggiaciuto nella sua impresa contro la felicità di Aladino, il suo cadetto, il quale non aveva avuto sue nuove da più di un anno, e che non stava in Africa, ma in un paese lontanissimo, volle sapere in qual luogo si trovasse.
Quando il Mago ebbe saputo qual era stata la triste fine di suo fratello, non perdette tempo.
Avendo risoluto sul momento di vendicare la sua morte, salì a cavallo e si pose in cammino, prendendo la strada della China.
Arrivò finalmente alla capitale che la geomanzia gli aveva insegnato.
L’indomani del suo arrivo il Mago intese a raccontare meraviglie della virtù e della pietà d’una donna ritirata dal mondo chiamata Fatima, ed anche dei suoi miracoli. Il Mago non volle saperne di più su quest’articolo: ma domandò solamente in qual quartiere stava l’eremo di quella santa donna.
Quando ebbe ben bene notata la casa, si ritirò in uno dei luoghi dove si prendeva una certa bevanda calda.
Il Mago, dopo aver pagato la poca spesa che aveva fatta, uscì verso la mezzanotte e andò diritto all’eremo di Fatima.
Egli s’avvicinò a lei e tratto un pugnale che teneva allato, la svegliò.
Aprendo gli occhi, la povera Fatima fu assai meravigliata di vedere un uomo pronto a pugnalarla.
Egli, appoggiandole il pugnale contro il cuore, pronto a trapassarglielo, le disse:
— Se tu gridi o fai il menomo rumore, io ti uccido: alzati e fai quanto ti dirò!
Fatima, che stava coricata vestita, si alzò tremando dallo spavento.
— Non temere – le disse il Mago – io chieggo solo il tuo abito, dammelo e prendi il mio.
Essi fecero il cambio, e quando il Mago si fu vestito di quello di Fatima, le disse:
— Colorami il viso come il tuo, in guisa che ti rassomigli e che il colore non si cancelli.
Fatima lo fece entrare nella sua cella, accese la sua lampada, e prendendo un certo liquore in un vaso con un pennello gliene strofinò il viso, assicurandogli che il colore non cangerebbe punto.
Finalmente dopo avergli posto un grosso mantello attorno al collo, che gli pendeva dinanzi fino alla metà del corpo, gli dette in mano lo stesso bastone che aveva costume di portare.
Il Mago si trovò come l’aveva desiderato, ma non tenne alla Fatima il giuramento che ei le aveva fatto cotanto solennemente. Affinché non si vedesse del sangue ferendola, col suo pugnale, la strangolò, e quando vide che aveva esalato l’anima, trascinò il suo cadavere pei piedi fino alla cisterna dell’eremo, e ve lo gettò dentro.
Siccome una delle prime cose che aveva fatto arrivando era stata d’andar a riconoscere il palazzo di Aladino, ed era quivi ove aveva disegnato di rappresentare la sua parte, s’incamminò da quella banda.
Tosto si vide la santa donna, come tutto il popolo se l’immaginava, il Mago fu presto circondato da una grande affluenza di gente.
La principessa domandò che fosse quel fracasso, e siccome nessuno poteva dirgliene nulla, essa comandò che si andasse a vedere per rendergliene conto.
Senza uscire dal salone, una delle sue donne guardò a traverso una gelosia, e ritornò per dirle che il fracasso veniva dalla folla di gente, la quale circondava la santa donna.
La principessa, che da lungo tempo aveva inteso dire molto bene della santa donna, ma che non l’aveva ancora veduta, ebbe la curiosità di vederla e di parlare con lei.
Il capo degli eunuchi, che stava presente, gli disse che se ella lo voleva, gli era facile farla venire e che non aveva se non a comandarlo.
La principessa avendovi consentito, immantinenti furono spediti quattro eunuchi con ordine di condurre la pretesa santa donna.
Appena gli eunuchi furono usciti dalla porta del palazzo di Aladino, e che si vide ch’essi venivano là dove il Mago stava travestito, la folla si dissipò, e quando fu libero, scorgendo che si dirigevano a lui, fece una parte della strada con tanta maggior gioia in quanto che vedeva la sua furberia prendere una buona piega.
Quello degli eunuchi, che prese la parola, gli disse:
— La principessa vuol vedervi, venite, seguiteci.
Quando il Mago, che sotto un abito di santità celava un cuore diabolico, fu introdotto nel salone delle ventiquattro finestre, e che ebbe veduta la principessa, esordì con una preghiera che conteneva una lunga enumerazione di voti e di desiderii per la sua salute e prosperità, e per il compimento di quanto poteva desiderare.
Quando la falsa Fatima ebbe terminata la sua arringa, la principessa le rispose:
— Mia buona madre, vi ringrazio delle vostre preghiere, io vi ho grande confidenza, e spero che Dio lo esaudirà. Avvicinatevi e sedetevi presso di me.
La falsa Fatima si assise con una modestia affettata, ed allora, riprendendo la parola, la principessa disse:
— Mia buona madre, io vi domando una cosa che bisogna m’accordiate; non me la ricusate, ve ne prego; dovete restar con me affinché mi parliate della vostra vita, ed apprenda da voi e dai vostri esempi come debba servir Dio.
Il Mago, il quale non aveva altro scopo che d’introdursi nel palazzo di Aladino, ove gli sarebbe stato più agevole dare esecuzione alla malvagità che meditava, rimanendovi sotto gli auspici e la protezione della principessa, senza che fosse obbligato d’andare e venire dall’eremo al palazzo e viceversa, accettò l’offerta obbligante della principessa.
— Principessa – diss’egli – qualunque risoluzione una povera e miserabile donna abbia fatto di rinunciare al mondo, alle sue pompe ed alle sue grandezze, non osa resistere alla volontà ed al comando d’una principessa sì pia e caritatevole.
Dietro questa risposta del Mago, la principessa alzandosi gli disse:
— Alzatevi e venite con me; vi farò vedere gli appartamenti vuoti che ho, affinché scegliate.
Egli seguì la principessa Badroulboudour, e di tutti gli appartamenti ch’ella gli fece vedere, tutti eleganti e benissimo mobiliati, scelse quello che gli parve esserlo meno degli altri dicendo per ipocrisia ch’era troppo buono per lui e che non lo sceglieva se non per compiacere la principessa.
— Mia buona madre – le disse la principessa – io son fuori di me per la gioia di possedere una santa donna come voi che porta seco la benedizione in questo palazzo. A proposito del palazzo, come vi sembra? Ma prima che ve lo faccia vedere camera per camera, ditemi, che pensate di questo salone?
A questa domanda la falsa Fatima disse:
— Principessa, questo salone è veramente ammirabile e di grande bellezza. Nondimeno, per quanto ne può giudicare una solitaria, la quale non s’intende di ciò che v’ha di bello nell’universo, mi sembra che vi manchi una sola cosa.
— Quale cosa, buona madre? – chiese la principessa Badroulboudour.
— Principessa – soggiunse la falsa Fatima con dissimulazione – perdonatemi la libertà, che mi prendo. Il mio avviso, se può esser di qualche importanza, sarebbe che se all’alto e nel mezzo di questa cupola vi fosse un uovo di roc sospeso, questo salone non avrebbe punto di simile nelle quattro parti del mondo ed il vostro palazzo sarebbe la più gran meraviglia dell’universo.
— Mia buona madre – chiese di nuovo la principessa – qual è quest’uccello che si chiama roc, e dove potrebbe trovarsi un uovo di esso?
— Principessa – rispose la falsa Fatima – è un uccello di una prodigiosa grandezza che abita la cima del monte Caucaso.
Dopo aver ringraziata la falsa Fatima del suo buon avviso, a quanto credeva, la principessa Badroulboudour continuò a parlare con lei.
Aladino ritornò lo stesso giorno verso la sera, mentre la falsa Fatima toglieva congedo dalla principessa, e si ritirava nel suo appartamento.
Giungendovi salì all’appartamento della principessa, la quale in quel momento vi entrava.
Egli la salutò e l’abbracciò: ma gli parve ch’ella lo ricevesse con un poco di freddezza.
— Mia principessa – gli disse egli – io non trovo in voi la giocondità che siete solita di avere. È forse accaduto qualche cosa durante la mia assenza che vi abbia dispiaciuto e cagionato rammarico e malcontento?
— Io aveva creduto con voi – continuò la principessa – che il nostro palazzo fosse il più superbo, il più magnifico e il più sorprendente del mondo. Io vi dirò nondimeno ciò che m’è venuto nel pensiero dopo avere bene esaminato il salone a ventiquattro finestre. Non trovate come me che non vi sarebbe più nulla a desiderare se un uovo di roc fosse sospeso nel mezzo della cupola?
— Principessa – rispose Aladino – basta che voi troviate mancarvi un uovo di roc per trovarvi anch’io lo stesso difetto. Voi vedrete dalla sollecitudine che userò in ripararlo come non v’ha nulla che io stesso non faccia per amor vostro.
Tosto Aladino abbandonò la principessa Badroulboudour e salì al salone delle ventiquattro finestre, e là, tratta dal seno la lampada che portava sempre sopra di sé, dopo il pericolo che aveva corso, la strofinò.
Il Genio si presentò subito appena strofinata la lampada. Aladino gli disse:
— Genio, manca ancora a questa cupola un uovo di roc sospeso nel mezzo; io ti chiedo in nome della lampada che tengo, che tu faccia in modo che questo difetto sia riparato.
Aladino non ebbe appena pronunciate queste parole, che il Genio pose un grido sì penetrante e sì spaventevole, che il salone ne fu scosso ed Aladino vacillò.
— Come, miserabile! – gli disse il Genio con una voce da far tremare l’uomo più sicuro – non ti basta che i miei compagni ed io abbiamo fatto ogni cosa che hai voluto, per domandarmi con una ingratitudine che non ha pari, che ti porti il mio padrone, e che lo appenda nel mezzo alla volta di questa cupola? Questo attentato meriterebbe che fosti ridotto in cenere sul momento, tu, tua moglie ed il tuo palazzo. Ma felice te di non esserne l’autore, e che la domanda non viene direttamente da parte tua. Sappi che il vero autore è il fratello del Mago africano, tuo nemico, che tu hai sterminato come meritava. Egli sta nel tuo palazzo travestito sotto l’abito di Fatima, la santa donna da lui assassinata, ed è egli che ha suggerito a tua moglie la dimanda perniciosa che mi hai fatta. Il suo disegno è di ucciderti, spetta ora a te il pensarvi!
E ciò detto disparve.
Aladino non perdé neppure una delle ultime parole del Genio.
Ritornato all’appartamento della principessa senza parlare di ciò che gli era accaduto, s’assise dicendo che un forte dolor di capo lo aveva preso tutto ad un tratto, appoggiandosi la mano contro la fronte.
La principessa immantinente comandò che si facesse venire la santa donna, e mentre che si andò a chiamarla, essa raccontò ad Aladino per qual congiuntura si trovava nel palazzo, ov’ella le aveva dato un appartamento.
La falsa Fatima giunse, ed appena ne fu tosto entrata:
— Venite mia buona madre – le disse Aladino – sono assai contento di vedervi, e che la mia gran buona fortuna abbia voluto che vi foste trovata qui. Io son tormentato da un furioso dolor di capo, e chieggo il vostro soccorso per la confidenza che ho nelle vostre preghiere. Spero che non mi ricuserete la grazia che fate a tanti altri afflitti da questo male.
Ciò detto, si alzò chinando il capo: e la falsa Fatima si avanzò da canto suo portando la mano ad un pugnale che aveva alla sua cintura sotto la sua veste.
Aladino che l’osservava, le prese la mano prima che l’avesse tratta, e trapassandole il cuore la gettò morta sul pavimento.
— Mio caro sposo, che avete fatto! – esclamò la principessa nella sua sorpresa – voi avete uccisa quella santa donna!
— No, mia principessa – rispose Aladino senza muoversi – io non ho uccisa Fatima, ma uno scellerato che m’avrebbe assassinato, se non l’avessi prevenuto. Questo iniquo uomo che vedete – soggiunse egli togliendogli il velo – ha strozzato Fatima che voi avete creduto compiangere accusandomi della sua morte, ed aveva vestito l’abito di lei per pugnalarmi. Ed affinché lo conosciate meglio, sappiate che egli era il fratello del Mago africano vostro rapitore.
Aladino le raccontò poscia in qual guisa avesse saputo queste particolarità. Terminato ch’ebbe di parlare, fece toglier di là il cadavere.
In tal guisa Aladino fu liberato dalla persecuzione dei due fratelli Maghi.
Pochi anni dopo venne a morte il Sultano, che era in una età assai decrepita: e siccome non lasciò figliuoli maschi, la principessa Badroulboudour, in qualità di legittima erede, gli successe, e quindi comunicò il suo potere supremo ad Aladino.
Essi regnarono insieme per lunghi anni e lasciarono una illustre posterità.
Continua…
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TITOLO: Storia di Aladino e della lucerna maravigliosa
DIRITTI D'AUTORE: no
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TRATTO DA: Le mille e una notte : novelle arabe. - Milano : Bietti, [1934]. - 541 p. : ill. ; 19 cm.
SOGGETTO:
FICTION PER RAGAZZI / Fantasy e Magia
FICTION PER RAGAZZI / Leggende, Miti, Fiabe / Generale