Nell’albergo è morto un tale
di
Luigi Pirandello
tempo di lettura: 12 minuti
Cento cinquanta camere, in tre piani, nel punto piú popoloso della città. Tre ordini di finestre tutte uguali, le ringhierine ai davanzali, le vetrate e le persiane grigie, chiuse, aperte, semiaperte, accostate.
La facciata è brutta e poco promettente. Ma se non ci fosse, chi sa che effetto curioso farebbero queste cento cinquanta scatole, cinquanta per cinquanta le une sulle altre, e la gente che vi si muove dentro; a guardarla da fuori.
L’albergo, tuttavia, è decente e molto comodo: ascensore, numerosi camerieri, svelti e ben disciplinati, buoni letti, buon trattamento nella sala da pranzo, servizio d’automobile. Qualche avventore (piú d’uno) si lamenta di pagar troppo; tutti però alla fine riconoscono che in altri alberghi, se si spende meno, si sta peggio e non si ha il vantaggio, che si vuole, d’alloggiare nel centro della città. Delle lagnanze sui prezzi il proprietario può dunque non curarsi e rispondere ai malcontenti che vadano pure altrove. L’albergo è sempre pieno d’avventori e parecchi, all’arrivo del piroscafo ogni mattina e dei treni durante il giorno, veramente se ne vanno altrove, non perché vogliano, ma perché non vi trovano posto.
Sono per la maggior parte commessi viaggiatori, uomini d’affari, gente della provincia che viene a sbrigare in città qualche faccenda, o per liti giudiziarie o per consulto in caso di malattia: avventori di passaggio, insomma, che non durano di piú di tre o quattro giorni; moltissimi arrivano la sera per ripartire il giorno dopo.
Molte valige; pochi bauli.
Un gran traffico, un continuo andirivieni, dunque, dalla mattina alle quattro fin dopo la mezzanotte. Il maggiordomo ci perde la testa. In un momento, tutto pieno; un momento dopo, tre, quattro, cinque camere vuote: parte il numero 15 del primo piano, il numero 32 del secondo, il 2, il 20, il 45 del terzo; e intanto due nuovi avventori si sono or ora rimandati. Chi arriva tardi è facile che trovi sgombra la camera migliore al primo piano; mentre chi è arrivato un momento prima ha dovuto contentarsi del numero 51 del terzo. (Cinquanta, le camere, per ogni piano; ma ogni piano ha il numero 51, perché in tutti e tre manca il 17: dal 16 si salta al 18: e chi alloggia al numero 18 è sicuro di non aver la disgrazia con sé.)
Ci sono i vecchi clienti che chiamano per nome i camerieri, con la soddisfazione di non esser per essi come tutti gli altri, il numero della stanza che occupano: gente senza casa propria, gente che viaggia tutto l’anno, con la valigia sempre in mano, gente che sta bene ovunque, pronta a tutte le evenienze e sicura di sé.
In quasi tutti gli altri è un’impazienza smaniosa o un’aria smarrita o una costernazione accigliata. Non sono assenti soltanto dal loro paese, dalla loro casa; sono anche assenti da sé. Fuori dalle proprie abitudini, lontani dagli aspetti e dagli oggetti consueti, in cui giornalmente vedono e toccano la realtà solita e meschina della propria esistenza, ora non si ritrovano piú; quasi non si conoscono piú perché tutto è come arrestato in loro, e sospeso in un vuoto che non sanno come riempire, nel quale ciascuno teme possano da un istante all’altro avvistarglisi aspetti di cose sconosciute o sorgergli pensieri, desiderii nuovi, da un nonnulla; strane curiosità che gli facciano vedere e toccare una realtà diversa, misteriosa, non soltanto attorno a lui, ma anche in lui stesso.
Svegliati troppo presto dai rumori dell’albergo e della via sottostante, si buttano a sbrigare in gran fretta i loro negozii. Trovano tutte le porte ancora chiuse: l’avvocato scende in istudio fra un’ora; il medico comincia a ricevere alle nove e mezzo. Poi, sbrigate le faccende, storditi, annojati, stanchi, tornano a chiudersi nella loro stanza con l’incubo delle due o tre ore che avanzano alla partenza del treno; passeggiano, sbuffano, guardano il letto che non li invita a sdrajarsi; le poltrone, il canapè che non li invitano a sedere; la finestra che non li invita ad affacciarsi. Com’è strano quel letto! Che forma curiosa ha quel canapè! E quello specchio lí, che orrore! – Tutt’a un tratto, si sovvengono d’una commissione dimenticata: la macchinetta per la barba, le giarrettiere per la moglie, il collarino per il cane; suonano il campanello per domandare al cameriere indirizzi e informazioni.
— Un collarino, con la targhetta cosí e cosí, da farci incidere il nome.
— Del cane?
— No, mio, e l’indirizzo della casa.
Ne sentono di tutti i colori i camerieri. Tutta la vita passa di là, la vita senza requie, mossa da tante vicende, sospinta da tanti bisogni. C’è giú, per esempio, al numero 12 del secondo piano, una povera vecchia signora in gramaglie che vuol sapere da tutti se per mare si soffre o non si soffre. Deve andare in America, e non ha viaggiato mai. È arrivata jersera, cadente, sorretta di qua da un figliuolo, di là da una figliuola, anch’essi in gramaglie.
Specialmente il lunedí sera, alle ore sei, il proprietario vorrebbe che al bureau si sapesse con precisione di quante camere si può disporre. Arriva il piroscafo da Genova, con la gente che rimpatria dalle Americhe, e contemporaneamente, dall’interno, il treno diretto piú affollato di viaggiatori.
Jersera, alle sei, si sono presentati al bureau piú di quindici forestieri. Se ne son potuti accogliere quattro soltanto, in due sole camere: questa povera signora in gramaglie col figliuolo e la figliuola, al numero 12 del secondo piano; e, al numero 13 accanto, un signore sbarcato dal piroscafo di Genova.
Al bureau il maggiordomo ha segnato nel registro:
Signor Persico Giovanni, con madre e sorella provenienti da Vittoria.
Signor Funardi Rosario, intraprenditore, proveniente da New York.
Quella vecchia signora in gramaglie ha dovuto staccarsi con dolore da un’altra famigliuola, composta anch’essa di tre persone, con la quale aveva viaggiato in treno e da cui aveva avuto l’indirizzo dell’albergo. Tanto piú se n’è doluta, quando ha saputo ch’essa avrebbe potuto alloggiare nella camera accanto, se il numero 13, un minuto prima, proprio un minuto prima, non fosse stato assegnato a quel signor Funardi, intraprenditore, proveniente da New York.
Vedendo la vecchia madre piangere aggrappata al collo della signora sua compagna di viaggio, jersera il figliuolo si volle provare a rivolgere al signor Funardi la preghiera di cedere a quell’altra famigliuola la stanza. Lo pregò in inglese, perché anche lui, il giovanotto, è un americano, ritornato insieme con la sorella dagli Stati Uniti da appena una quarantina di giorni, per una disgrazia, per la morte d’un fratello che manteneva in Sicilia la vecchia madre. Ora questa piange; ha pianto e ha sofferto tanto, lungo tutto il viaggio in treno, che è stato in sessantasei anni il suo primo viaggio: s’è staccata con strazio dalla casa dov’è nata e invecchiata, dalla tomba recente del figliuolo con cui era rimasta sola tant’anni, dagli oggetti piú cari, dai ricordi del paese natale, e vedendosi sul punto di staccarsi per sempre anche dalla Sicilia, s’aggrappa a tutto, a tutti: ecco, anche a quella signora con cui ha viaggiato. Se dunque il signor Funardi volesse…
No. Il signor Funardi non ha voluto. Ha risposto di no, col capo, senz’altro, dopo aver ascoltato la preghiera del giovane in inglese: un no da bravo americano, con le dense ciglia aggrottate nella faccia tumida, giallastra, irta di barba incipiente; e se n’è salito in ascensore al numero 13 del secondo piano.
Per quanto il figliuolo e la figliuola abbiano insistito, non c’è stato verso d’indurre la vecchia madre a servirsi anche lei dell’ascensore. Ogni congegno meccanico le incute spavento, terrore. E pensare che ora deve andare in America, a New York! Passare tanto mare, l’Oceano… I figliuoli la esortano a star tranquilla, che per mare non si soffre; ma lei non si fida; ha sofferto tanto in treno! E domanda a tutti, ogni cinque minuti, se è vero che per mare non si soffre.
I camerieri, le cameriere, i facchini, questa mattina, per levarsela d’addosso, si sono intesi di darle il consiglio di rivolgersi al signore della stanza accanto sbarcato or ora dal piroscafo di Genova, di ritorno dall’America. Ecco, lui ch’è stato tanti e tanti giorni per mare, che ha passato l’Oceano, lui sí, e nessuno meglio di lui, le potrà dire se per mare si soffre o non si soffre.
Ebbene, dall’alba – poiché i figliuoli sono usciti a ritirare i bagagli dalla stazione e si sono messi in giro per alcune compere – dall’alba la vecchia signora schiude l’uscio pian piano, di cinque minuti in cinque minuti, e sporge il capo timidamente a guardar l’uscio della stanza accanto, per domandare all’uomo che ha passato l’Oceano se per mare si soffre o non si soffre.
Nella prima luce livida, soffusa dal finestrone in fondo allo squallido corridojo, ha veduto due lunghe file di scarpe, di qua e di là. Innanzi a ogni uscio, un pajo. Ha veduto di tratto in tratto crescere sempre piú i vuoti nelle due file; ha sorpreso piú d’un braccio stendersi fuori di questo o di quell’uscio a ritirare il pajo di scarpe che vi stava davanti. Ora tutte le paja sono state ritirate. Solo quelle dell’uscio accanto, giusto quelle dell’uomo che ha passato l’Oceano e da cui ella ha tanta smania di sapere se per mare non si soffre, eccole ancora lí.
Le nove. Sono passate le nove; sono passate le nove e mezzo; sono passate le dieci: quelle scarpe, ancora lí, sempre lí. Sole, l’unico pajo rimasto in tutto il corridojo, dietro quell’uscio solo, lí accanto, ancora chiuso.
Tanto rumore s’è fatto per quel corridojo, tanta gente è passata, camerieri, cameriere, facchini; tutti o quasi tutti i forestieri sono usciti dalle loro stanze; tanti vi sono rientrati; tutti i campanelli hanno squillato, seguitano di tratto in tratto a squillare, e non cessa un momento il sordo ronzio dell’ascensore, sú e giú, da questo a quel piano, al pianterreno; chi va, chi viene; e quel signore non si sveglia ancora. Sono già vicine le undici: quel pajo di scarpe è ancora lí, davanti all’uscio. Lí.
La vecchia signora non può piú reggere; vede passare un cameriere; lo ferma; gl’indica quelle scarpe:
— Ma come? dorme ancora?
— Eh, — fa il cameriere, alzando le spalle, — si vede che sarà stanco… Ha viaggiato tanto!
E se ne va.
La vecchia signora fa un gesto, come per dire: — Uhm! — e ritira il capo dall’uscio. Poco dopo lo riapre e sporge il capo di nuovo a riguardare con strano sgomento quelle scarpe lí.
Deve aver viaggiato molto, davvero, quell’uomo; devono aver fatto davvero tanto e tanto cammino quelle scarpe: son due povere scarpacce enormi, sformate, scalcagnate, con gli elastici, ai due lati, slabbrati, crepati: chi sa quanta fatica, quali stenti, quanta stanchezza, per quante vie…
Quasi quasi la vecchia signora ha la tentazione di picchiar con le nocche delle dita a quell’uscio. Torna a ritirarsi in camera. I figli tardano a rientrare in albergo. La smania le cresce di punto in punto. Chi sa se sono andati, come le hanno promesso, a guardare il mare, se è tranquillo?
Ma già, come si può vedere da terra, se il mare è tranquillo? il mare lontano, il mare che non finisce mai, l’Oceano… Le diranno che è tranquillo. Come credere a loro? Lui solo, il signore della stanza accanto, potrebbe dirle la verità. Tende l’orecchio; appoggia l’orecchio alla parete, se le riesca d’avvertire di là qualche rumore. Niente. Silenzio. Ma è già quasi mezzogiorno: possibile che dorma ancora?
Ecco: suona la campana del pranzo. Da tutti gli usci sul corridojo escono i signori che si recano giú alla sala da mangiare. Ella si riaffaccia all’uscio a osservare se facciano impressione a qualcuno quelle scarpe ancora lí. No: ecco; a nessuno; tutti vanno via, senza farci caso. Viene un cameriere a chiamarla: i figliuoli sono giú, arrivati or ora; la aspettano in sala da pranzo. E la vecchia signora scende col cameriere.
Ora nel corridojo non c’è piú nessuno; tutte le stanze sono vuote: il pajo di scarpe resta in attesa, nella solitudine, nel silenzio, dietro quell’uscio sempre chiuso.
Pajono in gastigo.
Fatte per camminarci, lasciate lí disutili, cosí logore dopo aver tanto servito, pare che si vergognino e chiedano pietosamente d’esser tolte di lí o ritirate alla fine.
Al ritorno dal pranzo, dopo circa un’ora, tutti i forestieri si fermano finalmente, per l’indicazione piena di stupore e di paura della vecchia signora, a osservarle con curiosità. Si fa il nome dell’americano, arrivato jersera. Chi l’ha veduto? È sbarcato dal piroscafo di Genova. Forse la notte scorsa non ha dormito… Forse ha sofferto per mare… Viene dall’America… Se ha sofferto per mare, traversando l’Oceano, chi sa quante notti avrà passato insonni… Vorrà rifarsi, dormendo un giorno intero. Possibile? in mezzo a tanto frastuono… È già il tocco…
E la ressa cresce attorno a quel pajo di scarpe innanzi all’uscio chiuso. Ma tutti istintivamente, se ne tengono discosti, in semicerchio. Un cameriere corre a chiamare il maggiordomo; questi manda a chiamare il proprietario, e tutti e due, prima l’uno, poi l’altro, picchiano all’uscio. Nessuno risponde. Si provano ad aprir l’uscio. È chiuso di dentro. Picchiano piú forte, piú forte. Silenzio ancora. Non c’è piú dubbio. Bisogna correr subito ad avvertire la questura: per fortuna, c’è un ufficio qua a due passi. Viene un delegato, con due guardie e un fabbro: l’uscio è forzato; le guardie impediscono l’entrata ai curiosi, che fanno impeto; entrano il delegato e il proprietario dell’albergo.
L’uomo che ha passato l’Oceano è morto, in un letto d’albergo, la prima notte che ha toccato terra. È morto dormendo, con una mano sotto la guancia, come un bambino. Forse di sincope.
Tanti vivi, tutti questi che la vita senza requie aduna qui per un giorno, mossi dalle piú opposte vicende, sospinti dai piú diversi bisogni, fanno ressa innanzi a una celletta d’alveare, ove una vita d’improvviso s’è arrestata. La nuova s’è sparsa in tutto l’albergo. Accorrono di sú, di giú; vogliono vedere, vogliono sapere, chi è morto, com’è morto…
— Non si entra!
C’è dentro il pretore e un medico necroscopo. Dalla fessura dell’uscio, allo spigolo – ecco, ecco – s’intravede il cadavere sul letto – ecco la faccia… uh, come bianca; con una mano sotto la guancia, pare che dorma… come un bambino… Chi è? come si chiama? Non si sa nulla. Si sa soltanto che torna dall’America, da New York. Dov’era diretto? Da chi era aspettato? Non si sa nulla. Nessuna indicazione è venuta fuori dalle carte, che gli si sono trovate nelle tasche e nella valigia. Intraprenditore – ma di che? Nel portafogli, solo sessantacinque lire, e poche monete spicciole in una borsetta nel taschino del panciotto. Una delle guardie viene a posare sulla lastra di bardiglio del cassettone quelle povere scarpe scalcagnate che non cammineranno piú.
A poco a poco, per liberarsi dalla calca, tutti cominciano a sfollare, rientrano nelle loro stanze, sú al terzo piano, giú al primo; altri se ne vanno per i loro affari, ripresi dalle loro brighe.
Solo la vecchia signora, che voleva sapere se per mare non si soffre, rimane lí, innanzi all’uscio, non ostante la violenza che le fanno i due figliuoli; rimane lí a piangere atterrita per quell’uomo che è morto dopo aver passato l’Oceano, che anch’ella or ora dovrà passare.
Giú, tra le bestemmie e le imprecazioni dei vetturini e dei facchini che entrano ed escono di continuo, hanno chiuso in segno di lutto il portone dell’albergo, lasciando aperto soltanto lo sportello.
— Chiuso? Perché chiuso?
— Mah! Niente. Nell’albergo è morto un tale…
Fine.
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TITOLO: <Nell'albergo è morto un tale
AUTORE: Pirandello, Luigi
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Novelle per un anno / Luigi Pirandello ; prefazione di Corrado Alvaro. - Milano : Club degli editori, stampa 1987. - 2 v. (1383, 1251 p.) ; 23 cm.
SOGGETTO: FIC004000 FICTION / Classici