Ritratto di Michael Connelly

Intervista a Michael Connelly
di Luca Crovi / Sebastiano Pezzani

È successo tutto dopo il Festival della Letteratura di Mantova: la nostra intervista a George Pellecanos infatti ci ha messo sulle tracce di un altro grande del thriller internazionale, Michael Connelly che si è raccontato a cuore aperto il 4 e 5 dicembre 2004 a Tutti i colori del giallo. Il celeberrimo scrittore americano ha parlato a lungo del suo mestiere di cronista di nera, delle sue passioni per il cinema e la letteratura e ha persino anticipato le prime pagine di un suo romanzo inedito in Italia, The Narrows. Siete pronti ad esplorare con noi il cuore nero della sua Los Angeles?

Salve. Parlano Seba Pezzani e Luca Crovi dalla RAI, la radiotelevisione italiana. Lei è Michael Connelly?
Esatto, sono io.

Piacere.
Piacere.

Ci dica quando è pronto […]
Posso leggere qualcosa?

Ma certo.
Aspettate un attimo, vado a prendere una copia di The Narrows, il mio ultimo romanzo, è il seguito de Il poeta e da voi in Italia è ancora inedito. Un attimo […] Lo devo trovare […]. (rumori di sedie e libri spostati). Eccomi sono pronto.

Allora partiamo.
Forse c’è solo una cosa che so con certezza. Ovvero che la verità non libera le persone. Non tanto quanto la gente pensa e non tanto quanto io me lo sono detto ogni qual volta mi sono seduto in stanzette e celle di prigione, nel tentativo di estorcere una confessione dei peccati commessi da uomini esausti. Gli ho mentito, li ho imbrogliati. La verità non ti regala la salvezza e non ti dona una nuova integrità. Non ti consente di rialzarti dal tuo fardello di menzogne e di segreti e dalle ferite che ti lacerano il cuore. Le verità che ho appreso mi schiacciano a terra come fossero catene di una cella buia, un sottomondo di spettri e vittime che mi strisciano intorno come serpi. È un luogo nel quale la verità non è qualcosa a cui guadare con ammirazione. È un luogo in cui il male è in agguato. Un luogo in cui ti soffia nella bocca e nel naso finché non puoi più sfuggirgli. Ecco cosa so. Non so altro.
Lo sapevo bene quel giorno, mentre prendevo possesso del caso che mi avrebbe fatto entrare nella strettoia. Sapevo che la missione della mia vita mi avrebbe sempre condotto in luoghi in cui il male è in agguato, luoghi in cui la verità che avrei incontrato avrebbe avuto un volto schifoso e orribile. Tuttavia ci andai senza indugio. Ci andai pur non essendo pronto per l’attimo in cui il male sarebbe uscito dal suo nascondiglio e mi avrebbe afferrato come un animale, sprofondandomi nell’acqua nera. (applausi in studio)

Ottimo, perfetto. Possiamo partire con la prima domanda?
Certo.

Com’è iniziata la sua carriera di scrittore?
Possiamo guardarla da due diverse prospettive. A 16 anni, assistendo a un crimine, sviluppai un interesse per la letteratura di genere. C’era stata una rapina con relativa sparatoria e io vidi il rapinatore mentre scappava. Vidi dove aveva nascosto la pistola. Così aiutai la polizia a ritrovare l’arma e in quel modo feci il mio ingresso nel mondo dell’investigazione. Mi portarono alla stazione di polizia, mi fecero delle domande, mi fecero passare in rassegna un gruppo di persone sospettate, di modo che io potessi individuare chi aveva sparato. Fino ad allora, non avevo mai avuto rapporti con la polizia. Dunque fu un’esperienza del tutto nuova e affascinante. Trascorsi 6 o 7 ore insieme ai poliziotti e da quella sera mi misi a leggere storie su di loro, su giornali, libri e romanzi. Nel giro di pochi anni, tutto questo mi spinse alla decisione di voler diventare uno scrittore.

Quando ha deciso di abbandonare la cronaca nera per dedicarsi al thriller?
Fin dal principio avrei voluto diventare uno scrittore di genere e così pensai che uno dei modi per riuscirci sarebbe stato di fare il giornalista e di occuparmi dei poliziotti, e così feci. Facevo il giornalista, dunque, ma l’idea di poter un giorno sfruttare ciò che stavo osservando per scrivere dei romanzi era sempre più dentro di me. Lo feci per 8 o 9 anni, senza dirlo a nessuno, prima di pubblicare il primo romanzo. Scrivevo di notte e facevo esperimenti. Alla fine, pensai di avere del materiale sufficientemente buono per sottoporlo all’attenzione di qualcuno. Il primo libro pubblicato è in realtà il terzo che io abbia scritto. Insomma, per 6 o 7 anni continuai a svolgere due lavori diversi, cercando di migliorarmi di notte come scrittore di noir.

Cosa ricorda della sua esperienza di giornalista?
Ricordo molte cose perché oggi non sarei qui a parlare con voi se non ci fossero state quelle esperienze da giornalista di cronaca nera. È la base di quello che faccio oggi, per cui mi ricordo tanti momenti passati ad assistere al lavoro dei poliziotti. Già al tempo, mi accorsi che alcuni aspetto del carattere delle persone che incontravo erano interessanti e che li avrei potuti trasporre nei miei libri. Penso che quello del poliziotto sia un lavoro molto difficile e dunque tendo a considerarlo una professione nobile. È una ricerca nobile, soprattutto quando si parla di indagini per omicidio. La posta in gioco è alta: si cerca di mettere le mani su persone che hanno ucciso altre persone e che potrebbero farlo ancora. È un lavoro molto importante di cui serbo un forte ricordo. Dunque, spero di averlo raccontato bene nei miei libri.

Era facile per lei raccontare tutti i giorni storie di crimini e delitti?
È molto più facile oggi rispetto a quando facevo il giornalista. Almeno oggi posso distaccarmi dagli orrori della realtà perché so che si tratta solo di letteratura, di immaginazione. Ma mi sono occupato di cronaca nera per circa 12 anni e si tratta di un lavoro che ti logora perché ti occupi ogni giorno delle cose peggiori che possano capitare alle persone. La giornata lavorativa dei membri del Distretto di Polizia di Los Angeles (la squadra omicidi) inizia quando finisce la tua. Si può grosso modo dire altrettanto del giornalista di cronaca nera: le storie di cui si occupa riguardano immancabilmente delle catastrofi, delle calamità. Le cose terribili che succedono alla gente fanno notizia e non si può fare altro che andare avanti a scrivere. Con il passare del tempo, può risultare difficile farlo. Personalmente, nei 6 o 7 anni in cui ho fatto il giornalista e lo scrittore allo stesso tempo, tornarmene a casa tardi la sera e mettermi a scrivere romanzi gialli è stato in un certo modo terapeutico e mi ha aiutato a superare ciò che vedevo e facevo di giorno.

Com’era il suo rapporto quotidiano con la polizia e la magistratura?
Dipende da dove e quando. Gli ultimi 7 anni da giornalista li ho vissuto a Los Angeles dove seguivo la squadra omicidi, un dipartimento molto difficile da penetrare. Los Angeles è una grande città mediatica e il Distretto è molto abile nei suoi rapporti con la stampa. I poliziotti e i media non si fidano gli uni degli altri. È una guerra logorante e lunga. Scrivi storie accurate che raccontano quello che è realmente successo e in tal modo ti guadagni la fiducia dei poliziotti. Nel tempo, in un arco di 6 o 7 anni, sono riuscito a costruire delle ottime relazioni in seno alla polizia. In certi casi, si tratta di rapporti che durano tuttora, nonostante abbia smesso di fare il giornalista da una decina d’anni. Ma all’inizio è stata dura.

I suoi romanzi sono estremamente realistici e ci forniscono uno spaccato sociale dell’America che è molto forte. Si può affermare che non sono solo dei thriller di pura evasione ma che mostrano un forte impegno civile?
Certo che lo può dire. Credo che sia l’obiettivo di ogni scrittore, che lo ammetta o meno: ovvero, di avvicinarsi con la propria scrittura a una forma d’arte. Quello che faccio, lo faccio certamente con la convinzione che si tratti di qualcosa che va al di là del mero intrattenimento. Non si tratta solo di scoprire chi è il colpevole. Nei miei libri cerco di mostrare ciò che accade nella città di Los Angeles. Los Angeles può rappresentare bene la società del mio paese. Pertanto sono convinto che i thriller diano l’opportunità di scrivere una storia sociale, di illustrare, indagare, osservare qualunque tipo di problematica sociale. Con un romanzo thriller lo si può fare e ciò ne fa una cosa importante per me.

Quanto di se stesso Michael Connelly ha messo nel personaggio di McEvoy, il protagonista di Il Poeta?
All’inizio niente. È come se tu scrivessi al buio. Non sai cosa succederà. Ti metti a scrivere un romanzo che non hai nemmeno idea se verrà pubblicato o meno. Pertanto, all’inizio non avevo proprio idea di cosa sarebbe successo e così mi sono detto, «Almeno divertiti un po’.» La mia idea di divertimento consisteva nel creare un personaggio che fosse completamente diverso da me. Per esempio, all’inizio Harry Bosch era molto diverso da me ma ha avuto fortuna, il mio romanzo è stato pubblicato e poi ho scritto altri libri e, senza quasi accorgermene, ho scritto 9 o 10 libri che lo vedono protagonista. Quando un tuo personaggio appare in così tanti libri, risulta difficile mantenere quella separazione. Così, a poco a poco, ci stiamo avvicinando l’uno all’altro. Nei libri più recenti ci sono cose molto ovvie, molto specifiche che condividiamo, mentre nei primi libri non avevamo niente in comune. Oggi, l’idea della paternità che ha Bosch è sostanzialmente quella che anch’io ho. L’ispirazione e la salvezza che in un certo senso ottiene dalla figlia sono le mie stesse sensazioni. Ci sono, insomma, tante piccole cose che oggi ci pongono sulla stessa lunghezza d’onda.

Com’è nato il personaggio di Bosch e cosa lo lega all’omonimo pittore?
Prima di tutto, tengo a dire che sono uno scrittore perché prima di tutto sono un lettore. Prima di iniziare a scrivere, ho letto tantissima letteratura di genere. Prima di scrivere una sola parola, avevo in qualche modo raggiunto una serie di conclusioni. La più importante è che un poliziesco ruota intorno a dei personaggi. I personaggi sono l’elemento più importante. Non voglio dire che la trama non sia importante. È importantissima. Però, a mio modo di vedere, erano i personaggi a sostenere un romanzo. Dunque, non andava mai persa l’occasione per scrivere qualcosa sui personaggi, per esempio anche un semplice nome. Mai gettare via niente. Anche un buon nome poteva essere importante per descrivere bene un personaggio. Ci ho messo un bel po’ di tempo a trovare un nome che mi dicesse qualcosa e che avesse una qualità metaforica. Feci comparire per la prima volta Harry Bosch all’inizio degli anni ’90. Il momento era particolare: Los Angeles era in piena rivolta e le cose stavano davvero sfuggendo di mano. Si respirava un’atmosfera malata. Era come se il mondo stesse andando a catafascio. E così mi tornò alla memoria questo pittore che avevo studiato all’università, Hieronymus Bosch. Tutti i suoi quadri descrivevano un mondo andato in rovina, il caos, il peccato. Ecco come saltò fuori il nome di Bosch. D’improvviso, mi dissi che sarebbe stato un buon nome perché nel mio paese Bosch è un pittore quasi sconosciuto. Ma pensai anche che qualcuno che avrebbe capito a chi mi riferivo ci sarebbe stato. Quel qualcuno avrebbe capito a chi stavo collegando il mio detective e avrebbe afferrato la metafora. Molti altri, invece, non avrebbero riconosciuto il nome e magari sarebbero stati curiosi di scoprire da dove fosse saltato fuori. Così pensai che il nome avrebbe funzionato a ogni livello e lo adottai.

Come definirebbe Bosch e perché secondo lei è entrato subito nel cuore dei lettori?
Il suo successo è tutto sommato un mistero. Se dovessi descriverlo con un solo aggettivo, penso che sarebbe «inarrestabile». Mi piacerebbe che la gente pensasse questo di Harry. La sua è una missione e nessuno lo può fermare. Credo che siccome ognuno desidera essere inarrestabile nel perseguimento del proprio obiettivo, si tratti di una qualità che lo rende vicino alle persone. Si tratta di una qualità, di una caratteristica nella quale molte persone, se non tutte, si identificano, quanto meno per quanto concerne le proprie aspirazioni. Io stesso sono rimasto sorpreso. Non mi sono messo alla scrivania con l’intenzione di creare un personaggio con caratteristiche tali che la gente potesse immedesimarsi in lui. La scrittura a volte è una faccenda mistica, strana, e io mi sono limitato a creare questo personaggio e questo personaggio ha funzionato e ora che è famoso mi capita di guardarmi alle spalle e di domandarmi come mai è così popolare. La ragione è quella che ho appena spiegato ma certo non ho pianificato niente.

Tornando per un attimo ai disordini di Los Angeles del 1992. Che impatto hanno avuto su di lei, come scrittore?
Un grande impatto perché a quel tempo facevo ancora il giornalista. Ero in giro in pattuglia con la squadra urbana che se ne occupava e mi sono venuto a trovare in un paio di situazioni difficili, da brividi. Ho visto gli aspetti più deleteri dell’umanità e anche quelli più nobili. Mi sono trovato nel mezzo di una rivolta di massa e avrei potuto restare ferito o persino ucciso ma in quella massa qualcuno mi ha afferrato e mi ha portato al sicuro. Ho dunque visto inferno e paradiso nello stesso istante e si è probabilmente trattato del momento più significativo — non riesco neppure a trovare l’espressione adeguata — nella mia carriera di reporter. Sono passati molti anni prima che io trovassi la forza di parlarne in un romanzo ma alla fine l’ho fatto in un romanzo che si intitola Il ragno, con il quale ho cercato di descrivere una città che può venire a trovarsi del tutto spiazzata, proprio come L.A. di quei giorni, nel giro di poche ore. È stato davvero stranissimo assistere a quegli eventi nelle vesti di giornalista e quando, cinque o sei anni dopo, ho scritto un romanzo su quegli eventi è stato terapeutico.

Può parlarci di come le venne in mente la trama di Debito di sangue?
È stato un amico che me l’ha suggerita. Gli scrittori assorbono ciò che sta loro intorno e lo fanno proprio. Ma l’ispirazione per gran parte dei miei libri mi viene dalla realtà, da storie vere. Un mio buon amico, che non faceva il poliziotto, ha subito un trapianto di cuore e io ho affrontato insieme a lui tutta la procedura della lunga attesa di un cuore disponibile e poi dell’operazione. Questi pazienti si svegliano dall’anestesia con il cuore appesantito da un terribile senso di colpa: la loro vita è salva grazie alla morte di qualcun altro. Quando il mio amico ha fatto questa esperienza, io da una parte ero semplicemente un amico che cercava di rendergli il percorso meno duro ma dall’altra ero lo scrittore che si rendeva conto di quanto interessante fosse quella vicenda e del fatto che la si potesse sfruttare per scrivere una buona storia. Così gli ho parlato dell’idea di scrivere un libro su una persona che, come lui, aveva subito un trapianto cardiaco e lui fortunatamente mi ha dato il suo benestare e ha accettato di aiutarmi. Insomma, il progetto è nato così. Così ho preso il suo viaggio medico e spirituale e li ho adattati a un poliziotto, appunto Terry McCaleb.

È vero che aveva sempre sognato di fare un film insieme a Clint Eastwood?
Quel che so è che Clint Eastwood mi ha sempre ispirato. Non so dire se davvero io avessi sognato di lavorare insieme a lui. Credo che Harry Bosch incorpori diversi aspetti dell’Ispettore Callaghan (ndt. Dirty Harry). È stato davvero un processo straordinario essere influenzato da questa persona, questo attore, questa icona, e creare un personaggio nei cui panni un giorno lui avrebbe recitato. Insomma, il cerchio si è chiuso e farne parte è stato bellissimo.

Cosa le è piaciuto maggiormente della versione cinematografica di Debito di sangue?
È difficile a dirsi, quando scrivi un libro che poi viene trasposto su pellicola. Per semplificare, è una questione di ego. Ho scritto quel libro cinque anni prima che diventasse un film. Mi trovavo nella mia stanza a creare un personaggio e una storia e pensare che cinque anni più tardi un’icona del cinema americano lo avrebbe impersonato in un film è una cosa talmente incredibile da superare completamente eventuali delusioni relative a modifiche della storia nella sceneggiatura del film. Devo dire che non mi interessa realmente il modo in cui un film tratto da un mio libro viene realizzato. Il libro è mio ed è sacro. Nessuno può cambiarlo. Quando si vendono i diritti di un libro a Hollywood, tocca a loro raccontare la storia. Questo è il mio approccio.

Affiderebbe a Eastwood qualche altro personaggio?
Certo. Tra l’altro lui avrebbe voluto farne altri. Non so se ce ne siano altri disponibili. Immagino non avrebbe nessuna intenzione di recitare il ruolo di Harry Bosch visto che ha già vestito i panni di un altro Harry, (ndt. L’Ispettore Callaghan).

Questa intervista viene pubblicata nell’ambito della collaborazione con il sito http://www.thrillermagazine.it