Il divino tesoro
di
Carlo Dadone
tempo di lettura: 22
Il vecchio libraio Barrocci, – Pipatin, come lo chiamavano gli studenti che regolarmente verso la fine di ogni mese andavano a vendergli per pochi soldi ogni sorta di libri, – con la sua eterna pipetta di radica fra i denti, stava vuotando un grosso cesto pieno di libri per preparare, più zeppi del consueto, il panchetto e le scancìe allineate sotto i portici, quand’io giunsi. Dopo averlo salutato con un allegro «buon giorno», cominciai subito ad esaminare uno ad uno i libri che egli traeva dal cestone.
Il buon Pipatin mi aveva fatto avvertito di un nuovo acquisto di vecchi libri ch’egli aveva concluso il giorno prima con gli eredi d’un venerando prete della Misericordia: ed io, impenitente bibliomane per mia sventura, ero accorso avanti che suonassero le otto all’Università, con la speranza di trovar qualche volume, se non proprio raro e prezioso, almeno caratteristico ed originale.
Avevo appena cominciato a frugare in quello zibaldone di libri latini e non latini, sacri e profani, polverosa zavorra senza valore, quando m’accorsi, con non poca inquietudine, che un signore vecchiotto, magruccio, dallo sguardo vivo dietro le lenti degli occhiali d’oro, passato di là, forse per caso, fruiva anch’esso del diritto che hanno tutti i passanti di sfogliare e sciupare i libri esposti al pubblico all’aria aperta.
Naturalmente continuai con più ardore nelle mie ricerche; ma ora, più che esaminare i libri che io stesso man mano toglievo dal cesto, sbirciavo quelli che ne traeva il nuovo venuto, il quale faceva altrettanto a mio riguardo; una mutua vigilanza, come un principio di diffidente inimicizia fra noi due…. Ad un tratto, avendo letto il titolo di un libriccino legato in pergamena che l’incognito mio rivale in bibliofilia aveva aperto e stava esaminando, per poco non mi tradii con un grido, quasi vinto dalla tentazione di strapparglielo dalle mani.
Quel preziosissimo libro, di cui certo erano solo pochi esemplari al mondo, e che poteva valere qualche migliaio di lire, lo rivedevo per la seconda volta! La prima mi era sfuggito per caso, quando già gli avevo ricamato intorno tutta una trama di astuzie per impadronirmene; invece all’ultimo istante ero stato sorpreso dalla fulminea intraprendenza di un altro bibliofilo certamente più sagace ed astuto che io non fossi.
Ora, ansiosissimo e di soppiatto, seguivo ogni mossa dello sconosciuto, pronto, se rimetteva quel tesoro nel cesto o sul panchetto, ad impadronirmene immediatamente; ma la speranza balenatami che il valore del libro fosse per isfuggirgli, tosto mi lasciò quando lo vidi intascare il volumetto ed appressarsi al vecchio Pipatin per domandargliene il prezzo, mentre le sue labbra sottili si piegavano ad un impercettibile sorriso di trionfo. Egli però non si tradì: ascoltò con molta calma il prezzo derisorio che l’altro, ignorantone, gli domandò dopo averlo esaminato sommariamente; pagò lesto e se ne andò. Senza neanche sapere che cosa mi facessi, gli tenni dietro; e raggiuntolo, dopo averlo cortesemente salutato, gli chiesi se per favore voleva rivendermi quel volumetto che aveva comperato poco prima….
— Mi rincresce, ma non rivendo mai nulla di quanto compero.
— Gli è che quel libriccino, per sè stesso di poco valore, ne ha molto per me, che mi servirebbe per completare certa mia collezione…
— Lo credete davvero di poco valore? – e sorrise maliziosamente, affrettando il passo.
— Ecco: bisognerebbe distinguere….
— È inutile, non c’è nulla da distinguere – m’interruppe bruscamente. – Non rivendo nulla e vi saluto.
— Un momento, un momento! – gli gridai esasperato, afferrandolo per un braccio e fermandolo. – Vi pare una bella azione quella di aver sorpreso la buona fede di un povero libraio pagandogli la miseria di pochi soldi un libro che vale, almeno almeno…
— Siete matto? Lasciatemi, vi dico; seguitate la vostra strada!
E liberatosi furiosamente dalla mia stretta alzò una mano per fermare un tram che giungeva appunto dallo sbocco di piazza Castello. Egli vi salì tosto, ed io pure, sedendomi proprio accanto a lui, sullo stesso sedile, risoluto a seguire dovunque il felice proprietario di quella ricchezza che invano da tanti anni agognavo; e poichè l’inseguìto, pur non osando prorompere, mi guardava con ira repressa stringendo nella mano destra, in tasca, quel libro, gli balbettai all’orecchio:
— Siate buono, signore, possiamo venire a patti… io ve lo pagherò bene…. Non pensate male di me: la passione per i vecchi libri mi rende irragionevole…. Voi potreste farmi felice!
Ma il vecchio, duro, torvo, stava certamente per rispondermi con un secondo rifiuto più energico del primo, quando d’un tratto lo vidi impallidire, aprire le labbra ad un grido che non volle uscirgli dalla gola, fissare, sul marciapiedi della via, un tale dalla figura allampanata che camminava lesto quant’aveva lunghe le gambe, e poi, finalmente, alzarsi di scatto, gridare «ferma, ferma!» al fattorino, saltare dal tram, e correre, correre alla ricerca di quel tale che era sparito chi sa dove, svoltando, da via Garibaldi, nella stretta via San Tommaso… con me dietro, saltato io pure dal tram, a seguirlo come un disperato. Egli corse all’impazzata fra quel dedalo di viuzze, a destra, a sinistra, guardando negli anditi bui delle porte, nelle botteghe, da per tutto, chè pareva avere smarrito il senno; e non appena mi rivide tutto ansante nella furia d’inseguirlo, mi afferrò per un braccio pregandomi, quasi piangendo, di aiutarlo a raggiungere, a ritrovare, un tale… quel tale così e così… ma facessimo presto, per carità! Se riuscivamo a raggiungerlo… il libro era mio!
Dopo aver corso non so quanto tempo, e cercato in ogni dove inutilmente, ci fermammo trafelati a guardarci: lui sfatto, disilluso, più morto che vivo, ed io, che non ne capivo niente, con il sangue al cervello. Pensavo come in quella corsa pazza avrei potuto… rubargli il libro: una tentazione malvagia che mi dava palpiti brutali di angoscia, insopportabili.
Poi il vecchio di nuovo impallidì, là, sul marciapiedi, ed io lo sorressi pronto, offrendogli un cordiale, una bibita qualunque; ma non volle, si schermì, e con voce fievole, poichè si sentiva mancare le forze, mi pregò di accompagnarlo a casa sua, subito, in fondo a via Balbis, nel Borgo San Donato.
Così mentre mi pareva di essere in preda ad un sogno, ed un tumulto di pensieri m’ingombrava la mente; mentre quel libro dannato mi appariva come una visione lontana, straordinaria, ma pur sempre desiderata ad ogni costo, diedi il braccio al vecchio che vi si appoggiò come un fanciullo cominciando con voce sempre più fievole a compassionare il suo cuore, il suo povero cuore che poteva spezzarsi, diceva, da un momento all’altro.
— No, non in carrozza; dobbiamo andare a piedi, – ansava, – così, adagio, se no, guai! La carrozza potrebbe uccidermi: oh, lo so, lo conosco io il mio male! E prima di morire voglio parlare… devo parlare….
Gli dissi qualche frase di conforto e lo consigliai di non stancarsi a discorrere, perchè a guardarlo mi pareva dovesse morirmi fra le braccia da un momento all’altro. Giunti in fondo a via Balbis ed entrati nella porticina di un’umile casetta, salimmo due rami di scale fermandoci ad un uscio su cui il vecchio, che sempre reggevo a braccetto, picchiò tre colpi.
Venne ad aprire un essere che a prima vista, nella semi-oscurità dell’anticamera, mi fece quasi paura; una gobbetta nana, un grosso testone arruffato con due grandi occhi spalancati che mi guardarono con stupore e che si raddolcirono fino ad inumidirsi scorgendo il mio compagno. Dopo aver chiuso l’uscio ella gli afferrò le mani con un piccolo grido, balbettando:
— Dio, Dio, sor Cencio, si sente male? Sor Cencino…. e non è più solo, non più solo!
— Lasciami subito, lo voglio! – balbettò il vecchio respingendola dolcemente, ma fermo, con le deboli forze che gli restavano, mentre un primo singhiozzo gli veniva su dalla strozza; poi mi fece entrare in una stanzetta, quasi buia, ed entrato egli pure, chiuse l’uscio a chiave abbandonandosi in una poltroncina, con la testa fra le mani.
Ancora in piedi, non vedendo nulla, non pensando più al libro, direi che non sapevo in che mondo vivessi.
— Sedete qui vicino a me, – mormorò il vecchio, facendo forza al pianto che gli stringeva la gola. – Non mi curo che mi siate sconosciuto, perchè è giunto il momento. M’era venuta, or ora, un’ultima speranza, e si è dileguata, per sempre. Non temo più niente, non desidero più nulla; non avrò più vita adesso che quell’uomo mi è sfuggito un’ultima volta! Dite: volete voi essere il mio continuatore? Volete sapere il mio segreto, quel gran segreto che, svelato, potrebbe meravigliare e far fremere di commozione il mondo intiero? Ma la scoperta la terrete per voi solo: sarà per voi un’adorazione eterna, una felicità così grande che niuno saprebbe immaginar l’eguale!
Si arrestò un momento a riprender fiato, con gli occhi fissi nel vuoto, mentre io, come trasognato, mi sentivo attrarre da un mistero che quasi sentivo alitarmi intorno, in quella camera semi-buia, fra quelle scancìe piene zeppe di vecchi libri, in mezzo a quelle pareti nere stranamente decorate da armi ed utensili curiosi che a mala pena distinguevo… Da un angolo due occhi immobili, scintillanti mi fissavano. Un brivido mi sfiorò la pelle, ed aguzzando meglio lo sguardo scorsi un gufo, immobile sullo schienale di una sedia.
— Sì, una felicità straordinaria! – continuò il vecchio con più calma, traendo di tasca il volume che mi aveva dato le vertigini, e posandolo sopra un tavolino. – Questo libro che voi tanto desiderate diventa ora, ai miei occhi, un nulla… E tale diventerà anche ai vostri quando saprete il mio segreto e come mi sia sfuggita la felicità che avrei voluto acquistare anche a prezzo di un delitto! Se potrete giungere dove io non giunsi, credo piangerete di gioia, come ho pianto io quel giorno, quando…
Un morbido fruscìo, una blanda carezza come di aria smossa da un ventaglio di piume, un lieve strido, ed il gufo volò a posarsi su d’una spalla del mio interlocutore, il quale alzò la mano scarna ad accarezzarlo.
Poi riprese:
— Mi state a udire, non è vero? Vi narrerò fin dall’inizio ed in tutti i particolari una storia vera che nella sua semplicità apparente vi sembrerà maravigliosa… Ma non m’interrompete, e lasciatemi pensare un momento.
Chinò il capo, socchiuse gli occhi, ed io continuai a tacere palpitando sotto lo sguardo diabolico del gufo.
Alla fine il vecchio bibliofilo parlò quasi con dolcezza:
— Sono oramai trascorsi quattordici anni dal giorno in cui, tranquillo e beato a Firenze, ove vivevo fra i miei libri rari, mi giunse, da San Pier del Colle in quel di Pistoia, una lettera di certo mio amico il quale, dopo le consuete scuse per avermi lasciato tanto tempo senza sue notizie, mi pregava di usare una vera carità ad una povera orfana, rimasta priva d’ogni risorsa essendole di recente morto un vecchio zio, povero quasi quanto lei e l’unico parente che ancora le restasse. Si trattava, se possibile, che mi impegnassi a trovarle un posto qualunque da domestica. Però mi avvertiva che la ragazza in questione era un esserino malaticcio: una gobba non si sapeva bene se intelligente o mezzo matta, come molto intelligente e mezzo matto era pure stato suo padre, Gildo Erinni, insegnante comunale a San Pier del Colle, morto quando lei aveva appena un anno.
«Per combinazione ero appunto rimasto senza domestica, e pensando che quella propostami, precisamente perchè disgraziata mi si sarebbe affezionata meglio delle tante che già avevo sperimentato, disposi senz’altro che tosto mi fosse inviata.
«In verità, non appena la vidi, – e voi stesso, signore, la vedeste or ora, – provai un vivo senso di repulsione. Quella sua testa enorme, quel suo corpicciuolo rattrappito e gobbo, quelle sue braccia lunghe le davano un aspetto mostruosamente scimmiesco… Ma que’ suoi grandi occhi turchini, dolci ed intelligenti, si guadagnarono subito la mia pietà, e le volli sempre un gran bene, ripagato ad usura con una devozione senza limiti.
«Trascorsero due anni. Una sera, mi ricordo come fosse ieri, contro ogni mia abitudine rincasai assai tardi. Passando vicino alla cameretta dove dormiva la domestica Giuliana, che io chiamavo e chiamo tuttora Liana, la sentii parlare a mezza voce, distintamente… A tutta prima credetti che qualcuno fosse con lei, ed aperto l’uscio piano piano, cacciai nella camera il capo insieme col lume. Era sola e dormiva tranquilla.
«Allora, curioso, poichè già qualche volta l’avevo sorpresa, da sveglia, a mormorar frasi inconcludenti mentre il suo sguardo sereno pareva smarrito in un sogno lontano, allora spensi il lume, e tesi gli orecchi.
«Liana, la povera gobbetta, seguitò a pronunciare parole tronche, confuse; poi, poco a poco, qualche frase senza senso, ma con ritmo, e dopo una pausa, distintissimamente, una terzina intiera del Canto quinto del Paradiso… Stupefatto, non credevo ai miei orecchi… In punta di piedi, nel buio, mi appressai al letto di Liana, ed un istante dopo, dolcemente, con voce tanto soave quale io non avevo mai udito dalla sua povera bocca; ripetè:
«Apri la mente a quel ch’io ti paleso, – E fermalvi entro: chè non fa scienza, – Senza lo ritenere, avere inteso».
«Non so quanto tempo rimanessi là, nel buio, accanto a quel letto, come un allucinato. Liana disse altre frasi sconnesse, parole rotte, qualche altro verso, in confuso; poi tacque, respirando calma.
«Quando uscii da quella cameretta per entrare nella mia, lo stupore per ciò che avevo udito e scoperto era così vivo in me, che coricatomi non potei dormire e l’alba mi colse sveglio, impaziente di rivedere Liana, per interrogarla, per conoscere il mistero grazie al quale ella, analfabeta, ignara di versi e di prosa, aveva detto, nel sonno, una intiera terzina del Divino Poeta.
«Non appena la udii muoversi in cucina per prepararmi il solito caffè mi vestii in fretta e la raggiunsi. Le dissi allora che la sera prima passando vicino alla sua cameretta l’avevo udita parlare nel sonno, e le domandai se tal fatto era in lei abituale.
«Liana chinò il testone, arrossì, il suo corpicciuolo di sciancata ebbe un tremito leggero e mi rispose che sognava sempre molto: sogni semplici e straordinari, che poi, sveglia, la facevano fantasticare. Anche lo zio le aveva detto, più volte, di averla udita parlare nel sonno.
«— E sai quello che hai detto stanotte!
«— Oh, no, signore… Non me n’accorgo quando parlo nel sonno.
«— E dimmi un po’, Liana: ti piacciono le poesie? Sai recitarne qualcuna?
«— No, signore, sono una povera ignorante.
«— Pure stanotte ti ho sorpresa a recitar versi… Proprio davvero non ti ricordi?
«— Perchè dovrei mentire, padrone?
«— Lo zio non ti leggeva mai nessun libro?
«— Zio Marcello non sapeva leggere.
«— O qualcun altro?…
«— Nessuno.
«— Ad ogni modo, senti se ti piace questa breve poesia; e le dissi chiaramente e adagio, fissandola bene negli occhi, la terzina dantesca ch’ella stessa aveva per ben due volte ripetuta nel sonno. Mi ascoltò attenta senza mover ciglia, e poi osservò che certo la poesia doveva essere molto bella, ma che non la capiva, e che la udiva per la prima volta.
«Non era il caso di continuare nel mio interrogatorio. Mi trovavo dinanzi ad un fenomeno stranissimo; avevo la certezza assoluta che mai versi dell’Alighieri, nè altri di nessun genere, erano stati uditi dalla mia domestica, tranne forse gli stornelli cantati nel Pistoiese; eppure essa, nel sonno, aveva detto una intiera terzina del Paradiso! Non sono mai stato credente spiritista nel senso assoluto della parola; sapevo, come tutti sanno, di fenomeni medianici e di tutto quanto ad essi s’accompagna; ma non mi era mai occupato di tale argomento. Bastò però il caso di Liana per ch’io mi dessi tosto corpo ed anima non agli studi spiritici, bensì a ricercare io stesso la fonte, il perchè ed il come del fenomeno da me osservato. E quindi con molta cura mi diedi a studiare notte e giorno la povera sciancata: di giorno facendola parlare quanto più m’era possibile; di notte nascondendomi in camera sua, dopo ch’ella erasi addormentata, per sorprendere ciò che diceva nel sonno.
«Così ebbi l’assoluta certezza che Liana, sveglia, non ricordava nulla delle parole che pronunciava dormendo, e che essa, assolutamente, viveva due vite separate: sveglia, la materiale, la sua vita: nel sonno, la spirituale; e questa non era la sua vita.
«Ma di chi era, adunque? Forse di qualche suo antenato. Così pensavo, ribadendo certe mie convinzioni sulla ereditarietà della memoria. Ciò non mi diede più requie, traendomi a nuove investigazioni le quali avrei potuto fare soltanto risalendo alla fonte stessa del fenomeno che volevo studiare: recandomi cioè a San Pier del Colle a raccogliere notizie ed informazioni sugli antenati della povera Liana.
«Vi dirò subito che fu un’idea felicissima.
«A San Pier del Colle fui ospite di quello stesso mio vecchio amico che mi aveva raccomandata la fanciulla, ed aiutato da lui, in pochi giorni raccolsi notizie di così gran valore che per esse mi venne la luce completa, la conferma assoluta che l’eredità della memoria è un fatto certissimo, innegabile. Ma le stesse notizie, avute per quella concatenazione che lega uno all’altro tutti gli avvenimenti, mi posero sulla traccia di un’altra scoperta, della grande scoperta. Quando la intuii, in un istante di geniale divinazione, io mi sentii come pazzo, e fui preso da un’ansia al cuore così viva che non mi lasciò pace un momento fino al giorno in cui…
«Ma ecco, prima, le strane notizie da me raccolte.
«Gildo Erinni, il padre di Liana, insegnante comunale, morto quando ella aveva appena un anno, mentre la moglie eragli mancata dando alla luce Liana stessa, uomo strano, eccentrico ed intelligentissimo, era molto conosciuto in paese per le sue originalità e per il suo eterno buonumore. Tratto, tratto, senza che nessuno mai potesse sapere dove si recava nè a che fare, si assentava due o tre giorni dal paese, ritornandovi più felice che mai, col volto irradiato da tanta gioia come giungesse dalla conquista d’un impero. Allora, con chi voleva udirlo, ed anche con chi non voleva, vantavasi padrone, o quasi, di una fortuna che sarebbesi potuto valutare a milioni, di un tesoro straordinario il quale compendiava tutta la sua felicità: un tesoro quale nessun Creso della terra potrebbe neanche sognare di possedere… E quando egli stesso non recavasi fuori dal paese per quelle gite misteriose, gli capitava in casa uno sconosciuto, come lui felice, come lui originale ed eccentrico, col quale, chiuso in camera, passava ore ed ore recitando la Divina Commedia e commentandola con animatissime discussioni…
«Ecco l’ereditarietà della memoria maravigliosamente svelatasi in Liana, nella figlia di Gildo Erinni!
«Infatti, mortole il babbo quando ella aveva appena un anno, non poteva aver udito brani della Commedia per mandarli a memoria; in casa dello zio dov’era poi vissuta sino ai quattordici anni, non aveva mai udito un verso, si poteva giurarlo; intorno a lei regnava appunto la massima ignoranza, ed ella stessa era analfabeta. Se una geniale intuizione non mi avesse fatto indovinare un altro e più interessante mistero, sarebbe forse bastata questa grande scoperta per farmi felice, ma invece era a ben altro che dovevo giungere, adesso. Qual’era il tesoro straordinario di Gildo Erinni, del babbo di Liana? Perchè, tanto lui come quel misterioso suo amico erano così profondamente, così immensamente felici?
«Ma ripeto che con un lampo di genialità intuitiva divinai la Cosa! Ah, sinceramente, scoprire l’affascinante segreto, giungere alla mèta, a quel tesoro senza pari, unico al mondo! Vederlo, vederlo soltanto, ammirarlo anch’io, adorarlo ginocchioni nello smarrimento di una felicità sovrumana… Ma come, Dio mio, come?
«D’improvviso intravvidi l’unica via in quel portento di eredità della memoria svelatasi nel cervello straordinario della povera sciancata. Far parlare quella memoria, rapirle il segreto, far rivivere in essa l’anima del maestro Gildo Erinni… Oh, il gran sogno, al quale mi abbandonai con l’ardore, con la fede degli apostoli!
«Tornato a casa, circondai d’innumeri cure la preziosissima Liana, quell’esserino ripugnante che nessuno poteva guardare senza un fremito di disgusto e di pietà; e non l’abbandonai più nè giorno nè notte, studiandola, osservandola, finchè nel sonno, una notte, le carpii il principio del segreto. La mattina dopo ripetendo alla sciancata le parole sfuggitele mentre dormiva, mi feci narrare il suo sogno, nei più minuti particolari: quel sogno che le pareva, mi disse, di aver sempre sognato; una strana rievocazione tutte le notti, che le dava la percezione di un’altra vita vissuta.
«Quel sogno mi fece vedere una strada, un paese con le sue case, un’arco antico, una Madonna rossa in campo d’oro, una viuzza lunga lunga, fra due alti muri; ed in fondo una casetta, un tugurio solo, romito, ed una porta bassa e rozza, chiusa sulla felicità, su quella felicità. Perchè lei, nel sogno, quando giungeva a questo punto, si smarriva in un godimento inesplicabile che la svegliava di scatto, ogni volta, lasciandola poi con nel cuore un’ansia angosciosa, estenuante.
«Dio, Dio! In quei momenti io pure mi smarrivo in un’atroce smania, nella febbre di voler sapere ad ogni costo… E trovai il paese sognato dalla povera fanciulla: me lo fece riconoscere l’arco antico da lei descrittomi con minuziosa esattezza. Chiamavasi Arco di Pieve e sorgeva nelle montagne, a un dodici miglia da San Pier del Colle… Quando mi vi recai, insieme con Liana, ed essa vide le prime case, sussultò, mi guardò con grande stupore, e disse:
«— È qui, è qui… giuro che non ci sono mai stata, ma questo paese lo conosco… è il paese dei miei sogni, proprio lo stesso, padrone! Ecco le case; quella bianca, quella gialla, quella mezzo rovinata; ecco l’arco antico, la Madonna rossa, la viuzza, là, fra i due muri, e laggiù, in fondo, quella porticina ch’io apro nel sogno, dove, non so come, godo gioie che non saprei ridire… Oh, padrone, fermiamoci qui; io non ho più cuore di far nemmanco un altro passo!
«La sciancata, tremante, con il testone curvo fra le spalle, si era fermata ad implorare. Ed io, reggendomi per forza di volontà in quell’ansia indicibile, chè già allora il mio povero cuore funzionava debolissimo, trassi via Liana afferrandola per un braccio e la condussi ad un vicino albergo ove la lasciai. Tornato poscia sui miei passi, risoluto, palpitante, infilai quella viuzza, giungendo sino al fondo, a quell’uscio basso e rozzo, là dove pure era venuto tante volte Gildo Erinni, il maestro comunale di San Pier del Colle, il morto babbo di Liana, quando tratto tratto si assentava dal paese.
«Ero in pieno possesso del mio coraggio, avevo preso una ferma risoluzione, e con un ciottolo che mi ero chinato a raccogliere picchiai forte a quella porticina: tre colpi imperiosi che risuonarono alti nel silenzio svegliando gli echi sopiti di quella solitaria parte del paese.
Le tempie mi si bagnarono di sudore nell’attesa mortale; ma in capo a forse un minuto la porticina fu socchiusa, e nel vano spiccò la faccia magra di un uomo alto, non più giovane, dallo sguardo vivo e scintillante, dalla bocca che mi parve aperta ad un sorriso; ed una voce dolce, ma ferma ed un poco severa, mi domandò:
«— Chi cercate, signore?
«— Cerco voi… Vorrei parlarvi un momento per affari importantissimi: potreste ricevermi?
«Quell’uomo mi fissò ancora un istante, e certo lesse nei miei occhi l’ardore che mi struggeva poichè subito fu vinto da un principio di diffidenza e mi rispose:
«— Non posso, ora: non vi conosco, nè so cosa volete… Vi saluto.
«— Vengo da parte di Gildo Erinni, il maestro comunale di San Pier del Colle, morto sedici anni or sono, – gli dissi d’un fiato, fissandolo negli occhi, alteramente. Quell’uomo restò senza parola, impallidì, si strinse una mano sul cuore, quasi a chiedermi mercè, e mosse un passo indietro, con gli occhi sbarrati, tremante, come se gli fosse comparso dinanzi il fantasma di colui che gli avevo nominato…
«— Così, senza volerlo, mi lasciò libero il passo ed io entrai chiudendomi l’uscio alle spalle. Passando per una buia anticamera, mi avviai senz’altro in una stanzuccia a terreno, dove quell’uomo, sempre senza parlare ed in preda a vivissima commozione, mi fe’ cenno di sedere e sedette lui pure. Trascorsero alcuni minuti prima che potesse parlare per domandarmi, con un filo di voce:
— Come sapete, voi? E che cosa sapete?
— So tutto, tutto! Liana, la povera figlia del vostro morto amico, è sotto la mia tutela, ed io appresi ogni cosa!
— Ma è semplicemente impossibile! Voi non sapete nulla… Infine, che cosa dovreste sapere?
— Com’è, allora, ch’io mi trovo qui a volere la mia parte di felicità, e di quella felicità? Per quale miracolo, adunque, io so che voi, qui, siete il più fortunato degli uomini? Dite, dite: c’era forse anima viva a parte del segreto? Eppure io so! E ad ogni costo sarò felice come voi; come voi ammirerò coi miei propri occhi, toccherò con le mie mani, adorerò con tutto il mio cuore che sembra mi si spezzi, in questo momento… Ma guardatemi, adunque: non mi vedete, così, capace di un delitto? Sono io ora al posto di Gildo Erinni: e come lui voglio essere felice, capite? Lo voglio, lo voglio!
«Mi ero alzato, fuori di me, con i pugni chiusi, pronto a qualunque eccesso, pur di giungere subito e finalmente alla vittoria.
«— Sì, sì, sarete felice come lui… ma non più di lui! – balbettò il mio interlocutore, vinto, impaurito, giungendo le mani. – Siate calmo, però… e giuratemi, sul vostro onore, che mai anima viva saprà nulla di quanto vedrete; ed ora, venite, scopritevi, e non vi tenti alcuna profanazione.
«Mi trasse per mano su per una ripida scaletta interna, ed entrammo insieme in una stanzuccia superiore. Da questa, dopo che il mio ospite, lentamente e direi quasi con estrema venerazione, ebbe aperto un massiccio uscio di quercia, entrammo in una seconda cameretta illuminata dall’alto da un piccolo lucernario. In mezzo ad essa, sopra un ricco tavolo-piedestallo che mi parve di ebano scolpito, alto pochi palmi dal pavimento, stava un forziere di ferro, chiuso.
«È qui, – mormorò il mio ospite, inginocchiandoglisi dinanzi, e traendo due piccole chiavi da una borsetta che teneva appesa al collo, sotto le vesti. – È qui… Ogni qualvolta apro questo forziere mi sento soffocare da una commozione indicibile… e talvolta piango di gioia…
«Anch’io mi sentivo preso alla gola da uno struggimento che non potevo dominare. In quell’istante supremo, in procinto di posare finalmente lo sguardo su quel gran tesoro, mi pareva di smarrire la ragione. Sentivo tutta l’anima ardermi negli occhi, e quando colui, quel padrone della felicità, ebbe aperto il forziere, ed io vidi, caddi in ginocchio, estatico, in muta contemplazione, mentre sulle guancie sentivo il caldo delle prime lacrime di gioia, e mentre anche il mio ospite, rapito nella stessa contemplazione, piangeva… Così, per alcuni minuti, o per alcune ore, non so: poi quegli mosse adagio le mani bianche e tremanti a sfogliare le pagine di pergamena, ad una, ad una, e parlò, con voce soave che sapeva di mistero e di adorazione:
«— Qui sono le prove: i testamenti segreti e le lettere segrete di donazione, da padre in figlio, fino all’ultimo vissuto di quei felici, di quella stirpe di eroi. Ecco le firme ed i sigilli: e qui, – e la sua voce non mi parve più di questo mondo, tanto la udii vibrante di emozione sovrumana ed in pari tempo dolce come una carezza e qui, ecco il tesoro ignorato dal mondo intiero…
«Cominciò a sfogliare piano le grandi pagine che al mio orecchio cantavano un crepitio lievissimo come di musica celestiale; e vidi la scrittura fitta, chiara, senza virgole nè punti, continuata senza interruzione di spazî, con poche cancellature, con note e chiose ai margini e qua e là certi piccoli segni convenzionali… Lì, su quelle pagine, si era chinata la fronte del Divino Poeta; lì, su quelle pagine, la mano di Lui aveva scritto l’eterno poema di Dio, del Paradiso, del Purgatorio e dell’Inferno, ed il Suo Genio si era rivelato ai secoli per non mai più morire.
«L’angoscia della vera felicità raggiunta è più terribile di quella della disperazione; ed io, con il cuore arso dalla ebbrezza folle che mi rapiva, mi alzai: cautamente, adagio adagio, affascinato dalla tentazione irresistibile di diventare io il solo felice, per sempre; di essere io l’unico possessore di quel divino tesoro, mossi a tergo del mio nemico che curvo, ignaro, estasiato nella contemplazione certo più non mi vedeva. Pronto al delitto, con le mani alzate, i nervi già tesi allo sforzo supremo stavo per ghermirlo al collo e per soffocarlo, quando quell’uomo si voltò e si alzò di scatto non saprei per quale fulminea intuizione, impugnando una piccola rivoltella e puntandomela al petto, gridando a denti stretti, chè le parole gli uscivano convulse:
«— Traditore! Assassino! Fuori… fuori… giù, scendi, esci, o ti ammazzo!…
«E così, indietreggiando, atterrito sotto la bocca della rivoltella, attraversai l’altra camera, scesi la scaletta, passai nel salotto, nel buio dell’anticamera, e fui messo fuori da una terribile spinta: poi la porta bassa e rozza, mi si chiuse dietro come una maledizione, per sempre.
«Vi ritornai, dopo un giorno d’inesprimibili angoscie vissuto non so dove, non so come, pronto a morire là, od a vincere… e trovai la casa vuota, le pareti nude e dovunque un terribile silenzio di tomba: fu una sparizione veramente prodigiosa…
«No, signore, non divenni pazzo: ma per poco non impazzii stamane quando rividi quell’uomo… quel Dio…ß«Ho finito, signore; soltanto aggiungerò che se voi non avete potuto far vostro questo libro per il possesso del quale avreste commesso qualunque violenza, mi avete però carpito il segreto della mia esistenza: quel segreto che ha fatto di me il più grande degli infelici e che ora, fra breve, mi spezzerà il cuore, per sempre.
Fine.
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Il divino tesoro
AUTORE: Carlo Dadone
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: La forbice di legno / di Carlo Dadone. - Nuova ed. economica. - Milano : F.lli Treves, 1911. - 229 p. ; 20 cm. - (Biblioteca amena ; 817).
SOGGETTO: FIC015000 FICTION / Horror