Il cuore di una donna indiana

di
Jack London

tempo di lettura: 19 minuti


Fuori faceva un gran freddo. Quarantotto ore prima il termometro a spirito si era rotto a 60° sotto zero, e da quel momento la temperatura non aveva fatto che abbassarsi. Non era possibile prevedere quando sarebbe finita l’ondata di freddo. E in momenti simili non è bene avventurarsi lontano dalla stufa, o aumentare la quantità d’aria diaccia che si respira. Occupavamo perciò il tempo fumando e raccontandoci vicendevolmente le nostre storie.

Quando toccò a Sitka Charley incominciò così:

— Ho in mente qualcosa che accadde quando questa terra era giovane e i fuochi degli uomini erano distanti l’uno dall’altro come le stelle. Fu allora che ebbi a che fare con un uomo grosso, e con una donna piccina; ma il cui cuore era più grande del cuore di bue dell’uomo, ed ella era piena di coraggio. Viaggiammo su una pista faticosa, fino al mare, col freddo intenso, la neve alta, la fame acuta. E l’amore della donna era un amore possente: non si può dire più di questo.

«Fratelli, il mio sangue è metà indiano, ma il mio cuore è bianco. Devo il primo alle colpe dei miei padri, devo l’altro alle virtù dei miei amici. Ero ancora ragazzo quando mi si rivelò una grande verità. Appresi che la terra era stata assegnata alla vostra razza; che i Siwach non potevano resistere a voi, e che, come il caribù e l’orso, essi dovevano perire nel freddo. Così entrai al caldo e mi misi a sedere in mezzo a voi, davanti ai vostri fuochi, ed ecco, divenni uno dei vostri. Al tempo mio, ho veduto molto, ho conosciuto delle cose singolari, ho viaggiato su piste ignote, con uomini di molte razze. E a causa di tutto questo, io misuro le azioni umane alla vostra maniera; alla vostra maniera giudico gli uomini e rifletto. Perciò, se parlo aspramente di uno della vostra razza, sapete che le mie parole non contengono ingiuria, e se esalto uno del popolo di mio padre, non penserete: «Sitka Charley è un siwash, e ha una luce falsa negli occhi e la lingua forcuta», non è vero?

Il cerchio di ascoltatori emise un brontolio di assenso in fondo alla gola.

— La donna era Passuk. La comprai onestamente dai suoi, che erano della costa. Il mio cuore non volò alla donna, nè io mi curai del suo aspetto; ella sollevava appena gli occhi dal suolo ed era timida e imbarazzata, come accade delle ragazze quando le gettano nelle braccia di un estraneo, che esse non hanno mai veduto prima. Come dico, non c’era posto per lei nel mio cuore, perchè avevo in mente un gran viaggio, e avevo bisogno di una che desse da mangiare ai cani, e sollevasse una pagaia per me durante i lunghi giorni sul fiume. Una coperta doveva bastare per due, e perciò scelsi Passuk.

«Non vi ho detto che in quell’epoca ero un servo del Governo? Se no, è bene che lo sappiate ora. Fui mandato dunque su una nave da guerra, con slitte e cani e viveri in conserva, e con me venne Passuk. E andammo a nord, ai ghiacci invernali del mare di Behring, dove fummo sbarcati, io e Passuk e i cani. Mi diedero del denaro del Governo, perchè io ero un suo servo, una carta di quelle terre sconosciute agli uomini, e vari messaggi, sigillati e abilmente protetti dalle intemperie. Io dovevo consegnarli alle baleniere dell’Artico, assediate dai ghiacci alla foce del grande Mackenzie. Non ho mai veduto un fiume così vasto, a parte il nostro Yukon, il padre di tutti i fiumi.

«Ma tutto questo importa poco: la mia storia non ha a che fare con le navi baleniere, nè con l’inverno che passai sui ghiacci alla foce del Mackenzie. In seguito, a primavera, quando i giorni si allungarono e cominciò a formarsi una crosta sulla nave, venimmo a sud, Passuk e io, alla contrada dello Yukon. Un viaggio faticoso, ma il sole c’indicava il cammino. In quell’epoca era una terra nuda, come ho detto, e noi risalimmo la corrente con il palo e la pagaia, finchè giungemmo a Forty Mile. Era bello rivedere dei visi bianchi, e così accostammo alla riva. Ma quell’inverno fu durissimo: le tenebre e il freddo caddero su noi, e con essi la carestia. A ciascun uomo, l’agente della Compagnia dava quaranta libbre di farina e venti di lardo. Non c’erano fagiuoli, i cani urlavano sempre, non si vedevano che cinture tirate sul ventre e facce smagrite, gli uomini forti s’indebolivano, i deboli morivano. Per colmo di sfortuna, scoppiò lo scorbuto.

«Allora andammo tutti al magazzino, e gli scaffali vuoti ci fecero sentire ancora di più lo stomaco vuoto. Parlammo a bassa voce, alla luce del fuoco, perchè le candele erano state messe da parte per quelli che fossero ancora in vita a primavera. Fu tenuta una discussione, e si disse che un uomo doveva andare al mare, per dire al mondo della nostra miseria. A questo tutti gli occhi si voltarono verso di me, perchè si sapeva che io ero un gran viaggiatore.

«—– Sono settecento miglia – dissi – fino alla Missione Haines lungo il mare, e ogni pollice di cammino è lavoro di racchette. Datemi il meglio dei vostri cani, il meglio dei vostri viveri, e andrò. E con me verrà Passuk.

«Accettarono. Ma allora si alzò Long Jeff, uno yankee dalla grossa ossatura e dai grossi muscoli. Anche le parole che pronunciava erano grosse. Era anche lui un grande viaggiatore, disse, nato per la racchetta e allevato con latte di bufalo. Sarebbe venuto con me, nel caso che io cadessi lungo la pista, per portare la richiesta di soccorso alla Missione Haines. Io ero giovane, e non conoscevo gli yankees. Inoltre, come potevo immaginare che le parole grosse erano sintomo dello strato di grasso, o che gli yankees che compivano grandi gesta tenevano chiuse le labbra? Prendemmo dunque il meglio dei cani e il meglio dei viveri, e c’incamminammo sulla pista, noi tre: Passuk, Long Jeff e io.

«Ebbene, voi avete aperto la neve vergine, avete lavorato al palo di direzione e non vi sono ignoti i cumuli di ghiacci del fiume. Perciò parlerò poco della fatica, limitandomi a dire che alcuni giorni percorrevamo dieci miglia, altri trenta, ma più spesso, dieci. E il meglio dei viveri non valeva nulla mentre noi eravamo deboli fin dal momento della partenza. Così pure il meglio dei cani era meschino, e noi dovevamo faticar molto e tenerli in piedi. Al Fiume Bianco le nostre tre slitte erano ridotte a due, e avevamo percorso appena duecento miglia. Ma non sciupammo nulla; i cani che abbandonavano le tirelle andavano nel ventre di quelli che restavano.

«Non un’anima, non un filo di fumo, finchè raggiungemmo Pelly. Là avevo contato di rifornirmi, e là avevo contato di lasciare Long Jeff, che piagnucolava ed era indolenzito dalla pista. Ma il fattore aveva i polmoni congelati, gli occhi ardenti, il magazzino quasi vuoto; e ci fece vedere il magazzino vuoto del missionario, oltre alla tomba di lui, con un alto mucchio di pietre per tener lontani i cani. In quella località c’era anche una tribù di indiani, ma non c’erano bambini nè vecchi, e si vedeva subito che ben pochi sarebbero vissuti fino a primavera.

«Proseguimmo, dunque, con lo stomaco leggero e il cuore pesante, per affrontare le cinquecento miglia di neve e di silenzio che ci separavano dalla Missione Haines lungo il mare.

«Era la stagione delle tenebre più profonde: a mezzogiorno il sole non riusciva a sollevarsi sopra l’orizzonte a sud; ma i cumuli di ghiacci erano più piccoli, il cammino più agevole. Così incitavo i cani e viaggiavo per lunghissime ore ogni giorno. Come avevo detto a Forty Mile, ciascun pollice di cammino richiedeva un lavoro di racchette. E le racchette formavano ai piedi delle piaghe che si screpolavano e si coprivano di croste, ma non si rimarginavano. Ogni giorno quelle piaghe divenivano più dolorose, al punto che la mattina, quando calzavamo le racchette, Long Jeff piangeva come un bambino. Lo misi davanti alla prima slitta per aprir la pista, ma egli si tolse le racchette per non faticar troppo. A causa di questo la pista non era compressa, i suoi mocassini formavano dei grandi buchi, nei quali sprofondavano i cani. Questi avevano le ossa che minacciavano di uscir dalla pelle, e una simile maniera di marciare non era buona per loro. Così rivolsi delle parole dure a quell’uomo, il quale promise e violò la parola. Allora lo picchiai con la frusta dei cani, e dopo questo gli animali non sprofondarono più nelle buche. Egli era come un bambino, a causa di ciò che soffriva e dello strato di grasso che aveva addosso.

«Ma volevo dirvi di Passuk. Mentre l’uomo giaceva disteso accanto al fuoco e piangeva, ella cucinava e la mattina aiutava a caricare le slitte e la sera a scaricarle. E fu lei a salvare i cani. Ella era sempre davanti, che sollevava le grandi racchette e spianava il cammino alle slitte. Passuk… come dirò?… mi sembrava ovvio che dovesse comportarsi in quella maniera, e non le dedicavo un pensiero. Perchè il mio spirito era occupato in altre faccende, e inoltre io ero giovane di anni e sapevo poco della donna. Solo guardando indietro sono venuto a comprendere.

«E l’uomo divenne indegno. I cani avevano poca forza, ma egli si faceva ogni tanto trasportare di nascosto, quando si trovava alla retroguardia. Passuk disse che avrebbe preso lei l’unica slitta, in maniera che l’uomo non avesse più nulla da fare. La mattina io gli davo la sua parte di viveri e lo facevo partire solo sulla pista. Poi la donna ed io toglievamo il campo, caricavamo le slitte, e bardavamo i cani. A mezzogiorno, allorchè il sole si affacciava con aria beffarda sull’orizzonte, raggiungevamo l’uomo che si trascinava con le lagrime gelate sulle guance e lo sorpassavamo. La sera piantavamo il campo, gli mettevamo da parte la sua razione di viveri, e distendevamo le sue pellicce. Accendevamo inoltre un gran fuoco, affinchè potesse servirgli di guida. E dopo molte ore, egli arrivava zoppicante, mangiava tra gemiti e lamenti, e si addormentava. Non era malato, quell’uomo. Era solo indolenzito dalla pista, e stanco, e debole per la fame. Ma Passuk ed io eravamo anche noi indolenziti dalla pista e stanchi e deboli per la fame; eppure noi eseguivamo tutto il lavoro, mentre lui non faceva nulla.

«Poi un giorno incontrammo due fantasmi che viaggiavano in mezzo al Silenzio. Erano un uomo e un ragazzo, due bianchi. Il ghiaccio si era rotto sul lago Le Barge, e nel lago era sprofondata la maggior parte del loro equipaggiamento. Ciascuno di essi portava una coperta sulle spalle. La sera costruirono un fuoco e si distesero per dormire fino alla mattina. Possedevano un po’ di farina. La scioglievano con l’acqua calda e la bevevano. L’uomo mi fece vedere otto tazze di farina: tutto ciò che restava loro. E Pelly, in preda alla carestia, si trovava a duecento miglia di distanza. Dissero inoltre che s’erano lasciati dietro un indiano; che avevano diviso in parti uguali i viveri, ma che egli non aveva potuto sostenere il loro passo. Io non prestai fede alle loro parole, perchè se avessero diviso in parti uguali, l’indiano avrebbe proseguito con loro. Ma non potei dar loro delle provvigioni. Essi tentarono di rubare un cane – il meno scheletrito – ma io spianai la pistola e disse loro di andarsene. E se n’andarono, come due ubbriachi, in mezzo al Silenzio verso Pelly.

«Mi restavano ormai tre cani e una sola slitta, e i cani erano ridotti a pelle e ossa. Quando c’è poca legna, il fuoco arde basso e la capanna si raffredda. Così è per noi. Con poco cibo, il freddo morde le carni; e avevamo il viso nero e gelato, al punto che le nostre madri non ci avrebbero riconosciuti. E avevamo i piedi malati. La mattina, quando mi rimettevo in cammino, sudavo per trattenere il grido di sofferenza che mi strappavano le racchette. Passuk non apriva mai bocca, ma camminava sempre avanti per aprire la pista. L’uomo urlava.

«Il fiume Thirry Mile era rapido, la corrente corrodeva il ghiaccio dal disotto, e c’erano molte tasche d’aria e crepacci, e molta acqua aperta. Un giorno raggiungemmo Long Jeff, che si riposava: perchè la mattina era andato avanti come il solito. Ma l’acqua aperta ci separava da lui. Egli l’aveva superata facendo il giro lungo una cornice di ghiaccio, che però era troppo stretta per dar passaggio alla slitta. Trovammo invece un ponte di ghiaccio. Passuk pesava poco, e andò per prima, con un lungo palo tenuto orizzontalmente tra le mani, per sostenersi sul ghiaccio nel caso che questo cedesse sotto di lei. Ma ella era leggera, aveva delle larghe racchette, e passò incolume. Allora chiamò i cani. Ma questi non avevano né pali né racchette, il ghiaccio si ruppe, ed essi precipitarono in acqua. Io mi aggrappai forte alla slitta. Alla fine le tirelle si spezzarono e i cani furono trascinati sotto il ghiaccio. Avevano poca carne addosso, ma io contavo su loro per fornirci di che mangiare durante una settimana, ed eccoli spariti.

«La mattina seguente divisi gli scarsi viveri in tre parti uguali. E dissi a Long Jeff che poteva proseguire con noi o andarsene per conto suo, come meglio gli pareva. Perchè, ora che avevamo perduta la slitta, noi avevamo intenzione di accelerare la marcia. Ma egli elevò la voce, pianse per i suoi piedi malati e per le sofferenze che pativa, pronunciò delle parole dure contro il cameratismo. Anche noi avevamo i piedi malati; più di lui, anzi, perchè noi avevamo lavorato con i cani. Long Jeff giurò che sarebbe morto prima di rimettersi sulla pista; al che Passuk prese una coperta di pelliccia e io una pentola e un’ascia, e ci preparammo a partire. Ma ella guardò la porzione dell’uomo e disse:

«— È un peccato sciupare del buon cibo per costui. È meglio che muoia.

«Io scossi la testa e dissi di no: che non si abbandona un camerata. Allora ella parlò degli uomini di Forty Mile; e che erano generosi e buoni; e che contavano su me per avere dei viveri in primavera. Ma quando io dissi ancora di no, ella mi strappò la pistola dalla cintola, con un gesto fulmineo, e Long Jeff andò al seno di Abramo prima della sua ora. Sgridai Passuk, ma ella non mostrò alcun dolore, alcun pentimento. E in fondo al cuore io sapevo che aveva fatto bene».

Sitka Charley tacque e gettò dei pezzi di ghiaccio nella scodella sulla stufa. Gli uomini restarono muti, e un brivido corse loro giù per la schiena quando udirono le grida singhiozzanti dei cani, che davano voce alla loro miseria nel freddo esterno.

— Giorno per giorno – riprese il narratore, – Passuk ed io incontravamo i campi dove avevano dormito i due fantasmi, e saremmo stati contenti di continuare a incontrarli finchè avessimo raggiunto il mare. Poi c’imbattemmo nell’indiano che camminava come un’altra ombra, con la faccia rivolta a Pelly. I due uomini non avevano diviso i viveri in parti uguali, ci disse l’indiano, il quale non mangiava da tre giorni. Ogni sera egli bolliva dei pezzetti dei suoi mocassini, e li masticava. Ma anche il cuoio stava per finire. Era un indiano della costa, e mi disse questi particolari per il tramite di Passuk, che parlava la sua lingua. Straniero sullo Yukon, egli non conosceva il cammino, ma aveva la faccia rivolta a Pelly. Quant’era lontano? Due giorni? Dieci? Cento?… Non lo sapeva. Andava a Pelly, ecco tutto. Si trovava troppo lontano, ormai, per tornare indietro.

«Non domandò dei viveri, perchè vedeva che anche noi eravamo a corto. Passuk guardò l’uomo, e poi me, come combattuta tra due idee, simile a una pernice madre, che vede in pericolo due dei suoi piccini e non sa quale salvare. Allora mi voltai a lei e dissi:

— Hanno trattato male quest’uomo. Gli daremo una parte dei nostri viveri?

«Le vidi brillare gli occhi, come per una gioia improvvisa, ma guardò a lungo l’uomo, poi me, e le labbra si serrarono e s’indurirono, e disse:

«No. Il mare è lontano, e la Morte è in agguato. Meglio che prenda questo straniero e lasci passare il mio uomo, Charley.

«Così l’indiano proseguì in mezzo al Silenzio, verso Pelly. Quella sera Passuk pianse. Io non l’avevo mai veduta piangere, nè le lagrime scorrevano per il fumo del fuoco, perchè la legna era ben secca. Mi meravigliai dunque di quel dolore, e immaginai che il suo cuore di donna si fosse intenerito per le tenebre della pista e per la sofferenza.

«La vita è una cosa singolare. Vi ho riflettuto molto, vi ho meditato a lungo, eppure ogni giorno la stranezza di essa non diminuisce, ma aumenta. Perchè questa brama per la vita? È un giuoco nel quale nessuno vince mai. La vita è un faticare duramente, un soffrire profondamente, finchè la vecchiaia ci piomba addosso e ci fa cadere con le mani sulle ceneri fredde del fuoco spento. È duro, vivere. Con dolore il neonato respira per la prima volta; divenuto vecchio, con dolore esala l’ultimo anelito, e tutti i suoi giorni sono stati pieni di angustia e di dolore; eppure egli avanza verso le braccia aperte della morte, inciampando, cadendo, distogliendo lo sguardo, lottando fino all’ultimo. La morte è buona; solo la vita e i fatti della vita fanno male; eppure amiamo tutti la vita, e odiamo la morte. È una cosa singolare.

«Parlavamo poco, Passuk ed io, nei giorni che seguirono. La sera ci sdraiavamo sulla neve come persone morte, e come persone morte riprendevamo la pista la mattina dopo. E la vita era scomparsa dal mondo. Non c’era una pernice, non uno scoiattolo, non un coniglio delle nevi: nulla. Il fiume scorreva muto sotto la sua veste bianca, la linfa era gelata nella foresta. E faceva freddo, come ora. Di notte le stelle sembravano ingrandirsi, avvicinarsi, e balzavano e danzavano; di giorno i falsi soli del perigeo ci beffavano, finchè ne vedevamo tanti e tanti, e tutta l’aria lampeggiava e sfavillava, e la neve era polvere di diamanti. E non c’era calore, nè suono: solo il freddo amaro e il silenzio. Come dico, marciavamo simili ad ombre, quasi in sogno, e non tenevamo più il conto del tempo. Solo il nostro viso era rivolto al mare, verso il quale si protendeva la nostra anima e ci trasportavano i nostri piedi. Ci accampammo lungo il Takheena, ma senza saperlo. I nostri occhi si posarono sul turbinio di acque del Cavallo Bianco, ma senza vederlo. I nostri piedi calpestarono il passaggio del Canyon, ma senza accorgersene. Non sentivamo nulla. Spesso cadevamo lungo il cammino, ed era sempre col viso rivolto al mare.

«Finì l’ultima razione. Avevamo diviso lealmente, Passuk e io, ma ella cadeva più spesso, e al bivio del Caribù le forze l’abbandonarono del tutto. E la mattina eravamo sotto l’unica coperta, ma non riprendemmo la pista. Avevo in mente di restar là per attendere la morte accanto a Passuk; perchè ero invecchiato, e avevo appreso l’amore della donna. Inoltre, ci trovavamo a ottanta miglia dalla Missione Haines, e tra noi e il mare, il grande Chilcoot innalzava al cielo la sua cima battuta dalle tempeste. Ma Passuk mi parlò, a voce così bassa, che dovetti accostar l’orecchio alle sue labbra. E quella volta, poichè non aveva più da temere la mia collera, parlò secondo il suo cuore, mi disse del suo amore e di tante cose che io non comprendevo.

«Disse: – Tu sei il mio uomo, Charley, e io sono stata una buona donna, per te. E in tutti i giorni ti ho preparato il fuoco, ti ho cucinato il cibo, ho dato da mangiare ai tuoi cani, ho sollevato la pagaia, ho aperto la pista, senza mai un lamento. Nè ho mai detto che c’era più caldo nella tenda di mio padre, o che c’era più cibo sul Chilcat. Quando tu mai parlato, io ho ascoltato. Quando hai comandato, ho ubbidito. Non è vero, Charley?

«E io dissi: – Sì, è vero.

«Ed ella disse: – Quando venisti la prima volta al Chilcat, senza guardarmi, ma comprandomi come si compra un cane, e mi portasti via, il mio cuore era duro contro di te, era pieno di amarezza e di paura. Ma questo è stato tanto tempo fa. Perchè tu sei stato buono con me, Charley, come si è buoni col proprio cane. Il tuo cuore era freddo, e non c’era posto; eppure mi trattavi bene e le tue maniere erano giuste. Ed io sono stata al tuo fianco quando hai compiuto atti audaci, e hai affrontato grandi venture. Ti ho misurato al confronto di uomini di altre razze, e ho veduto che stavi in mezzo ad essi pieno d’onore, che la tua parola era saggia, la tua lingua sincera. E sono stata orgogliosa di te al punto che tu hai riempito tutto il mio cuore, e tutti i miei pensieri sono stati per te. Tu eri come il sole a metà dell’estate, quando gira in un cerchio, e non abbandona mai il cielo. Da qualunque parte si rivolgano gli occhi si vede sempre il sole. Ma il tuo cuore era sempre freddo, Charley, e non c’era posto.

«E io dissi: È vero. Era freddo e non c’era posto. Ma questo è passato. Ora il mio cuore è come la neve caduta in primavera, quando è tornato il sole. È venuto il disgelo, un mormorìo di acque, un fremito di germogli. Ode la voce delle pernici, e il canto dei pettirossi, e una grande musica: perchè l’inverno è spezzato Passuk, e io ho appreso l’amore della donna.

«Ella sorrise, facendomi cenno di avvicinarmi di più. E disse: – Son contenta – Dopo questo, giacque tranquilla per un lungo momento, respirando adagio, con con la testa sul mio petto. Poi mormorò: – La pista finisce qua, e io sono stanca. Ma prima vorrei parlare di altre cose. Tanto tempo fa, quando ero bambina sul Chilcat, giocavo sola tra le balle di pelli nella tenda di mio padre; perchè gli uomini erano andati a caccia, e le donne e i ragazzi lavoravano a trasportare la carne. Era primavera, e io mi trovavo sola. Un grande orso bruno, allora ridestatosi dal sonno invernale, affamato, con la pelliccia penzolante a grosse pieghe sulle ossa, insinuò la testa nella tenda e disse: «Uf!». Mio fratello tornava allora con la prima slitta di carne. Egli tenne a bada l’orso con i rami accesi del fuoco, mentre i cani, ancora bardati, ancora attaccati alla slitta, si gettavano sulla belva. Scatenarono una grande battaglia e un tumulto senza fine, rotolarono nel fuoco; le balle di pelli furono sparpagliate, la tenda abbattuta. Ma alla fine l’orso giacque morto, conservando in fondo alla gola le dita di mio fratello, che aveva sul viso i segni dei suoi artigli. Hai osservato l’indiano sulla pista di Pelly, con un guantone senza pollice, hai veduta la sua mano, quando l’ha riscaldata al nostro fuoco? Era mio fratello. Gli ho rifiutato da mangiare, ed egli è andato nel Silenzio, senza cibo.

«Questo, fratelli, era l’amore di Passuk, che morì sulla neve al bivio del Caribù. Era un amore possente, perchè ella rinnegò il fratello per l’uomo che la conduceva lontano, su un cammino faticoso, verso una fine crudele. E di più – tale era l’amore di questa donna – aveva rinnegato se stessa. Prima che gli occhi le si chiudessero per l’ultima volta, mi prese la mano e l’insinuò sotto la sua giacca di pelle di scoiattolo. Sentii alla cintola una borsa ben piena, e compresi alla fine perché si era così indebolita. Giorno per giorno, avevamo diviso in parti uguali, fino all’ultimo boccone. E giorno per giorno, ella aveva mangiato solo metà della sua parte. L’altra metà era andata a finire nella borsa ben piena.

«Mi disse: – questa è la fine della pista, per Passuk; ma la tua pista, Charley, conduce ancora avanti, sopra il grande Chilcot, fino alla Missione Haines, lungo il mare. Essa conduce sempre avanti, illuminata da molti soli, su terre sconosciute, su acque straniere: è lunga, piena di onore e di gloria. Essa conduce alle case di molte donne, di donne buonissime, ma non ti condurrà mai a un amore più grande di quello di Passuk.

«E io sapevo che la donna diceva il vero. Ma una pazzia m’invase subitamente, e gettai lontano da me la borsa ben piena, giurando che la mia pista aveva raggiunto la fine. Gli occhi stanchi le si velarono di lagrime, e disse:

«— Tra gli uomini, Sitka Charley ha sempre camminato con onore, la sua parola è stata sempre sincera. Egli dimentica ora l’onore, e pronuncia delle parole vane al bivio del Caribù? Non rammenta più gli uomini di Forty Mile, che gli hanno dato il meglio dei loro viveri e dei loro cani? Passuk è stata sempre fiera del suo uomo. Egli si levi in piedi, calzi le racchette, e riprenda la pista, se non vuol perdere la stima di Passuk.

«E quando ella divenne fredda fra le mie braccia, mi rialzai, ricercai la borsa ben piena, calzai le racchette, mi avviai barcollante lungo la pista perchè avevo le ginocchia deboli, la testa mi girava, e percepivo un ruggito nelle orecchie, dei lampi di fuoco davanti agli occhi. Tuttavia, guidato dallo spirito di Passuk, giunsi alla Missione Haines, lungo il mare».

Sitka Charley sollevò i lembi della tenda. Era mezzogiorno. A sud, appena affacciato sopra la catena nera dell’Henderson, si mostrava il disco freddo del sole. L’aria era un velo scintillante di gelo. In primo piano, accanto alla pista, un cane lupo, coi peli irti per il freddo, sollevò il muso e lanciò al cielo il suo lugubre ululato.

Fine.


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TITOLO: Il cuore di una donna indiana
AUTORE: Jack London

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: La legge della vita : dai volumi: The God of his fathers, Children of the frost, e altri di J. L. / edizione 1939-17. - Milano : Sonzogno, 1938 (Tip. A. Matarelli). - 252 p. ; 16.

SOGGETTO: FIC002000 FICTION / Azione e Avventura