La città
di
Cesare Pavese
tempo di lettura: 16 minuti
Gallo non fu mai, neanche al paese, di quelli che amano certi discorsi e si ubriacano in compagnia per farli con maggior libertà. Tra giovanotti c’è sempre qualcuno che ci si mette e vuota il sacco; ebbene, Gallo lo lasciava dire e non ne faceva caso, e una volta ne guardò due che susurravano, prese le carte, le mescolò e disse con calma: – Ragazzi, queste cose è meglio farle che dirle –. Era con me un giorno che tornavamo dal paese lungo l’argine, scalzi per prendere il fresco, e vediamo sotto le piante una ragazza che usciva allora dall’acqua, convinta che non passasse nessuno. Io rimango inchiodato e lí per lí divento rosso, guardai subito a terra; Gallo si mise a ridere, batté le mani e diede una voce: la ragazza scappò.
Di queste cose ne capitarono fin che studiammo insieme in città e Gallo non andò fuori corso. Legai conoscenza con tanti colleghi, specialmente suoi, e non passava quasi notte che non facessimo il mattino bevendo e giocando. Gallo m’insegnò a divertirmi senza perdere le staffe; non che mi facesse la lezione, ma mi bastava vederlo quando distribuiva le carte o rideva sopra il bicchiere o spalancava impaziente una finestra, per vergognarmi delle mie smanie. Del resto fu un buon amico per tutti, e se nessuno di noi, almeno in quegli anni, fece troppe sciocchezze, lo deve anche a lui che diceva sempre che è meglio rompersi il collo che desiderare di romperselo.
Io allora non reggevo al vino come lui (ho due anni di meno), e so che, uscendo per le strade dopo una notte di baldoria, Gallo mi costringeva a camminare, dicendo che l’aria era buona e le donne dormivano, e che quello era il momento per mostrarmi giovanotto di gamba sana e lasciarmi dietro la stanchezza e la muffa ma ritrovare la salute, per esempio in collina. E mi ci portava. Tornavamo poi col sole, freschi e intontiti, e il caffè e latte ci faceva ridere. A quei tempi coabitavamo una gran camera all’ultimo piano, che pareva una soffitta. Dopo il primo anno, che la città ci fu meglio nota in tutte le ore e le strade, provavamo un piacere anche piú vivo a guardarci d’attorno bighellonando per i fatti nostri, o aspettando su un angolo. Anche l’aria dei viali e delle singole vie adesso s’era fatta accogliente, e quel che, io almeno, non cessavo mai di godere era la faccia sempre diversa della gente sui cantoni piú familiari. Tanto piú bello era sapere che in certe ore bastava entrare in un caffè, fermarsi a un portone, fischiare in una viuzza, e i vecchi amici sbucavano, ci si metteva d’accordo, si andava, si rideva. Divenne bello, in compagnia, pensare che la notte o l’indomani sarei stato solo volendo; o, quando rientravo solo, che mi bastava uscir di casa per far comitiva. Fu per questo che, dopo il primo inverno, decisi di buon accordo con Gallo di separarmi da lui e trovai una camera poco lontana dal centro, in una via alberata, al terzo piano. Mi decise Gallo, dicendo che, se non prendevo io quella camera, l’avrebbe presa lui. Aveva ai vetri le tendine bianche, e un letto a divano. Io non ero preparato a un ambiente cosí cittadino, e meno ancora all’intimità con la padrona di casa che, secondo Gallo, doveva risultarne. Costei non aveva altri inquilini, e mi avrebbe trattato come un figlio. Non era piú giovane, ma di pelle calda e occhi vivi sulla sua piccola statura. Notai fin dal primo incontro che si stringeva al seno la vestaglia, con troppa sollecitudine per essere innocente. Lo notai ma decisi di non farne nulla. L’idea di crearmi in casa una donna che potesse accampare su me e sulla mia pace dei diritti, m’inquietava. E per quanto talvolta costei venisse a fumare una sigaretta nella mia camera ridendo con me, non c’intendemmo. Preferivo lasciar credere agli amici che avevo avuto fortuna, e passare certe notti – specialmente nella bella stagione – a finestra spalancata, smaniando nella speranza che si decidesse lei a entrarmi in camera e gettarmi le braccia al collo. Ma quest’ora non venne mai, e Gallo difese presso gli amici il mio silenzio.
Le nostre avventure erano soltanto di strada; e anche le baldorie che avevano luogo nello stanzone di Gallo tendevano alla disputa, all’ubriachezza, alla vociferazione, piú che allo stravizio. Uno degli amici, un cittadino, che vi portò una sera una sua ragazzotta che fumava come un uomo e aveva le unghie dipinte, ci guastò ogni piacere. Gallo gli disse che se voleva l’uso della stanza per un pomeriggio non aveva che da chiederlo, ma che dove si discorre una donna è superflua. Io non ero di questo parere, per me una donna era sempre una donna; ma sentii forse piú a fondo degli altri sulle nostre parole l’impaccio e il peso di quegli occhi curiosi. A quel tempo ero ingordo di compagnia, ogni sorta di compagnia, ma specialmente quella gaia e familiare dei visi noti. Noialtri di campagna siamo cosí: ci piace guardare di là dalla siepe, ma non scavalcarla. Gli amici che avevamo, erano i benvenuti; ma una novità improvvisa c’inquietava. Non voglio dire con questo che Gallo si privasse di nulla. C’erano giorni che ci toccava finir la serata senza di lui, in fondo a una trattoria. Ma in questi casi, appunto, ci aveva chiuso l’uscio in faccia.
Nella mia smania di compagni e di festa trascorsi eccitato quell’anno, temendo soltanto l’estate che ci avrebbe interrotti. Gallo non diceva nulla, ma sapevo che per lui, sempre uguale a se stesso, anche l’estate avrebbe avuto i suoi piaceri. Per esempio, tornare fra i suoi, prender parte ai lavori sulle terre del padre, andare in festa nei paesi circostanti. Cose che a me, nella esaltazione della nuova vita, scolorivano. Sapevo che la città doveva essere, sarebbe stata, piú bella, se soltanto avessi continuato a viverci e avuto il coraggio necessario. Da troppo poco avevo scoperto la mia stanza, la gioia di entrarci e uscirne nelle ore piú piccole, le lente sere che aspettavo con Gallo che venissero gli altri. Certe notti pigliavo sonno, stanchissimo, pregustando l’indomani, un avvenire festoso e tutto quanto disponibile. La mia padrona s’affacciava adesso alla porta con un piccolo sorriso, rigirandosi la sigaretta fra le dita, e mi chiedeva se poteva entrare. L’aiutavo ad accendere, e poi lei si aggirava parlando e mi trattava come un uomo, e finiva per sedersi accavallando le gambe nella poltrona accanto al letto. La segreta possibilità che accendeva i suoi occhi mi teneva tutto desto e voglioso. Capivo che anche lei se n’era accorta.
Il giorno che me ne accomiatai per tornare a casa, mi aiutò a fare la valigia, e intanto mi chiedeva se mi ero divertito durante l’anno. Io mi sentii quasi truffato, che avesse atteso quel momento per venire alle confidenze, e le dissi e ridissi che mi aspettasse, nell’autunno sarei tornato da lei. Glielo dissi tante volte che mi sentii goffo, ma anche lei sorrideva e mi parve commossa.
L’estate passò, per me in attesa, per Gallo in lunghe giornate tra l’aia e la stalla, in levate col sole, in veglie, in discussioni coi braccianti. Quando andavo a cercarlo, nella bassa cucina della loro fattoria, m’invitava a colazione o a cena e mi faceva bere, e i suoi, le sue sorelle, i nonni, mi parlavano come se non mi fossi mai mosso dal paese. Ciò non mi dispiaceva, ma anche Gallo era tutto preso nella sua giornata e si ricordava del passato soltanto in certe sere che tornavamo dal paese sotto la luna. Lui del resto in città studiava agraria e nel prossimo inverno sarebbe andato fuori corso. Io pensavo a tutt’altro; fra i colleghi cittadini mi ero molto legato a qualcuno che frequentava i teatri e discuteva, e avevo trovato in questo un nuovo senso della vita che mi occupava la giornata. Una sera di luna, proprio sull’argine, confessai a Gallo che con la mia padrona non avevo concluso nulla. Gallo mi parlò di un suo amore cittadino e confidò che era stato lí lí per portarsela in casa dai suoi, ma che aveva poi capito che il bello di queste cose è non farle sul serio. Cioè, sul serio ma non passare un certo limite. Io gli dissi ch’ero pronto invece a passare ogni limite ma non mi riusciva di trovare l’oggetto.
A novembre trovai la mia camera già affittata, ma la padrona, sempre in vestaglia e sempre sollecita, mi scongiurò di venirla a trovare, di non farle quel torto. La confusione della città me la tolse di mente, e mi allogai non so dove in una pensione, fin che d’accordo con Gallo non tornai nell’antica stanzaccia comune. Quest’anno a lui non occorreva piú risiedere; faceva scappate; rimase durante l’inverno, ma con la bella stagione cominciò a viaggiare perché, adesso ch’era andato fuori corso, suo padre lo voleva presente ai lavori e non gli fece grazia di un mese continuo. Ci furono sí delle schiette serate come una volta, in cui si bevve e vociò nella nostra stanza; quasi tutti i colleghi tornarono a noi; ma capivo che l’anima del gruppo era Gallo, e Gallo adesso aveva cose a cui pensare. Io andai molto a teatro – anche questo era bello – e i nuovi amici mi accettarono con sé. Con loro la vita aveva un sapore diverso; si andava per esempio a ballare, conobbi donne e ragazze che poi ritrovavo nei caffè o nelle famiglie. Facevo sforzo per distinguere quelle che erano sorelle dei miei colleghi dalle semplici amiche notturne, giacché vestivano e parlavano tutte allo stesso modo. Ma quando fu aprile, e poi maggio, mi mancarono le lunghe nottate trascorse a bere, a cantare, a discutere, in un’osteria fuori mano, le camminate con Gallo nel fresco dell’alba, le ultime chiacchiere davanti alla finestra.
Quell’anno cominciarono gli studi due nostri compaesani ancor ragazzi, uno era anzi cugino di Gallo. Io non li volli nella nostra stanza, per quanto Gallo dicesse. – Non sono una balia, – obiettavo, ma il vero motivo era piuttosto che cominciavo a vergognarmi della nostra goffaggine campagnola. Avevo invece un amico, uno studente giovanissimo, biondino, di cui conoscevo la sorella. Erano gente di città, molto agiata, e lui si chiamava Sandrino; la sorella, Maria. Sandrino discuteva con me di teatro e gli piaceva molto il nostro camerone-soffitta, disordinato e aperto sui tetti. Strano ma vero, prima che con lui avevo fatto conoscenza con la sorella, non so se in una gita o in qualche ballo, e questa ragazza mi aveva detto che la nostra soffitta era celebre in molte famiglie, e discussa, vilipesa o esaltata secondo l’età dei giudicanti; quanto a lei, Maria mi disse che la cosa sarebbe stata divertente, ma perché frequentare certe donnacce senza gusto e ubriacarci? Maria diceva divertente col tono volubile che hanno appunto le ragazze della sua classe – sulle sue labbra la parola era bella – e per quanto respingessi l’accusa con convinta energia, scuoteva il capo sorridendo. Comunque, fu attraverso lei che conobbi Sandrino, che entrava allora all’università, e Sandrino si prese di una grande passione per me e per qualche collega che amava discutere. Conobbe anche Gallo in una delle ultime apparizioni che Gallo fece in quei mesi prima della laurea. Lo portai io una sera con noi, perché diversamente da sua sorella Sandrino parlava dell’ubriachezza senza farne caso, come di una comune esperienza, e badava piuttosto a ripetere che gli piaceva di noialtri proprio la forza, la volgarità contadina. Me lo disse sovente, e in questo era ancora ragazzo. Io che a quel tempo credevo di essere ormai diventato un altro, provavo un certo disappunto.
Gallo ripartí l’indomani, di buon’ora. Rimasi solo nello stanzone vuoto, e dal letto guardavo il tavolo sparso di piatti, bicchieri e di pezzi di carta, nel grigio fresco del mattino. M’intorpidiva ancora il disordine della notte, e immaginavo Gallo sul suo treno nella campagna, socchiudendo gli occhi, giocherellando con l’immagine di una bottiglia stagliata sul davanzale e sul cielo. Sandrino era davvero un ragazzo intelligente; aveva riso, cantato, discusso con noi; avevamo anche parlato con foga di certi libri. Una scampanellata mi fece sobbalzare.
Era Sandrino, che veniva a quell’ora insolita perché non aveva potuto dormire, e mi portava il pane e la frutta per colazione. Mentre mi vestivo, riparlammo della serata, e Sandrino, volto alla finestra, diceva che chiunque, vivendo a quel modo sui tetti, doveva godersela assai. – Il male è che s’invecchia, – dissi. – Dovevi vederci l’altr’anno, io e Gallo, quando a quest’ora scendevamo la collina, non piú ubriachi, e stanchi morti.
— Eravate mattinieri, – mi disse.
— Stavamo su tutta la notte.
— Era sempre mattino per voi.
— Soltanto alle donne non va questa vita, – dissi. – Le donne non vogliono saperne.
Sandrino aveva di bello che parlava anche di donne senza scomporsi. Disse tranquillo: – Una donna al mattino dev’essere bello, – mentr’io prendevo le ciliege per lavarle.
— Tutto si può fare al mattino, avendone voglia, –gli dissi. – Ma dove la trovi la donna che si accontenta di mangiare quattro ciliege guardando i tetti?
Sandrino mi guardò, biondo e ammirato.
— Io preferisco le ciliege, – dissi.
Discorremmo cosí, e facemmo un po’ d’ordine nella stanza. Sandrino mi disse che Gallo era un bel tipo, ma non intelligente come me. – Va bene per passarci una sera a cantare, ma non di piú –. Quando gli dissi che Gallo era stato la mia guida e maestro, sorrise lievemente – il sorriso di sua sorella.
Circa a mezza mattina sentii toccare la porta, e subito un’altra scampanellata. Sandrino disse: – Sarà Maria. Mi ha detto che passava di qua –. Obbiettai costernato: – Ma non c’è mai venuta.
— E con questo? – disse Sandrino tranquillo.
Infatti era Maria, fresca e indignata per la lunga scala, che veniva a fare un sopraluogo nell’antro. Storse la bocca alle bottiglie e bicchieri ammonticchiati sul davanzale e mi chiese chi scopava la stanza. – La portinaia, – dissi. Maria guardò comicamente l’uscio.
Per me quella visita fu un colpo. Sinora incontrando Maria altrove, mi ero comportato con cautela, le avevo detto soltanto le cose che potevo dirle, avevo ridotto la villania dei miei modi a una bruschezza cortese. Ma che lei ora scoprisse le sporche tracce della nostra allegria – mozziconi di sigaro, un fiasco in un angolo, ritagli di giornale incollati sui vetri – mi atterrò. Lei fu abbastanza caritatevole da elogiare la vista che si godeva sui tetti e tendermi la mano con un fresco sorriso. Disse persino: – Oh voi uomini, – ma capii che non erano stati il disordine né la sporcizia a offenderla. Pensai, quando mi lasciarono solo, che, se avesse trovato qualche traccia di donna, forse ne sarebbe stata meno urtata. Anzi, mi dissi, le avrebbe fatto piacere.
Con Sandrino non potevo sfogarmi: sarebbe stato come dirgli che volevo passare per quel che non ero. E a Maria non sapevo rinunciare: lei mi parlava in un modo diverso da come avevo conosciuto ballerine e prostitute in quell’anno. Gallo mi avrebbe detto di non fare lo scemo e ricordarmi di dove venivo, ma di Gallo mi vergognavo, e mi vergognai di averlo fatto conoscere a Sandrino. La mia vita era un’altra. Fortuna che veniva l’estate.
Quando Gallo se ne andò l’ultima volta in giugno, laureato e contento, io tirai un respiro. La stanza e le strade erano adesso cosa mia. Scrissi a casa che cercavo un lavoro in città, che mi lasciassero provare, perché se mi assentavo avrei perso i contatti, necessari per dopo la laurea. Da casa mi mandarono qualche soldo, raccomandandomi di tornare per la vendemmia.
Non potevo aver fatto questo soltanto per restare vicino a Maria, giacché lei con Sandrino e tutti i suoi se ne andarono in villeggiatura. La loro compagnia mi durò ancora un mese; li vedevo quasi ogni giorno; girai con loro in bicicletta; con Sandrino scherzavo, con lei discorrevo; fui ammesso in casa sua. Quando venne il momento della separazione, sua madre mi chiese se non tornavo anch’io dai miei. Le risposi che dovevo lavorare e restavo in città. E la madre disse a Sandrino, in presenza di Maria, che prendesse esempio da me. Maria, compiaciuta, mi fece un gesto di minaccia con la mano.
Adesso ero solo. Naturalmente non trovai nessun lavoro. Nelle torride giornate bighellonavo per le strade, specialmente al mattino; godendomi le bande d’ombra fresca sul marciapiede annaffiato. Spalancavo la finestra sui tetti ogni mattina, tendendo l’orecchio ai rumori vaghi che salivano fin lassú. Nell’aria limpida i tetti scuri e rugosi mi parevano un’immagine della mia nuova vita: speranze labili sopra un ruvido fondo. In quella calma, in quell’attesa mi sentivo rinascere.
Cosí fu, per tutto luglio. Ma un pomeriggio, nell’ora che si chiudono gli uffici, m’imbattei proprio sull’angolo di casa in un viso noto. Dove l’avevo veduto? Si fermò anche lei. Me lo disse lei stessa: era Giulia, l’amichetta di Gallo. Mi chiese dove abitavo e, quando sentí ch’era là sopra, si animò tutta quanta e voleva salirci.
— Ma io devo andare a cena.
— Andiamo a cena, – mi disse, – aspetterò quando hai finito –. Cosí quella sera Giulia salí nella mia stanza.
Era sempre la scura ragazza, magra e dal ciuffo in mezzo agli occhi, che avevo conosciuto con Gallo. Allora gli si attaccava al braccio testarda, quando non voleva andare in qualche posto. Aveva fatto la commessa e l’operaia, adesso faceva la serva. Ma la serva a giornata. Mi disse sorridendo sotto il ciuffo, che poteva fermarsi tutta la notte. Io non volevo, non posso soffrire la presenza di una donna quando mi sveglio, ma mi piacque tanto il modo come Giulia mi gettò le braccia al collo, che ci stetti. Quella notte inevitabilmente venni a parlare di Gallo, e Giulia ebbe un gesto gentile: mi posò il dito sul labbro e mi fece tacere. Mi piacque, ripeto.
L’indomani, come avesse capito i miei gusti, se ne andò di buon mattino. Io rimasi nel letto a pensare a Maria.
Con agosto le strade divennero quasi deserte. Giulia prese a salire da me nel pomeriggio. Aveva un modo di scavalcarmi furtiva e distendermisi accanto, che pareva un gatto. Parlava poco, era asciutta e muscolosa. Fu la prima donna che conobbi veramente. Al calare del giorno, quando l’aria si faceva piú fresca, saltava in piedi e sfaccendava per la stanza. Allora parlottavamo. Cercai di spiegarle perché mi piaceva restare in città. Lei voleva che la portassi in campagna, almeno fino ai sobborghi; e siccome resistevo cominciò a ricordarsi di Gallo e con sorrisi maliziosi si chiedeva e mi chiedeva dove fosse a quell’ora. – È in campagna, – dicevo. Giulia allargava gli occhi e si faceva descrivere le colline, i fossati, le strade, le ragazze. Imitava con la voce il rumore che fa la catena scendendo nel pozzo, e la prendevano crisi di gaiezza in cui mi saltava addosso, quando anch’io m’ero alzato, e tornava a rovesciarmi sul letto. Era sempre vissuta in città e non aveva famiglia. – Dove dormi? – le chiesi. Cambiò discorso, e il sospetto che avesse un altr’uomo per la notte mi fece quasi piacere. Voleva dire che per lei ero un capriccio, che tutti noialtri eravamo un capriccio.
Che fosse già stata l’amica di Gallo mi dava un senso di sicurezza, tanto piú che di lui parlavamo adesso come di un fratello maggiore. Lei conosceva anche l’altra, quella che Gallo aveva tenuto per due anni e quasi sposava. S’erano insieme consolate quando Gallo era partito.
— Perché, volevi sposarlo? – le chiesi.
— E chi non avrebbe voluto sposarlo? – rispose dandomi un’occhiata.
Per essere come Gallo le dissi che volevo regalarle un vestito. Giulia mi fece molte carezze, e quando l’ebbe si piantò sulla porta per uscire con me. Volle andare a ballare. Queste cose piacevano a Gallo, ma a me non piacevano. Pure uscimmo nel crepuscolo tiepido, e la portai a cena. Per occupare la serata le offrii da bere. Bevemmo molto. Comprammo anche una bottiglia e ce la portammo a casa. Giulia, attaccata al mio braccio, rideva e si divincolava.
Passò cosí un’altra notte con me. Credetti di essere tornato all’anno prima, ma invece di amici e discussioni accalorate ora avevo davanti una ragazza tutta animata e compiacente. L’indomani dormimmo a lungo, e Giulia se ne andò a mezzogiorno. Nel pomeriggio arrivò con provviste e mi disse che offriva la cena. Io misi il vino.
Siccome, dopo il primo calore, con lei non sapevo piú che dire, mi piacque la trovata del bere. Non andando alla trattoria risparmiavo parecchio, e ormai cenavamo quasi sempre insieme, nella stanza, tenendoci allegri. Giulia aveva di bello che faceva del suo meglio per mantenere un po’ d’ordine, e il mio risveglio avveniva sempre allo sciacquío dei piatti che Giulia prima di mezzogiorno lavava. Allora protraevo il dormiveglia, covavo il maldicapo e il malumore, fantasticavo di antiche bevute, fingendo un’immobilità ch’era soltanto del corpo. Rivedevo gli amici, Sandrino; temevo catastrofi; mi batteva il cuore nel silenzio frusciante. Lo strepito dell’acqua e di Giulia mi veniva come da distanze remote.
Un mattino toccarono l’uscio, sentii voci, una scampanellata. Prima che potessi drizzarmi, l’uscio era stato aperto, e Giulia scalza, a torso nudo, con la semplice gonnella, indietreggiava davanti a Sandrino e Maria. Di Maria vidi appena la smorfia sotto il largo cappello di paglia; poi non la vidi piú.
Mentre mi vestivo a casaccio, Sandrino mi disse, abbastanza disinvolto, ch’erano tornati in città per degli acquisti e volevano invitarmi con loro in campagna. Parlando girava gli occhi sul tavolo dove c’erano ancora fiasco e bicchieri della cena. Balbettai non so che, quando la voce di Maria, imperiosa, da dietro la porta gridò: – Lascialo stare. Io me ne vado –. Allora Sandrino aprí le braccia con un gesto d’impotenza e mi disse: – Arrivederci un giorno o l’altro –. Gettò un’occhiata ambigua a Giulia e se ne andò.
Fine.
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TITOLO: La città
AUTORE: Cesare Pavese
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Feria d'agosto / Cesare Pavese. - 2. ed. - Torino : Einaudi, stampa 1973. - 194 p. ; 20 cm. - (Opere di Cesare Pavese ; 5).
SOGGETTO: FIC004000 FICTION / Classici