Ipotenùsa, va!
di
Neera
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Quando la signora Bettina ebbe chiusi gli occhi per sempre, suo fratello, l’illustre Spiridione Tomei, stentò molto a darsi pace.
Prima di tutto c’era l’affetto di famiglia, questo non è da mettersi neppure in dubbio; poi la consuetudine della vita in comune che quando non vi sia aperta incompatibilità di carattere crea pur sempre un vincolo. Quel vedersi tutti i giorni, prendere i pasti assieme, sapere che all’uno piace l’aglio e che l’altro non lo può soffrire, udir ripetere certe frasi ingenue «Vuol piovere, il mio callo mi dà noia», oppure «Oggi è Sant’Antonio, la giornata si allunga di un’ora», avere infine qualcuno a cui confidare che si è passato una cattiva notte o che si ha un principio di infreddatura, è vero, sono cose molto semplici, ma legano incredibilmente a quell’età che non si interessa più delle vicende d’amore e con un temperamento alieno dalla politica, chè tale era appunto quello di Spiridione Tomei.
Egli era vissuto fino allora così tranquillo accanto alla buona sorella, in un quartierino solitario rimasto incolume da un secolo nel centro della città, col Naviglio sotto le finestre e un giardinetto decrepito pieno di erbe parassite che si incappucciavano a primavera di un ridente padiglione di glicine sufficiente a dargli l’illusione del paradiso terrestre, perchè – era questo un canone fondamentale della filosofia di Spiridione Tomei – tutto ciò che ci rende felici non è che illusione. Egli si appoggiava anche per far valere la sua teoria all’autorità di un proverbio indiano il quale dice: «Checchè l’uomo faccia non potrà trasportare delle acque del Gange più che un vaso per volta». Dunque un ciuffo di erbe e una pianta di glicine moltiplicate nella fantasia fino a dargli la visione di parchi infiniti abbellivano a’ suoi occhi di saggio un vecchio appartamento privo di ogni moderna comodità, coi pavimenti di mattonelle rotte e le finestre che non chiudevano. È però vero che la sua buona Bettina aveva disteso lungo i vetri parecchie listerelle di cimosa avanzate dalla stoffa di un antico soprabito. Ed ora non c’era più la Bettina!…
Un’altra cosa che sconcertava le abitudini di Spiridione Tomei era la necessità di dover conferire direttamente colla donna di servizio. La sua vita morigerata di uomo di studio lo aveva tenuto così lontano dalle esperienze femminili che dinanzi a una donna egli si trovava sempre un po’ imbarazzato. Nei primi giorni, siccome l’Agata gli stava intorno continuamente: «Signor padrone questo, signor padrone quello» e gli parlava con singolare volubilità della povera signora morta e del burro rincarato, nonchè del garzone macellaio che aveva preso il volo con cinquanta lire del banco e due vitelli e mezzo, gli sembrava proprio di avere aperto l’uscio a uno stormo di passeri. Si sentiva incretinire.
— Ti prego, – disse alla fine colla sua voce più melliflua, non volendo a nessun costo offendere una donna –: ho un lavoro importante da finire.
Quasi non bastasse l’urbanità della frase la accompagnò con uno sguardo umido e tremolante, uno sguardo pieno di tenerezza umana, interpretato chi sa come dalla servetta, la quale scoppiò a ridere irriverentemente e questo riso inopportuno finì di sconvolgere le idee del filosofo che stava preparando un importante lavoro dal titolo: «La coscienza nei rapporti colla volontà».
— Le donne – egli concluse asciugando la penna con un rosolaccio di pannino rosso e nero (lavoro della defunta) – sono assolutamente incomprensibili.
Incominciato sotto tali auspicî il governo domestico di Spiridione Tomei non somigliava nè ad un regno nè ad una repubblica nè a qualsiasi altra forma di reggimento riconosciuto, perchè, se non vi erano i termini dell’imperialismo, mancavano pure le forze civili di una repubblica, e solo l’anarchia, che è negazione di governo, potrebbe paragonarsi a ciò che succedeva in quella casa, ammesso che si possa mettere a confronto la tragedia colla farsa.
— Agata, – diceva il padrone, – le calze che mi hai date stamattina sono piene di frinzelli.
— Fringuelli!? O come vi potrebbero essere dei fringuelli nell sue calze? Se li è forse sognati?
— Non ho detto fringuelli, – spiegava serio serio il padrone, – ho detto frinzelli, che sono, guarda qui, queste accapponature del tessuto le quali mi fanno l’effetto di avere una nocciuola nelle scarpe.
Alla seconda parola difficile l’Agata aveva preso un’aria di sussiego, come di persona offesa, brontolando:
— Allora si parla chiaro e non abusare di una povera ragazza che non ha avuto tempo di andare a scuola per mortificarla col suo latino. E se le calze sono bucate io non ne ho colpa, che non sono io che le porto, nè che le compero, nè che le faccio; Dio guardi, ci mancherebbe altro che dovessi anche sferruzzare a farle le calze, che del resto lei sarebbe capace di pretenderlo perchè i signori al giorno d’oggi non hanno più carità del prossimo e se c’è tanta anemia intorno, come dicono i dottori, che l’ho anch’io, è perchè i padroni ci fanno lavorare come bestie. Ci vuol altro che stare a tavolino a scrivere. Quello è un mestiere da nulla; dovrebbe essere nei miei panni; ma loro sono senza cuore tutti dal primo all’ultimo. Oh! verrà anche per loro il giorno!
Esterrefatto, Spiridione Tomei aveva seguito quello strano discorso, che, iniziato brontolando, si era a poco a poco alzato di tono fino a diventare una minaccia. E non capiva in qual modo avesse fatto l’Agata per passare così rapidamente dalla condizione di accusata a quella di accusatrice, girando la questione in guisa che il punto di partenza era scomparso affatto. Tuttavia, persuaso che un buon ragionamento aggiusta ogni cosa, si arrischiò a incominciarlo così:
— Ragazza mia tu manchi di logica.
Ma l’Agata non lo lasciò proseguire. Rompendo in uno scoppio di pianto e implorando l’anima della defunta padrona, che almeno quella di parolacce non glie ne aveva mai dette, uscì sbattendosi dietro l’uscio.
— Forse – argomentò il valent’uomo grattandosi un orecchio – avevo torto, per il passato, quando mi pareva che Bettina non usasse la debita pazienza. L’affare è più serio di quanto credessi. Sicuro, sicuro. Il male è che non vi sono termini fissi, nè giusta proporzione di piani, poichè è ben vero che i padroni comandano, ma non è detto che i servitori obbediscano; ovverossia è detto ma non fatto; ovverossia ancora il fatto quando avviene è come certe operazioni nelle quali l’operatore trionfa ma l’operato muore.
Contento della sua piccola diagnosi psichica e con quel felice potere di astrazione che hanno i pensatori, Spiridione Tomei si persuase di sfuggire alle noie domestiche comperando dodici paia di calze nuove e non pensandoci più.
Si sprofondò allora tutto quanto nel lavoro al quale voleva confidare la gloria maggiore del suo nome: «La coscienza nei rapporti colla volontà». L’ora per lui propizia alla occupazione intellettuale essendo quella che segue immediatamente il levarsi, aveva raccomandato all’Agata di scaldargli bene la stufa del suo studiolo e per alcuni giorni la faccenda camminò liscia. Poi a poco a poco avvennero dei ritardi, insensibili dapprima, notevoli in seguito e sempre crescenti.
— Agata, questa mattina il termometro del mio studiolo misurava sei gradi di calore. È indispensabile che tu accenda la stufa più presto.
— Non posso mica accenderla di notte.
— Nè vorrei. Ma dopo la notte viene l’alba, poi il mattino fatto, e mi pare che per le nove si potrebbe avere una discreta temperatura.
— Alle otto è ancora buio, miracoli non ne fa nessuno.
Egli avrebbe potuto provarle che non c’era bisogno di miracoli per esaudire il suo modesto desiderio; tuttavia preferì aspettare tempi migliori, per amor della pace.
Verso la metà di febbraio, essendo nevicato sui monti, l’aria fattasi più frizzante che mai e lo studiolo a nove ore ancora freddo, egli arrischiò l’osservazione che le giornate essendosi allungate il miracolo di tenere la stufa calda per le nove non era proprio di quelli che possono pretendere alla canonizzazione.
E sorrise dello scherzo innocente, soddisfatto di poter temperare con esso l’insistenza della richiesta. Ma l’Agata non la prese per questo verso.
— Mi faccia il piacere! – esclamò con quanto maggior disdegno potè raccogliere sulla sua faccia di mela cotogna –: come può ella sapere che le giornate si sono allungate se si alza che è giorno fatto?
A tale incredibile sortita Spiridione Tomei eresse le braccia al cielo e ve le tenne un istante, quasi la terra gli traballasse sotto e andasse annaspando un sostegno lassù; poi lasciandole cadere con una espressione così compunta e rassegnata che avrebbe ammansato il furore di un tribuno popolare, con una voce dolce dolce, ammonendo sè stesso del dovere che incombe a chi sa di istruire coloro che non sanno, rispose:
— Senti, ragazza. Tralasciando certi calcoli per te difficili basta guardare il doppio Pescatore di Chiaravalle per sapere che col mese di febbraio il sole entra in Pesci e il giorno cresce al sei di ore 1,18, al dodici di 1,34, ecc. Oggi siamo al sedici e mi pare….
— Oh! – interruppe l’Agata seccata –: queste sono sciocchezze. Nè lei nè il Pescatore di Chiaravalle possono sapere quanto tempo occorre per riordinare una casa.
— Ma che le giornate si allungano sì. Lo diceva anche mia sorella, ti ricordi? A Sant’Antonio un’ora buona.
— Come non si lavorasse già abbastanza, c’è proprio bisogno di far crescere le ore.
— Ma no, non è così, dà retta….
— Non v’è peggior mestiere che quello di servire.
— Infatti, c’è anche una musica su queste parole. Ma dà retta, tutto si può aggiustare con della buona volontà.
— …. fin da quando – interruppe l’Agata seguendo il suo furore – mia madre mi mandava a attingere acqua lontano un chilometro con una secchia pesante che mi faceva traballare spargendo l’acqua su tutta la strada, che poi ne pigliavo delle busse e alla mattina dovevo alzarmi col canto del gallo….
— Vedi? Vedi? – interruppe a sua volta. Spiridione Tomei sembrandogli di avere afferrato un buon argomento per dimostrarle che la di lei condizione come si era già avvantaggiata poteva migliorare ancora. – Ma sì, acchiappa una vespa a volo se ti riesce!
— E se non le accomoda il mio servizio lo dica subito che per me me ne vado senza un rammarico al mondo.
— Eccoti, secondo il solito, fuori d’argomento. Non si parlava del giorno che cresce? E dunque che c’entrano le minaccie?
— La colpa è sua.
— Mia?
— Sua, sua.
— Agata, fammi il piacere….
— Oh! la finisca. Vuole che glie la dica? Con lei non si può ragionare.
Cercando un libro sull’alto palchetto della sua libreria, Spiridione Tomei era caduto una volta da una scala a piuoli e ne aveva risentito un forte intontimento al cervello; e un’altra volta, ancora ai tempi del collegio, un compagno gli aveva assestato un colpo di regolo sulla nuca che dopo aver visto quelle stelle mai più sperava di rivederne altre; ma tutto ciò era nulla in confronto allo stupore sbalorditivo da cui fu preso l’onesto filosofo quando l’Agata gli ebbe scagliata contro l’accusa di non saper ragionare.
— Si passa il segno, si passa il segno, – mormorò egli tra sè tamburellando colle dita sui vetri della finestra alla quale si era avvicinato mentre l’altra si allontanava nel trionfo della sua ultima frecciata.
Fu precisamente allora che gli venne la prima ispirazione di quell’ironico opuscolo «L’ignoranza forma di indipendenza» che ebbe un sì largo successo, specialmente perchè non si conosceva Spiridione Tomei come umorista. Un uomo per quanto filosofo prova in qualche momento della sua vita il bisogno di sfogarsi di un sopruso o di una ingiustizia o di una villania.
Così Spiridione si liberò dell’amarezza versatagli in cuore dall’Agata scrivendo un opuscolo – mite vendetta di intellettuale – e da allora, ogni qual volta i suoi occhi cadevano sulla ragazza li acuiva in uno sguardo malizioso e gonfiando le gote tratteneva giubilando uno scoppio di risa. Non avrà riso forse anche Michelangelo dopo di avere disegnato sulle pareti della Cappella Sistina l’effigie del suo detrattore nientemeno che nel ceffo del diavolo?
A primavera avanzata, quando il sole entrava di buon’ora nell’appartamento e la glicine del giardino mandava il suo saluto olezzante fin dentro le finestre, l’Agata si decise ad alzarsi presto. Giusto allora che non c’era più bisogno di accendere la stufa. Il guaio però stava questa volta negli zoccoli dell’Agata che trotterellando innanzi e indietro turbavano il suo padrone in quell’ultima ora di sonno tanto benefica per un cervello affaticato.
— Agata, se volessi smettere gli zoccoli mi faresti una carità fiorita. Io me li sento penetrare alla mattina tra il sonno e la veglia come tanti chiodi nella testa.
— Che c’entro io se lei ha la testa debole? Devo forse andare a piedi nudi?
Egli non stette a rilevare la solita esagerazione della frase, pur deplorando che ognuna delle sue osservazioni fosse accolta con una scarica di artiglieria, e si accontentò di soggiungere con semplicità che vi sono altre forme di calzature oltre gli zoccoli. Naturalmente l’Agata saltando di palo in frasca arrancò subito una dozzina di scuse una più strampalata dell’altra, col razzo finale delle lagrime perchè «le si voleva negare a lei poveretta che era orfana e senza appoggi quel po’ di economia escogitata surrogando agli stivaletti costosi gli zoccoli a buon prezzo». Il colpo toccò il centro. Spiridione Tomei che era di cuore tenero si rassegnò al tacchettio degli zoccoli pensando ad ogni protesta dei nervi: «È un soldo che quella poveretta risparmia per la sua vecchiaia».
Pochi giorni dopo era Pasqua ed egli aveva lasciata libera la sua domestica di andarsela a spassare a proprio agio. Credeva che fosse già uscita di casa quando, avendo bisogno di un po’ d’acqua per bagnare la gomma, andò lui stesso in cucina a prenderla e nell’attraversare un corridoio non troppo illuminato cozzò improvvisamente contro uno di quegli immensi cappelli femminili che egli aveva bensì incontrato in istrada ma la cui presenza in casa sua doveva colmarlo di stupore.
— Prego, signora…. scusi…. a che posso attribuire….
Egli strisciava contro il muro, rimpicciolendosi per far posto alla catapulta di nastri e di piume che aveva minacciato l’integrità della sua fronte, ma di sotto a quella macchina di guerra scoppiò un tale scompisciamento di risa sciocche, irriverenti, aggressive, che tutto il sangue gli si rivoltò nelle vene.
— Come! Sei tu? In maschera!
— Che maschera d’Egitto! – rispose l’Agata –: è anche diventato orbo?
— Ma quel cappello?
— Ebbene?
— Tu col cappello?
— E perchè no? Non porta il cappello lei?
Ecco, gli argomenti oratorî di quella ragazza erano così bizzarri, così pieni di imprevisto, che l’uomo di studi ne rimaneva sempre un po’ allocchito e non trovava subito la replica. Gli faceva l’effetto di aver ricevuto un pugno di sabbia negli occhi. Finalmente si credette sicuro di possedere la rimbeccata giusta:
— Ma io non porto gli zoccoli.
— Lei non incominci a confondere le idee, – disse l’Agata colla maggior disinvoltura, – e mi lasci passare.
Il contegno sprezzante della ragazza, poichè giunge un momento in cui anche la pazienza di un santo si esaurisce, faceva prudere le mani a Spiridione Tomei. Ciò che lo feriva soprattutto, che gli faceva veramente male, era quella mancanza assoluta di raziocinio congiunta a tanta impudenza. Sperò ancora di convincerla colle buone:
— Vedi, bisogna essere coerenti. O sei povera o non lo sei.
— Quanti discorsi inutili!
— No, che non sono inutili se volessi darti solamente la pena di riflettere.
— Mi lasci andare che ho fretta.
Il tacchettio degli zoccoli passò in quel momento attraverso la mente del filosofo come una canzone di scherno.
— Allora non porterai più gli zoccoli?
— Porterò quello che mi pare e piace.
— Ragioni col cervello di un infusorio.
— E la finisca di insultarmi, altrimenti le dirò che è un villano.
Questa volta egli credette proprio di commettere uno sproposito mentre ella salvandosi nelle profondità del corridoio continuava a gridare come un’ossessa. Tutto il suo passato di prudenza, di moderazione, di compatimento, gli insorse contro dandogli un tale sapore di amarezza che comprese in quell’istante di quanto sollievo possa essere il gesto ampio di uno schiaffo Ciac!
E così, all’improvviso, come sorgono talora non cercate le memorie più lontane, si risovvenne di certe studentesche battaglie nei tempi in cui stava alle prese coll’abborrita matematica; e una parola nella quale aveva condensato tutta la sua avversione, che era stata la sua invettiva maggiore per confondere un avversario, gli balenò dinanzi col tentante invito di una lama snudata. Le piume del cappello dell’Agata ondeggiavano ancora sotto l’arco del corridoio quando sibilò sovr’esse con terribile scoppio di voce questo oscuro anatèma:
— Ipotenùsa, va!
Spiridione Tomei si era vendicato come aveva potuto.
Fine.
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Ipotenùsa, va!
AUTORE: Neera
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: La sottana del diavolo/ di Neera – Milano : Fratelli Treves, 1912
SOGGETTO: FIC004000 FICTION / Classici