La bora.
di
Alfredo Panzini
tempo di lettura: 7 minuti
Paron Mènego, quand’era a bordo ritto su la tartana nera era un personaggio! Conosceva le stelle e le acque; e quando a pope reggeva la barra, dominava i venti e le onde. Ma se il mare era piano, paron Mènego fumava la pipa chioggiotta in cerchio coi compagni, o disponeva le schegge sotto il paiolo per la polenta dolce, o ammanniva su la tolda, entro gli schidioncelli di ròvere la triglia rossa, la seppia bianca, la sardella turchina; oleose, e ancor palpitanti.
Ma a terra paron Mènego faceva meno figura: sia che la terra gli mettesse soggezione, sia che in terra camminasse bordeggiando sui grossi zoccoli di legno, che pareva ebbro.
Ma soltanto la domenica era un po’ ebbro.
La sua tartana con le altre tartane dalle vele rosse tornava a terra il sabato sera.
«Bettina son qua, xe arriva el to omo. Bora, bora! Caligo! Bonaccia! Vento de maestro, trenta coffe de pesce!» diceva arrivando a casa il sabato.
Bettina, la sposina, scapigliata e sudicetta, sapeva quel che aveva da fare senza parlare, all’arrivo del suo uomo. Scapigliata e sudicetta, ma sotto panni le carni avea delicate e bianche come la seppia. Bettina, piccola Madonna con le ciglia abbassate, saliva allora docile la scaletta di legno che conduceva al tàlamo. Dietro rimbombavano gli zoccoli del gran màschio-marino.
Dopo mezz’ora costui diceva:
— Adesso sto ben!
Solo la domenica sera andava all’osteria, dove faceva accompagnamento: Uhm, pà, pà, là! come una catuba, alle cantilene degli altri pescatori, in coro.
A mezzanotte della domenica era di nuovo a bordo: all’alba il vento trovava paron Mènego, calmo, alla barra.
Mai paron Mènego si era rivolto questa domanda: «Sei tu felice?» forse perchè era felice, specie quando tornava a casa e diceva: «Bettina, son mi, el to omo!».
⁂
Una notte la bora soffiava forte sul mare; non era il sabato e una voce rimbombò dalla strada:
— Bettina, verzi la porta: son mi, el to omo.
Ma la casetta era immersa nel sonno della notte autunnale.
A un tratto tremò tutta la casa. Mènego aveva urtato contro la porta.
— Seu vu? – domandò una voce da una spiraglio della finestra.
— Son mi, Bettina. Semo arrivati in porto a pericolo de vita. Bora, bora grande in mar.
Bettina venne ad aprire.
L’uomo faceva tremare tutta la piccola casa.
— Bettina, no te impizzi el lume?
— No se vede lo stesso per quel che gh’avè da far?
Ma quando fu sul limitare del tàlamo, l’uomo si arrestò. Annusava forte.
— Cossa xela sta spuzza?
— Me son lavada con l’acqua de bon. Vegnì a letto, Mènego, che xe freddo. Cosa feu, Mènego? Ma rispondeu, Mènego! Seu deventà matto, Mènego?
Dalla tonaca marinaresca Mènego levava la custodia di latta: soffregò, brillò la luce del fosforo: con calma, come in mare, quando v’è pericolo di vita, accese il bovoletto di cera vergine. Al diffondersi della luce chiara un rumore si udì.
— Bettina! – urlò Mènego.
La Bettina non c’era più.
D’un balzo levò il copertoio del tàlamo.
Una cosa bianca si ritrasse sotto il letto. Era un piede.
Mènego lo afferrò.
— Vien, – diceva. – Se te xe un vivo, te devi vegnir.
Venne tutto. Era un corpo di giovanetto.
Esso si inginocchiò, scoppiò in pianto, disse:
— Io non voleva venire. È stata la Bettina a dire: «Se no te vien, xe prova che no te me voi ben».
Mènego lo guardava dalla gran faccia barbuta. Doveva essere di quei giovanetti che stanno al caffè, portano cravatte di seta e marciano con scarpette di pelle lùcida.
— Vien con mi! – e dicendo questo, lo prese per il polso, e lo trascinò giù per la scaletta pianamente.
Quando furono fuori della casetta, la bora soffiava forte: il buio era così denso che non si vedevano nemmeno le tartane ancorate nel canale.
Mènego se lo prese e, così come era, se lo caricò su le spalle, e perchè quegli springava forte, Mènego strinse con una mano un piede, con l’altra mano attanagliò l’altro piede insieme con l’una e l’altra mano di lui.
Mènego si mosse col suo passo dondolante e sicuro.
— No buttarme nel canale che me nego!
L’uomo andava in silenzio.
Prese la via, non del canale, ma della terra. Di mano in mano che si inoltrava verso terra, il fragore del mare cessava e la bora si sentiva meno.
Camminò per un’ora per la campagna. Intanto il giovane, riavutosi alquanto, spiegava fra il pianto, dall’alto, agli orecchi di Mènego, il perchè della sua mala ventura.
Mènego non rispondeva niente e andava.
Ad un tratto il giovanetto trasalì tutto: diè un guizzo enorme per iscappare, mandò un urlo di terrore.
Nella tenebra della notte aveva scorto qualcosa di più tenebroso: i cipressi del Camposanto. Le cime ondeggiavano, vive.
Mènego a quell’urlo si fermò alquanto: guardò, come se qualcosa di evanescente avesse dovuto farglisi incontro. Nulla! Allora riprese il cammino. Giunse al cancello dei morti.
Mènego lo sospinse. Poi avanzò sin dove il vialetto si apriva in croce in quattro vialetti, di cui si scorgeva il biancicore in fòggia di croce fra le siepi delle mortelle.
Il giovanetto su le sue spalle non si divincolava più; un tremito percorreva il suo corpo.
Arrivato in fondo di uno dei vialetti, Mènego si fermò, scrutò, assaggiò con il piede.
La mèta del suo viaggio era raggiunta.
— Ecco la busa, – disse.
(Era una delle fosse che i becchini preparano per gli ospiti del domani.)
— Adesso no mòverte, – disse, e lo scaricò.
Il miserabile, oramai paralizzato dal terrore, invece di fuggire stava aggrappato alle gambe di Mènego.
Questi trasse dall’astuccio un suo coltello a lama fissa e breve, ma puntuto e destro, di quelli che i pescatori usano per iscuoiar le cagnizze tenaci. Strinse fra i denti il coltelletto: poi afferrò la testa del giovanetto, palpando per sentire dove pulsava la carotide: – Di’ con mi el De Profundis.
— Ah, la morte! Mamma! Mammina mia! cos’ho fatto! – disse con voce abbandonata il giovanetto.
Le mani di Mènego si rallentarono a quella parola inattesa, e gli occhi guardarono il campo dei morti.
— Gastu una mare anca ti? – domandò.
Allora sgorgarono le lagrime al giovanetto. La sua voce prese un’intonazione di bambino piccolo:
— Mia madre! mia madre! voglio prima mia madre!
Allora Mènego ributtò indietro il cappuccio. Un’idea penetrò nel cervello chiuso.
— Te giuri, – disse, – su l’anima de tua mare, de non parlar mai?
— Sii! – urlò l’infelice.
— Te giuri che quando te me vedi, te scamparè via, che mi no te veda mai e poi mai?
— Sii! – ripetè il giovanetto.
— Ben, scappa; ma fa presto, sbusa, va via, scòndete. No star lì, che te copo; ma no te capissi che se te vedo, te copo?
Il giovanetto era dileguato. E Mènego si trovò solo. E un proverbio gli si affacciò: «la nave non lascia traccia in mare; non l’uccello nell’aria; non l’uomo nella donna».
Ripose il coltello. Egli non aveva ferito. Ma allora si accorse che era lui ferito.
Correva nella notte; urlava nella notte:
«Bettina, Bettina, te ga copà al to Mènego!».
⁂
Gli domandavano i compagni:
— Perchè, paron Mènego, dormiu a bordo in vece che a cà vostra?
— Perchè xe più caldo a bordo.
— La vostra Bettina la patirà al fredo, paron Mènego!
— Va in malora ti e ela.
— Mènego, no vegnì a disnar stasera? – domandava la Bettina con voce molle ed umile più che la cera.
— No, vado all’osterìa.
⁂
All’osterìa Mènego acquistò gran nome in poco tempo. Egli vinse tutti i bevitori.
Paron Tita aveva bevuto un trenta bicchieri di vino greco. Paron Marco ne portava trentacinque senza cadere. Essi erano i bevitori più famosi. Ma paron Mènego arrivò sino a quaranta bicchieri, e vino nero come il sangue del delfino, e vino di Puglia. E con tutto ciò stava in piedi.
Però non faceva più zum-zum, o uhm pà, pà, là, come prima quando accompagnava bonariamente il coro dei bevitori.
⁂
Ma paron Mènego una mattina non fu trovato più a bordo. Era bora e il mare era livido. Lo ritrovarono a caso i pescatori di un’altra tartana, dopo che il mare si fu un poco abbonacciato.
Paron Mènego giaceva grande e resupino sul letto verde e diafano di una grande onda, tutto ravvolto nella sua tonaca di marinaro, filettata d’azzurro; e il suo gran corpo passava da un’onda ad un’altra placidamente.
— Come l’era bello, Bettina, il vostro omo, – le dissero i marinai. – Ma beveva troppo, beveva!
Fine.
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TITOLO: La bora
AUTORE: Alfredo Panzini
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Novelle d'ambo i sessi / Alfredo Panzini - Milano : Treves, stampa 1920 - VIII, 186 p. ; 17cm.
SOGGETTO: FIC000000 FICTION / Generale