Le bestie parlano
di
Grazia Deledda
tempo di lettura: 11 minuti
Una sera di gennaio Fancin il famiglio, che sonnecchiava nascosto fra la parete della stalla e i fianchi caldi ed elastici della vacca rossa stretta a sua volta dai mucchi grigi e neri delle sue compagne, fu svegliato dalle voci delle donne che parlavano di Sant’Antonio abate protettore delle acque, del fuoco e delle bestie. La voce maschia della vecchia padrona pronunziava anche il nome di Fancin; Fancin quindi stette immobile ad ascoltare.
— No, le bestie non parlano; miracoli non ne accadono più, Sant’Antonio abate è in collera con la gente ladra, coi comunisti che non rispettano la roba altrui. Il nostro Fancin, del resto, un anno, mentre nella piazza si faceva la benedizione delle bestie, vide Sant’Antonio volger la testa indietro come per dire: benedite, benedite pure, a me non importa niente!
— Fancin non fa altro che burlarsi del prossimo — disse una voce aspra. — A diciott’anni, grande e grosso com’è non pensa che a ridere e a dir bugie.
— E a dormire e mangiare…
— Ah, brutta stirpe… — mormora Fancin dietro la vacca rossa: ma a difenderlo pensa la sua vecchia padrona. La voce maschia insiste:
— Questa di Sant’Antonio abate non è bugia. Fancin l’ha sempre raccontata: egli ha proprio veduto il santo volger la testa come per dire: benedite, benedite pure, a me non importa un corno.
Ma subito s’udì un trillo, una voce ridente, e tosto Fancin, sebbene ad occhi chiusi, vide la figurina bionda ed il viso rosso della padrona giovane.
— E questo non è un miracolo se non è bugia di Fancin?
— No, Palmira, i miracoli son quelli buoni.
Allora altre voci risuonarono, tutte alte e forti, e la discussione si fece viva, animata, fra il ruminare e l’alitare tranquillo delle vacche, fra il muoversi delle ombre delle teste e dei fusi sulle pareti e sul soffitto. Dal vetro appannato del finestruolo una scintilla della luna che rischiarava la pianura bianca e nera come un cimitero enorme, guardava, e pareva una pupilla meravigliata che in quell’angolo del mondo cristallizzato dal gelo si facesse ancora tanto chiasso.
Fancin ascoltava e si sentiva così beato che gli pareva d’esser disteso dietro la siepe, in una bella sera di giugno, fra il gracidare delle rane.
Ecco la vecchia padrona, il cui viso paffuto e roseo, la falsa trecciolina rossa, gli occhietti lattiginosi, gli zoccoli civettuoli e le calze azzurre giustificano pienamente il nome infantile di Caterinin, eccola trasformata in un bel rospo grassotto, che dirige il coro: la sua voce maschia e sgradevole stona ma vince le altre; e la rosea Palmira, la giovine nuora, è la ranella trillante, e la Peppa che ha il marito mugnaio ed è abituata a gridare per vincere il rumor della ruota, è una vecchia rana un po’ rauca dal troppo gracidare, e solo la Bustighina che nessuno ha mai veduto senza il fuso e la connocchia, simile anch’essa a un fuso, piccolina, magrolina, tutta testa e dalle cui dita il filo grigio e lucente pare esca per virtù naturale, come l’acqua dalla fontana, solo lei ha una voce bassa e monotona di ranocchia stanca, che se ne va lungo il fosso e sta per addormentarsi fra i giunchi nerastri.
Fancin ride fra sé. Le donne discutono ed a momenti si accapigliano, chi sostenendo, chi negando che nella notte di Sant’Antonio le bestie parlano; ed egli pensa: — E loro adesso che cosa fanno? — e il desiderio di spaventarle urlando e mugolando come un bue, gli gonfia la gola. Ma una proposta della ridente Palmira lo richiamò al rispetto delle sue padrone.
— Sentite ragazze, facciamo una cosa: venerdì sera, vigilia di Sant’Antonio, restiamo alzate fino a mezzanotte, facciamo una bella cenetta e così sentiremo se le bestie parlano o no.
— Mi no, mi no! — disse la Bustighina, come parlando al suo fuso. — Io ho paura.
— Quella sì, è una brutta bestia, la paura. E l’avarizia? Brutta bestiaccia anch’essa. Eh, voi, Bustighina, non volete venire per non portare uno dei vostri conigli arrosto…
— Non è per il coniglio, ma io ho paura di stare al buio e se non è buio le bestie non parlano.
— Spegneremo il lume solo dopo la cena e vi daremo la mano.
— Mi no, mi no.
— Ebbene, vecchia avara, se non verrete, io vi ruberò il coniglio. E la mamma ci darà il cappone e la Peppa porterà la farina per fare i gnocchi, e voi Carulina il formaggio parmigiano da grattare e il burro ed io i salamini e due bottiglie di lambrusco, e voi Stellina la zucca arrostita, e tu, Fermina, tre bottiglie… e tu Tognina questo, e voi Cleonice, quest’altro…
Fancin, dietro la vacca, si sentiva di nuovo la gola gonfia dal desiderio di gridare:
— Brave! Invitatemi, ed io porterò il mio appetito…
— Quando saranno andati a letto gli uomini, – via, i maschiacci! – noi quatte, quatte, perdincolina, faremo un po’ d’allegria. Vedrete che Cesar il bifolco ci troverà ancora qui all’alba quando verrà per “governare” le bestie. Ci divertiremo e staremo allegre. Su, Bustighina, sollevate il vostro musino: parlate!
Le donne ridevano, e più di tutte la Caterinin; sì, i tempi son tristi, la gente ladra, i santi sono in collera, ma, perdincolina, quando si tratta di spassarsi un poco, sia pure di venerdì, bisogna ricordarsi che la vita è breve e che più si è vecchi meno giorni restano.
Solo la Bustighina continuava a trarre il filo dalle sue dita ed a raccontare storie di morti, di spiriti, di bestie misteriose, di vendette divine. La sua voce, nel coro delle altre, finiva col mettere come una nota bassa, melanconica ma insistente e paurosa; tale la voce della coscienza nel tumulto delle tentazioni. Ma Fancin dietro la vacca approvava anche quella voce. Bene, bene, tutto può servire ai fini dell’uomo furbo.
Fancin era persuaso di essere quest’uomo. Nei giorni seguenti, mentre le donne non facevano che ridere alludendo velatamente al loro progetto, – i conigli della Bustighina, la farina del mugnaio, le bottiglie, i salamini, i morti, le bestie, la vigilia di Sant’Antonio, tutto era per loro oggetto di scherzo e di allusioni allegre, – Fancin sorrideva fra sé, con l’aria fra beata e inquieta d’un amante che sente approssimarsi l’ora d’un convegno agognato.
Il venerdì mattina, vigilia di Sant’Antonio, Cesar il bifolco sorprese il famiglio nel fienile sopra la stalla in attitudine sospetta. Toltasi la giacca ch’era lunga un metro, Fancin ne aveva distaccato la fodera, e adesso in maniche di camicia nonostante il freddo, praticava un buco nel pavimento, sollevando due mattoni già smossi, ma poi lasciandoli, appoggiati ai travicelli del soffitto della stalla. Il bifolco, un uomo secco e dritto di corpo e d’anima, era lo stesso che una volta, ad un frate questuante che domandava del frumentone, aveva presentato con bel garbo una zappa dicendogli:
— Volete del frumento? Ebbene, eccovi una buona zappa; prendetela: venite meco a zappare; e poi ricordatevi che c’è da fare la incalzatura, la battitura; e poi c’è da portare i cartocci sul fienile… e poi se il vostro buon Dio farà venire la pioggia quando occorre, in modo che il frumento cresca e maturi, ne avrete anche voi la vostra parte…
Il frate era scappato e non s’era più visto: la gente rideva ancora del fatto, ma i servi ed i famigli della vecchia Caterinin rispettavano più Cesar che la padrona, e s’egli si presentava all’improvviso trasalivano anche.
Fancin decise dunque immediatamente di spiegare la sua presenza ad ora insolita nel fienile, e raccontò al bifolco della cena progettata dalle donne e del proposito, da parte sua, di spaventarle per farsi almeno invitare.
Egli non sperava in Cesar un complice; quindi fu doppiamente felice quando l’austero bifolco disse con la calma di un giudice che sentenzia e castiga:
— Ah, birbanti di donne! Noi a letto e loro a gozzovigliare? Sta bene: ora a noi!
E i due complici e giustizieri presero gli accordi necessari: Fancin si mise a cucire la fodera della sua giacca, dandole la forma d’una calza enorme, pungendosi le dita che sembravano rosei salamini, e Cesar portò su nel fienile un grande imbuto arrugginito.
Alla sera il famiglio dovette ripetere alle donne la storiella della sgarbatezza di Sant’Antonio abate, visto da lui ragazzetto a volger la testa dall’altra parte mentre nella piazza i bifolchi distribuivano il pane alle bestie e il prete le benediceva; e Cesar raccontò anche lui un fatto impressionante.
— Sì, le bestie parlano. Qualche anno fa nel Parmigiano un padrone volle rimanere alzato tutta la notte della vigilia di Sant’Antonio per sentire ciò che esse dicevano. Difatti alla mezzanotte precisa un bue si alzò e disse:
— Il padrone…
— Morrà… — rispose subito una vacca; e un altro bue concluse:
— Domani…
Il padrone scappò inorridito e vagò a lungo nella notte gelida. L’indomani lo trovarono svenuto sull’argine del Po; lo portarono a casa, ma dopo qualche ora di febbre violenta morì…
Le donne si guardavano fra loro e ridevano, ma un lieve fremito di terrore vibrava nelle loro risate: la piccola Bustighina sollevò il viso dal suo fuso, ma uno sguardo imperioso della Caterinin glielo fece riabbassare.
La conversazione languiva: era una serata fredda, nebbiosa, e tutti sembravano preoccupati.
Finalmente i vecchi si ritirarono e solo il bifolco ed il famiglio s’indugiavano giocando a carte.
Fancin fissava le sue e si morsicava le labbra rosee per non ridere; ma la dama di picche, alla quale egli pareva ripetesse la storiella di Sant’Antonio, gli sorrideva beffarda col suo viso giallo stretto fra due raspi neri, e il fante di cuori col suo berrettino rosso, la piuma, i lunghi baffi violetti, era così buffo che infine Fancin scoppiò. Fu una risata rumorosa, ma breve, Cesar sotto la panca gli aveva schiacciato un piede.
— Fancin, sei più scemo del solito! Va a letto, che farai meglio: domani mattina devi alzarti presto per pulire le bestie e condurle alla benedizione.
Fancin era un ragazzo obbediente. S’alzò subito e si stirò tutto, piegandosi all’indietro sulla schiena, sporgendo i gomiti e stendendo poi le braccia al di sopra del capo: le sue giunture stridevano come cardini di ferro.
— Vado, vado: sono stanco e farò tutto un sonno.
Il bifolco lo seguì, ed entrambi cauti e tragici come ladri salirono sul fienile.
Le donne stettero alquanto in silenzio, tra il ronfare ed il ruminare delle bestie; e avevano anch’esse sul viso, rischiarato solo a metà dall’oro tremulo di una lampadina posta su un angolo della tavola, qualcosa di tragico come una maschera d’ombra. Ma il trillo della giovine nuora ruppe l’incantesimo.
— Ohé, che si fa, ragazze? Si recita il rosario? Bustighina, e il vostro coniglio come va di salute? Andom, andom! Voi Peppa accendete il fuoco in cucina, e tu, Stellina, e voi Carulina, e voi Cleonice… su, su, fate questo, fate quest’altro… presto… presto… andom, andom che è tardi… prima di mezzanotte tutto deve essere finito, perché come sapete allora bisogna spegnere il lume…
E mentre la Bustighina continua a filare, rigida e melanconica come una Parca, la vecchia Caterinin scuote il capo e sul suo viso di melograno brilla un sorriso d’approvazione, — sì, sì, bisogna affrettarsi, la vita è breve; — e le altre donne si agitano, escono, rientrano, s’incontrano sull’uscio, confabulano, apparecchiano.
Già tutto è pronto sulla mensa improvvisata con due panche unite; il vassoio col salame rosseggia come una macchia di sangue; il coniglio che la Bustighina aveva consegnato vivo e bianco alla Stellina, riappare intero ma tutto coperto da una crosta dorata e raggomitolato come in uno spasimo di terrore; dalla zuppiera coi rosei gnocchi esala una nuvoletta fragrante e le fiammelle dei fuochi fatui della gioia brillano entro le bottiglie nere.
E le donne si dispongono in circolo attorno alla mensa: ciascuna di loro ha in mano una scodella dorata, con dentro un po’ di gnocchi sui quali aspettano che la Palmira versi il vino spumante: silenziose, gravi, sembrano intente ad un rito. La giovine nuora, curva e coi bei capelli biondi dorati dalla luce della lampadina, stura una bottiglia, stringendola fra le ginocchia, e prega sottovoce il tappo di venir fuori, di non far rumore, di non far scoppiare il vetro… Ma il tappo fa tutto il contrario e, come un uccello liberato dopo lunga prigionia, appena tagliata la corda, vola e la spuma rossa del lambrusco lo segue follemente su fino al soffitto.
Allora, come svegliati e offesi da questo soffio di vita e di gioia, i terribili spiriti che pareva avessero per tutta la sera sonnecchiato negli angoli bui della stalla, scoppiarono anch’essi: e una gamba mostruosa apparve fra i travicelli del soffitto, come la gamba d’un gigante che stesse per precipitare sulle donne, e una voce cavernosa, fra muggiti e mugolii, urlò:
A let a let: Santantoni al c’manda;
S’an vrì mia creder
Guardé qé la gambaNota 1
Seguì l’urlo della Bustighina: le donne deposero le scodelle rovesciando la lampada. La vacca rossa si alzò spaventata e mugolò e in un attimo tutte le altre bestie furono su scalpitando e muggendo, fra un rumore di stoviglie rotte, di gridi soffocati, di gente in fuga.
Poi fu buio, mistero: la vacca rossa pareva parlasse con una voce mostruosa e terribile. Allora i due burloni, visto che le donne non tornavano, scesero per la botola del fienile, e il bifolco chiuse con calma la porta e il finestrino della stalla, mentre Fancin si aggirava di qua e di là al buio, cercando, annusando come un cane da caccia.
Fine.
nota 1 – A letto a letto: Sant’Antonio lo comanda;
Se non ci credete
Guardate qui la gamba.
[Torna]
Troverai tanti altri racconti da leggere nella Mediateca di Pagina Tre (clicca qui!)
Scopri sul sito Internet di Liber Liber ciò che stiamo realizzando: migliaia di ebook gratuiti in edizione integrale, audiolibri, brani musicali con licenza libera, video e tanto altro: https://www.liberliber.it/.
Se questo libro ti è piaciuto, aiutaci a realizzarne altri. Fai una donazione: https://www.liberliber.it/online/aiuta/.
QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Le bestie parlano
AUTORE: Grazia Deleddda
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
https://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/
TRATTO DA: {Novelle} 6 / Grazia Deledda - Nuoro : Ilisso, \ 1996 - 278 p. - 18 cm. - Bibliotheca Sarda. Fa parte di: Novelle / Grazia Deledda ; a cura di Giovanna Cerina
SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)