Uscito postumo, nel 1941, cioè otto anni dopo la morte dell’Autrice, questo romanzo si svolge negli anni Trenta, in una famiglia borghese dove la madre, vedova di guerra, ed i tre figli, due femmine ed un maschio, una sera assistono sbalorditi al ritorno, dopo oltre quindici anni di assenza, del padre Rodolfo. Creduto morto durante la Grande Guerra, è sopravvissuto, ferito e immemore, tra stenti e fatiche fisiche tra Russia e Polonia, finchè l’Ambasciata di Varsavia non lo riesce ad identificare e lo spedisce a casa.
Il corpo di Rodolfo è tornato, ma non la sua mente: apatico, muto, non riesce a comunicare con la moglie, che adorava, e con i figli, lasciati bambini ed ora giovani alle prese con i primi amori. Dialoga all’interno della sua testa, senza mai esprimere con parole o gesti le sue emozioni, le sue paure, a cui l’Autrice ci fa assistere attraverso flashback e monologhi interiori.
Nemmeno i familiari riescono più a comunicare con altri; Delia, la moglie, deve dire addio al corteggiatore Roberto, che avrebbe voluto sposarla e considerava i figli come suoi; Vittorio, il figlio minore, rischia l’onore e viene salvato dall’intervento della sorellina Mariella, a sua volta innamorata persa di un giovane, che la lascerà per seguire il sogno di diventare ricco. Solo Nice, la maggiore, non perde la bussola: si laurea, va ad insegnare a Gallipoli e laggiù si sposa, fuggendo l’atmosfera della casa paterna diventata tossica.
Figure tragiche, infelici e impossibili da salvare, in una Roma dove chiacchiere borghesi e riti del sabato fascista punteggiano di normalità quelle vite che normali non saranno più. La Tartufari ci consegna, insieme con i ritratti femminili di Delia e delle figlie, un personaggio maschile tormentato e complesso, incapace di affrontare il proprio passato e di ricostruire un futuro per sè stesso.
Sinossi a cura di Gabriella Dodero
Dall’incipit del libro:
L’uomo piegato sopra di sè quasi in due, aspettava da un pezzo nell’anticamera del consolato italiano a Varsavia, con la pazienza passiva di una bestia accasciata dopo il lavoro. Quantunque si fosse ancora in agosto, indossava un cappotto dal colletto di pelliccia consumata e le maniche, sfilacciate nelle orlature, lasciavano scoperti i polsi nodosi. Gli zigomi salienti, le mascelle sporgenti, davano alla faccia una espressione avida, mentre la pupilla rivelava un’arida apatia.
Un campanello squillò, l’usciere di servizio aprì la porta, entrò nell’altra camera e riapparve di lì a poco.
— Il signor cancelliere vi prega di entrare — egli disse. E siccome l’uomo non si muoveva, o perchè non avesse udito o perchè non avesse capito, l’usciere alzò la voce, ripetendo la comunicazione in tono perentorio.
L’uomo si alzò, l’usciere spinse il battente e, appena l’uomo fu entrato, lo ritrasse a sè con cautela.
— Cosa c’è? — domandò il cancelliere senz’alzare gli occhi dal giornale spiegato sulla scrivania.
L’uomo si avanzò pesantemente, restando in piedi a distanza.
— Ebbene? — interrogò di nuovo il cancelliere, accendendo una sigaretta e buttandosi indietro sullo schienale della poltrona.
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